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de la miseria che tutti veggiono : scellera-
to se veggendola, palpa gl' iniqui, e con-
forta il pubblico sonno con vuote e femi-
nee cantilene, poco dissimili da quelle che
le nudrici cantano sovra le culle. Ora al
vedere la diletta patria in grande infer-
mità, Dante gridò da' suoi poemi alcune
parole acerbissime: come già Catone il
maggiore quando alla ringhiera della piaz-
za fulminava i costumi di Roma (1), di-
cendo che con ferro e con fuoco si dove-
vano sanare le piaghe che la guastavano.
E tali pure suonarono le rigide orazioni
di Socrate, di Publicola e di Solone, che
furono i cittadini più grandi de' più gran-
di popoli. Alla guida di costoro adunque
andò il grave e nobilissimo nostro poeta,
degno di vivere al tempo di que' vecchi:
perchè tutto pieno di quell' antico animo
nulla curante di farsi grato a' suoi: non
di ricovrare le ricchezze, i magistrati, e la
perduta casa: ma solo di ritornare la sua
nazione all'onore smarrito. Il che aperta-
mente si dichiara per que' luoghi stessi che
si recitano a provarlo cittadino maligno.
Perciocchè ivi scaglia, è vero, tutti i dardi,

(1) Plut. in vit. Cat. magg

anzi i fulmini della eloquenza: ma SOvra i rei, non sovra i buoni; contra il malguidato governo, non contro la città; la quale pietosamente ei sospira dal duro esilio e la vuole pura d'ogni macchia: e le ricorda la pristina sua virtù, per lo benedetto desiderio di vederla ricondotta nell'antico suo lume. Che s' egli mette alcun accento di dolore, questo non si move già per gli stimoli d'una cieca e matta rabbia, ma per quelli d'una indignazione tutta alta e gentile, poco dissimile dalla misericordia.

Lo sdegno de' forti animi è un affetto арpieno distinto dall' ira che consuma i vigliacchi: quantunque chi non guardi dentro le ragioni dell'etica, sembri l'ira essere poco diversa dallo sdegno. Imperocchè le passioni umane sono simili ad un gruppo d'ami posti l'uno sull'altro, che agitati con impeto or qua or là nelle tempeste dell'animo, s' intricano meravigliosamente in molti nodi: nè in quel meschiamento è vista così viva, la quale di subito valga a discernere i simiglianti. Ma se i filosofi vi rechino i loro ordini, ecco il viluppo distrigasi: i nobili affetti sono separati dai vili: e le ingiuste opere dalle giuste. Quindi in Aristotele leggeremo non

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potersi lo sdegno, tuttochè gagliardissimo, appellare col nome dell' ira la quale egli pone e chiama un appetito di far vendetta che paja vendetta. Mentre la Nemesis, ossia lo sdegno, è un affetto magnanimo, anzi un vero indicio di virtù: il quale procede da costume ottimo, siccome la pietà. Imperciocchè veggiamo essere disdegnosi coloro che meritano d'avere larghi premj: e trovandoli posseduti dai poco degni, se ne turbano giustamente, essendo iniquo che il vizio sia in onore, e la virtù in dispetto. Sono ancora sdegnosi gli uomini prodi e valenti: ed hanno a schifo le arti malvage, e i perduti che le adoprano. E in ciò fanno bene. Perchè gran parte di virtù è il disdegnare gl' indegni: siccome colmo d'ogni vizio è l'essere avversario de' buoni. Ma gli animi servili e gli abietti, e que' che consumano la vita senza fama e senza voglia di fama, non sono disdegnosi mai: solamente sono iracondi. Questi affetti così contigui hanno adunque una eterna lite intorno ai limiti loro: e il prudente debbe tanto procacciare che gli uni non si confondano cogli altri, quanto si conviene i vizj essere al tutto lontani dalle virtù e dividere i pazzi guastatori delle repubbliche dai savj mantenitori di quelle.

III. Ma perchè non vogliamo che le nostre quistioni si sciolgano per le sole generali sentenze de' filosofi, cerchiamo quel modo singolare, onde la disonesta ira chiaramente distinguesi dalla indignazione onesta: il quale sta nel misurare le parole degli sdegnosi colle ragioni da cui sono mosse. Le quali ragioni poi sono da trovare nella condizione delle cose, de' tempi e delle persone. Ond'è che se gli antichi storici Toscani racconteranno quel medesimo che gia cantò il Toscano poeta, se il dire di lui non si andrà ampliando oltre la stima del vero, non voremmo sostenere che si dica = che Dante in ogni cosa accrebbe infamia alla patria (1).

Ma egli ch' ebbe ingegno acutissimo, e quasi d'indovino, tra l'altre cose pare prevedesse questa: cioè che i posteri avreb bero coperta la sua virtù di nomi odiosi che la simigliassero al vizio. Quindi fece che il buon Cacciaguida dicessegli nel Paradiso che la sua voce sarebbe stata molesta nel primo gusto; e quando poi fosse dige sta avrebbe lasciato nudrimento vitale (2). Il

(1) Dialog. delle lingue, pag. 530. Ed. Com. (2) Paradiso, c. 17. v. 130.

che ridice aperto nel Convivio; in cui narra di sè medesimo così = In quanto poteva gli errori della gente io abominava, e dispregiava, NON PER INFAMIA O VITUPERIO DEGLI ERRANTI, MA DEGLI ERRORI: poi soggiugne che si propose di gridare alla gente che per mal cammino andavano, acciocchè PER DIRITTO CALLE SI DIRIZZASSERO (1). Per le quali parole si fa manifesto l'intendimento del poeta. e il fine di que' suoi rimproveri ond' ei pensava giovare ai cittadini dell' amata Firenze. Nè d' altrui chiosa è mestieri, mentre chi scrive interpreta sè stesso, ed apre la propria voglia. Quindi sia questo solo il proemio di quello che per noi si verrà dicendo: fondati sempre in quella sentenza bellissima del beato Agostino = Nobile natura de' buoni ingegni è, nelle parole amare il vero intendimento: non le parole tanto (2)

Giugne il poeta nel terzo cerchio, dove sotto la fredda piova giacciono que' maledetti che vi scontano la colpa della gola. Ivi trova il Fiorentino Ciacco. Gli chiede a che debbano venire i cittadini della divisa patria. Colui risponde: ch'ei verrebbero al sangne: perchè

(1) Conv., pag. 164.

(2) Aug. de Doctr. Chr., 4.0

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