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Del nostro amor tu hai cotanto affetto, Farò come colui, che piange e dice. Noi leggevamo un giorno, per diletto, Di Lancilotto, come Amor lo strinse: Soli eravamo, e senza alcun sospetto. Per più fiate gli occhi ci sospinse

Quella lettura, e scolorocci 'l viso:

Ma solo un punto fu quel, che ci vinse.

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Noi udiremo e parleremo a vui, Mentre che il vento, come fa, si tace: sono palesemente tratti da Virgilio, appresso al verso sopraccitato dice: Et nunc omne tibi stratum silet aequor, et omnes, Adspice, ventosi ceciderunt murmuris aurae: cosa non indarno da noi osservata.

Nè gli caddero della mente quelle parole che appo Virgilio son dette da Enea a Didone. En. II, 10:

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Sed si tantus amor casus cognoscere nostros El breviter Trojae supremum audire laborem: Quamquam animus meminisse horret, luctuque Incipiam. (refugit, Piange e dice. Il Conte Ugolino quasi con identica locuzione (Inf. XXXIII, 9): Parlare e lagrimar vedrai insieme. (Vedi) 127. Quasi tutte l'ediz. hanno Leggiavamo in questo verso, siccome corravamo nell' VIII, 31. di questa cantica, tranne la Nidobeatina. Alle quali inflessioni fecero mal viso il Poggiali e il Mastrofini, nonchè già i grammaticuzzi. Dante (dice il primo dei lodati autori) e i suoi contemporanei non poterono con tutta la loro autorità far vivere queste sconce inflessioni fino ai tempi nostri; e l'altro dice che sono improprie e da cansarsi, perchè confondono le coniugazioni. Rimandiamo chi vuole le ragioni di tali cadenze all' Analisi critica de' verbi italiani di Vinc. Nannucci (Fir. 1843, Le Monn.pag.142 seg.), contenti a questo so

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lo di recarne altri esempi, nonchè in poesia, ma in prosa allegate da quel filologo. Bonaggiunta Urbiciani:

Membrando la gioia nostra
Ch'avavamo, bella, insembra.
Luigi Pulci nella Beca:

Vegnavamo io, Beco, Tonio e Meio.

Il Bocc. G. II, nov. V: Poche dico per rispetto alle molte, le quali avavamo.G. III, nov. VII: Noi piagnemo colui, che noi credavam Tebaldo. G. IV, nov. I: Maestro, noi nol sapavamo..... Nel volgarizz. di Albertano, Libro del Consol. e del Consigl. Cap. L. Noi lo devavamo dire prima a te.....- Imperò che noi non sapavamo che le preditte cose piacessero....... non vi l'ardavamo di muovere. Ridotti per parità di forma i verbi della seconda e terza congiugazione alle inflessioni della prima, nell' imperfetto dell' indicativo si scrisse dagli antichi:

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Amavamo Temavamo Leggiavamo Sentavamo Amavate Temavate Leggiavate Sentavate che quantunque poca fortuna incontrasvecchie, se non antiche monete, le quali sero nel corso del tempo, son come le si voglion conoscere, quale che stato fosse il loro valore; e non si vuol dispregiarle, per ciò ch' elle non s'abbiano il ruspo del nuovo conio.

132.Punto si può intendere egualmente bene del tempo,che dello spazio: dico dell'istante e momento, ovvero del passo o luogo del libro, dove si contava:

Di Lancilotto come amor lo strinse. Uno o l'altro che sia, codesto punto, che vince, suppone un combattimento ed un ostacolo alla vittoria; cioè la ripugnanza al fallire e l'avversione che vi ha ogni onesto. Coll'amoroso desiderio nacque gemello ne' due amanti l'orrore che ciascheduno ebbe, l' una a tradire il

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Questi, che mai da me non fia diviso,

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La bocca mi baciò tutto tremante.

Galeotto fu il libro, e chi lo scrisse:
Quel giorno più non vi leggemmo avante.
Mentre che l' uno spirto questo disse,
L'altro piangeva sì, che di pietade
Io venni meno come s' io morisse;
E caddi, come corpo morto cade.

marito, l'altro il fratello. Ma in un ato-
mo di tempo la ragione s' ecclissa e il
cieco figliuol di Venere ottiene il trion-
fo. Per un sol punto di smarrimento in-
tellettuale, Paolo e Francesca cadono nel
fallo che costò loro la vita; come intor-
mentito sonniferava il poeta, quando nel
punto fatale si trovò, senza saper come,
nel fondo della selva oscura:

l' non saprei ridir com'io v'entrai,

Tanto era pien di sonno in su quel punto Che la verace via abbandonai. Questo punto, in cui non è chi trovar non si possa, scusa quanto si può l'umana debolezza di chi, più gentile, va più soggetto alla prepotenza di Amore. Il tragico fatto avvenuto nella città di Pesaro nel 1289, sendo ancor fresco nelle menti de' vivi, e destando non sai dire se più biasimo, o più pietà; l'Alighieri lo seppe sì colorire, da renderlo uno de' più nobili episodi del divino poema, e meritarsi l'affetto di Guido da Polenta padre della Francesca, il quale onorevolmente accolse in sua casa l'esule poeta, e di lui defunto volle egli stesso dir l'elogio, e le ceneri onestare di splendido monumento.

Di tanto valore son le voci punto e vinse, poste con sommo studio, nell'addotto verso, dal sovrano poeta.

141. Morisse per morissi. Il nostro Poeta non fu nè solo a usar questa inflessione,nè ciò fece senza ragione. Perciocchè la prima e seconda sing. dell'imperfetto soggiuntivo, che ora esce in i, terminavasi anticamente in e indipendentemente dal verso e dalla rima. Leggansi gli scrittori de' primi secoli di nostra favella,e se ne troverà esempi a gran dovizia. Cotesta desinenza è primitiva,sì perchè ne venne dalle inflessioni laline amassem, amasses, amasset ec. tolte le

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consonanti finali; e sì perchè le persone singolari del Congiuntivo si vollero in origine conformate a quelle dell' Indicativo e Imperativo, le quali finivansi in e. Essa è perciò stata comunemente in uso appo tutti gli scrittori, nè soltanto nostri, ma eziandio nelle lingue romanze, come ha dimostrato il Nannucci.

Jacopo da Lentino:

Io m'aggio posto in core a Dio servire
Com'io potesse gire in Paradiso.
Ma non lo dico a tale intendimento
Perch'io peccato ci volesse fare.
Dante adopera sovente questa uscita:
come Inf. XIII, 25.-Purgat. VIII, 46.-
XXX,
II, 85.-IX, 31.—XVII, 46.
42 ec. E fuori di rima, Purgat. XV, 58:
Io son d'esser contento più digiuno,
Diss'io, che se mi fosse pria taciuto.
Ruggerone da Palermo (1230):
Ben paria ch'io morisse

Membrando di sua dolce compagnia. Lucano: Come Pompeo parlò ec. Certo io vorrei ch'io morisse imprima, acciò che gli altri iscampassero senza danno.

Per la seconda persona, ecco, fra i mol-
ti che addur si potrebbero, qualch' esem-
pio. Fra Jacopone, Lib. VI, C. XVI, 28:
E credo che perciò tu non parlasse.
Brunetto Latini, Tes. Cap. XVI:
E se avanzasse un poco
Non dismagar di loco.
Il Pulci, nella Beca:

Io mi sentii così lacero il core

Come stu 'l foracchiasse col bastone. E pur questi fu di tanto posteriore a quegli antichi! Prima di tutti Ciullo d'Al

camo:

Poi che annegasseti

Trobare' ti alla rina.

Per una simigliante ragione vedremo altrove (Inf. IX, 60) usata la desinenza in i ove oggi si vuole in e. Delle quali antiche inflessioni si trova un' orma nel nostro vernacolo calabrese.

CANTO VI.

Terzo cerchio. - I Golosi.

Al tornar della mente, che si chiuse
Dinanzi alla pietà de' due cognati,
Che di tristizia tutto mi confuse,
Nuovi tormenti e nuovi tormentati

Mi veggio intorno, come ch' io mi muova,
E come ch' i' mi volga e ch' io mi guati.
Io sono al terzo cerchio della piova

Eterna, maledetta, fredda e greve:
Regola e qualità mai non l' è nuova.

1. Ser Brunetto Latini:

Certo lo cor mi parte Di cotanto dolore,

Pensando 'l grande onore

E la ricca potenza

Che suole aver Fiorenza

Quasi nel mondo tutto.

Ond'io in tal corrotto (cruccio)

Pensando a capo chino

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tare, gioverà tener conto della nozione che gli è propria, onde si differenzia da Guardare e Mirare. Dante qui guata, non guarda, nè mira; poichè sta sempre in sospizione di male che potesse incontrargli in que' luoghi diabolici, tra anime disperate, e tra nuovi e strani tor

Perdei il gran cammino,(la strada maestra) menti. Egli è sempre atteso ad osserva

E tenni alla traversa

Ma tornando alla mente, Mi volsi e posi mente ec.

Io sospetto che da questo luogo del Tesoro di Ser Brunetto abbia preso il nostro P. il concetto di que' versi (Inf. V, 109 cc.):

Da che intesi quell'anime offense

Chinai il viso e tanto il tenni basso
Finchè ec.

Brunetto avea detto: Pensando a capo chino ec.

E il tornar della mente da: Ma tornando alla mente ec.

Tra la caduta di Firenze dal suo felice stato, e la miseria della Francesca da Rimini v'era anche alcuna somiglianza.

6. Questa terzina se non frantesa, resterà non intesa in tutta la sua forza, chi passerà lievemente sulle parole Nuovi e Guati, senza comprenderne l'intimo valore, che il Poeta loro divisò attribuire acconciamente in questo luogo.

Quanto alla voce Nuovo abbiam tanto ragionato, che basti, nel canto seguente (Inf. VII, 20) dove rimettiamo il cortese lettore.

Per ciò che appartiene al verbo Gua

re e notare nella sua mente tutte quelle scene, per saperle poi rappresentare, e i fatti ridire altrui: e ciò fa non come chi guardi, attentamente che fosse, con franchezza e disinvoltura; ma quasi come chi fa capolino ficcando il lume della vista pe' buchi e per le fessure; o più propriamente siccome colui, che apposta altri ; e appiattato attende e guarda di nascosto se quegli vi passi. Guatare, dal Guaitare de' Provenzali che diede ai nostri antichi scrittori la frase: porsi in guaito, o aguaito, o, come noi diciamo, porsi o stare in agguato, cioè in luogo onde uno veda e non sia veduto. È da questo la sentita differenza tra Guardia o Guarda (ch'è da Guardare come Scolla o Ascolta da Ascoltare), e Guaito o Agguato (provenz. guayla) da guatare: significando il primo chi sta pubblicamente alla custodia d' un luogo ec. il secondo chi stassi in occulto per nascosi e suoi propri disegni. In antico Franc. Gait e Gaiter. Il Du-Cange: Gaita excubiae, vigil ipse, speculator.- Gailare, excubias agere. I Modanesi dicono ancora Sguailare, per attentamente osservare i fatti segreti degli altri.

Grandine grossa, ed acqua tinta, e neve Per l'aer tenebroso si riversa: Pute la terra che questo riceve. Cerbero, fiera crudele e diversa, Epperò Virgilio al Poeta nostro: Non ragioniam di lor, ma guarda e passa dove avrebbe detto impropriamente: ma guata e passa. Guatare differisce eziandio da mirare: questo mirare viene indubitatamente dal mirari latino, che porta seco un senso di maraviglia, prodotta dalla vista di alcuna cosa; ma non dinota come il Guatare quel guardare intentivo, ch'è detto. Il Passavanti: Non le si appressi e non la guali fiso, ma mirila e lascila stare. Guatare non è dunque Mirare. Dante spesso non apre la sua mente se non a chi fa gran momento della primitiva e propria accezione delle voci. Ma non sempre gli scrittori usarono le voci secondo che rigorosamente avrebbe dimandato la loro vera e propria significanza.

13. Cotesto aggiunto diversa, così assoluto, fa presumere che la voce abbia una significazione di più valore, che nei costrutti ordinari, come ad esempio in quel di Torquato Tasso:

Spesso l'ombra materna a me s'offria Pallida immago e dolorosa in atto; Quanto diversa, ohimè, da quel che pria Visto altrove il suo volto avea ritratto ! il quale luogo, come ognun sa, è un' imitazione del Virgiliano:

Quantum mutatus ab illo ec. (a). La novità, la stranezza, la mostruosità, l'enormezza ed irregolarità della forma di quel Vermo a tre gole, non è dubbio che non possa meritargli l'epiteto di

(a) Talvolta l'esser come tipo a sè stesso, cioè tale a cui non sia chi s'assomigli, è ciò che costituisce forma senza legge o mostruosità: ma anche in tal caso è difformità e allontanamento dalla norma o regola,secondo la quale si fanno le cose e si producono; imperocchè la diversità avrebbe l'uno e i tutti come elementi obiettivi della relazione. Il Tasso Gerus.:

....E ne' costumi è tale,

Che sol ne' vizi a sè medesmo è uguale. Si dice anche d'un uomo cattivo ch' egli sia diverso da sè, cioè, mutato di quel che prima si era. Da te diverso e da' principi tuoi. (Idem) Sempre vi sono i due termini di paragone. Qui a fiera... diversa si potranno, avvegnacchè duramente, supplire le altre parole: dalle altre fiere: come taluno intende.

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diverso, de-versus, volto, quasi, od uscilo dalla via ordinaria e dalle regole di natural proporzione; epperò non ne pare diversa, nè strana la spiegazione data dai comentatori, dicendo fiera... diversa voler dire strana e altramente fatta che le altre: nulladimeno sospettiamo, cotesta chiosa non essere in tutto adeguata al concetto del Poeta; dovendo, dopo le parole fiera crudele apposte a Cerbero, ogn' altro aggiunto non essere, per lo manco, di minore forza. Anche perchè il lupo è fiera crudele e diverso dalla tigre, e questa dalla pantera; e la pantera altramente fatta che il coccodrillo ec. sicchè si farebbe parlar Dante da men che suo pari. Dippiù la diversità può prendersi in buona, come in mala parte; per la qual cosa, quando anche il molosso infernale fosse detto diverso, per le sue tre gole che lo fanno mostruoso, terribile, spaventevole e differente di quanti altri cani, mastini, e fiere sono a nostra notizia; noi pur diremo notabile codesto uso della voce diversa, che il Poeta fa senza esprimere ambi i termini, tra cui verte la diversità (b).

Or, avendo noi trovato nel dialetto Ferrarese la voce diverso voler dire malvagio, destro, astuto; ci è parso bene

(b) Il Tommaseo: Diversa dalle fiere note. Diversa. Di-verto. Perversa, di specie mostruosa. Inf. XXXIII: Uomini diversi ď ogni costu me... Vita Nuova: Visi diversi ed orribili a vedere. Ma ove si trovasse un significato insito alla voce diverso, il quale non implicasse relazione; non sarebbe mestieri ricolmare, per supplementi di molte parole, quel vuoto che lascia il costrutto ellittico. Ancora; quando si dice: Diversi d'ogni costume può significare traviati, sviati d'ogni buon costume, iti lungi dal retto sentiero della morale; nel qual caso non si desidera il termine della relazione. E infatti nell'addotto verso dantesco le parole: ogni costume e ogni magagna pare sien posti per significare: uomini nudi d'ogni virtù, sozzi d'ogni vizio. Finalmente, ove lo stesso Dante disse: Visi diversi e orribili a vedere potè, anzi che una, notare due cose, cioè le svariate e differenti forme di tanti brutti visacci; siccome il Tasso dice:

E in nuovi mostri e non più intesi o visti
Diversi aspetti in un confusi e misti.

Con tre gole caninamente latra

Sovra la gente che quivi è sommersa.

Gli occhi ha vermigli, e la barba unta ed atra,

El ventre largo, e unghiate le mani:
Graffia gli spirti, gli scuoia ed isquatra.

Urlar gli fa la pioggia come cani:

Dell' un de' lati fanno all' altro schermo:
Volgonsi spesso i miseri profani.
Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo,
Le bocche aperse e mostrocci le sanne:
Non avea membro che tenesse fermo.
E'l Duca mio distese le sue spanne,

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tolta l'idea del suo Cerbero: ma l'averlo chiamato il gran vermo si deve,giusta gli eruditi, all'imitazione del luogo seguente ch'è della visione di Frate Alberico: Post haec omnia ad loca tartarea, et os infernalis baratri deductus sum, qui similis videbatur puteo (b), loca vero eadem horridis tenebris, stridoribus quoque et minis plena erant ejulatibus (c), juxta quem infernum VERMIS erat INFINITAE MAGNITUDINIS ligatus maxima catena. (L. Tosti Stor. della Badia di Mont. Cassin. tom. II, pag. 106 segg.).

Ad ogni modo, poichè Cerbero coi suoi latrati è figura della coscienza rea, ch'è rosa dal verme del rimorso; ben s'avvisò il Tommaseo, che Dante l' appellasse Verme non solo perchè questa voce valse in antico a significare qualunque sia fiera schifosa; ma perchè Isaia (LXVI, 24) dice de' malvagi: Vermis corum non morietur. Il Pulci, IV, 15: chiama crudel vermo un leone, a cui Rinaldo spiccò il collo d'un tratto. Ma sì questo poeta, come l'Ariosto, ed altri dopo Dante, poterono usare il detto vocabolo per istudio d'imitazione.

25 e seg. Qui Virgilio, che conduce Dante, fa ciò che nel VI dell' Eneide (v. 419 seg.) fece la Sibilla, che menò Enea per l'inferno. L'uno gitta nelle gole di Cerbero una giumella d'arena; l'altro lo

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