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20. Tu proverai si come sa di sale

Lo pane altrui, e com'è duro calle Lo scendere e 'l salir per l'altrui scale. 21. E quel che più ti graverà le spalle,

Sarà la compagnia malvagia e scempia
Con la qual tu cadrai in questa valle:

la mia parte. CARAMENTE. Ovid. Trist., I, 3: Noctem, qua tot mihi cara reliqui. Della moglie non parla; ma nè manco de' figli nè il silenzio dimostra ch' egli odiasse la moglie od i figli. Ell'era, sì, congiunta de' Donati; ma con che dolci parole non vediamo noi rammentata Piccarda sorella di Corso! Dante non nominò la moglie per la ragione stessa che non osò senza scusa pronunziare nella Cantica il proprio nome. Ebbe di lei molti figli : altri morti in tenera età, parecchi sopravvissutigli di gran tempo. A Pietro s'attribuisce un commento del suo poema. Iacopo ne diede il sunto in terzine: una figliuola fu monaca in Ravenna e la repubblica di Firenze le inviò sussidii per man del Boccaccio. Nel 1321 era a Ravenna anche Pietro, segno alle angherie del cardinal del Poggetto. Dante medesimo raccolse in Ravenna la figlia allora di 18 anni circa. Nel 1344 troviamo atti segnati da Pietro di Dante, co' quali vende alcuni de' suoi beni di Firenze e del contado: una villa è comprata da un Portinari, forse a commemorazione di Bice. Pietro fu dotto di latino e di greco; e la memoria, se non l'ingegno, gli sarà stata fecondata dal consorzio del padre. ESILIO. Georg., II: Exilioque domos et dulcia limina mutant. Æn., X: Nunc misero mihi demum Exilium infelix, nunc alle vulnus adactum.

SAETTA. Semint. Saettò le sactte mortali. Bocc.: Questo strale che è il primo che esilio saetta, sia (e specialmente improvviso) di gravissima noia e pena a sostenere.

20. (SL) Tu. Conv., I, 3: Nè altri contro a me avria fallato, nè io sofferto avrei pena ingiustamente; pena, dico, d'esilio e di povertà. Poichè fu piacere de'cittadini della bellissima e famosissima figlia di Roma, Firenze, di gettarmi fuori del suo dolcissimo seno... per le parti quasi tutte alle quali questa lingua si stende, peregrino quasi mendicando sono andato, mostrando contro a mia voglia la piaga della fortuna che suole ingiustamente al piagato molte volle essere imputata. Veramente io sono stato legno senza vela e senza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertà: e sono vile apparito agli occhi di molti: che forse per alcuna fama in altra forma mi aveano imaginato; nel cospetto de' quali non solamente mia persona invilío, ma di minor pregio si feo ogni opera sì già fatta come quella che fosse a fare. DURO. En., VI: Iler durum.

(F) Tu. Prov., XXIII, 1, 2, 3: Quando sederis ut comedas cum principe, diligenter attende quæ apposita sunt ante faciem tuam.... Si tamen habes in potestate animam tuam... ne desideres de cibis ejus, in quo est panis mendacii. Eccli., XXIX, 30: Improperium peregrinationis non audies. XL, 29: Melius est.... mori, quam indigere.

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22. Che tutta ingrata, tutta matta ed empia Si farà contra te: ma poco appresso Ella, non tu, n'avrà rossa la tempia. 23. Di sua bestialitate il suo processo

Farà la pruova, si ch'a te fia bello Averti fatta parte per te stesso. 24. Lo primo tuo rifugio e 'I primo ostello Sarà la cortesia del gran Lombardo, Che 'n su la Scala porta il santo uccello: 25. Ch'avrà in te si benigno riguardo,

Che del fare e del chieder tra voi due
Fia primo quel che tra gli altri è più tardo.

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(SL) PROCESSO. Conv., I, 2: Lo processo della sua vita, la quale fu di malo in buono e di buono in migliore. Conv., IV, 5: Non pur per umane ma per divine operazioni andò il suo processo. Gio. Vill. I processi del Duca (i parlamenti). Processo s'oppone a principio. Som. Quæ sunt multa processibus sunt unum principio. Vieri de' Cerchi de' Bianchi cadde a mal fine. E i Bianchi tentarono invano nel giugno del 1304 tornare in Firenze per forza d'armi. De' consiglieri di quella spedizione, al dire di Leonardo Aretino, fu Dante : ma forse e non istette alla battaglia che fu mal guidata dal conte Alessandro di Romena, da lui cacciato in Inferno (XXX); l'Anonimo: La qual cosa divenne quando elli si oppose che parte Bianca... ... non richiedesse li amici il verno di gente, mostrando le ragioni del piccolo frutto: onde poi, venuta la state, non trovarono l'amico com'elli era disposto il verno: onde molto odio ed ira ne portarono a Dante; di che elli si parti da loro... E... elli ne furono morti e diserti in più parti grossamente, si quando elli vennero alla cittade con li Romagnuoli, si a Piano, si in più luoghi, e a Pistoia ed altrove. PROVA. Un antico: L'opera lo giudichi. PARTE. Inf., XV, t. 24: Che l'una parte e l'altra avranno fame Di te; ma lungi fia dal becco l'erba. Dapprima e' sperava d' essere invocato da ambo le parti: da ultimo si vide ridotto a farsi parte da sè. Non conosceva, l'infelice, in sul primo che valesse dire fazione politica. TE. Æn., VII: Magnique ipse agminis instar. XI: Spes sibi quisque.

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24. (L) DEL GRAN LOMBARDO: di Bartolomeo. IL SANTO UCCELLO: l'aquila.

(SL) PRIMO. Ott.: Signori, ovvero Tiranni, della Scala. Reggeva allora Verona Bartolomeo della Scala, morto nel maggio del 1304, ch'aveva per insegna un'aquila sovra una scala, prima assai che Arrigo facesse Can Grande e Alboino vicarii dell' impero. D'Alboino nel Convivio è parlato con ispregio, e senza sconoscenza; perchè Cane e Bartolomeo furono benefattori al Poeta nè, durante la signoria d'Alboino con Cane, viss' egli in Verona. Alboino mori nell' ottobre o nel dicembre del 1311. CORTESIA. Tob.: Tanto avea ispeso del suo in misericordia ed in cortesia. SANTO. Par., VI, t. 2: L'uccel di Dio. E quivi dice che all' aquila soggiace il regno mortale. In Cane vedev' egli un successore di Cesare, cioè d' Enea, un ministro di Dio. Æn., XI: Accipiter... sacer ales. - Vill., IX, 49.

25. (L) RIGUARDO, CHE...: sguardo, ch'egli prima darà che tu chiegga.

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(SL) RUOTE. Nel 1500 aveva Cane nov'anni. Rer. Ital. Script., t. VIII, Chr. Veron.; Cic., Somn. Scip. : Quum ælas tua septenos solis anfractus reditusque converleret. IRTORNO. Æn., III: Magnum Sol circumvolvitur annum. Vita Nuova: Già nove fiate appresso al mio nascimento il cielo della luce era tornato quasi ad uno medesimo punto quanto alla girazione sua propria. 28. (L) GUASCo: Clemente V. - ARRIGO: Enrico VII. PARRAN appariranno.

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(SL) GUASCO. Clemente V di Guascogna ingannò Arrigo VII; e dopo coronatolo, gli fece contro. Fu nel 1310. Anon. : L'abbandonò del tutto il detto papa, perchè i devoti della Chiesa non l`ubbidivano, ALTO. Par., XXX, t. 46. FAVILLE. Fin dal 1308 Cane a istanza di Dante mandò aiuto a' Bianchi sotto il comando di Scarpetta degli Ordelaffi (Gio. della Corte, t. II, 1. 40). Forse il Poeta combattè contro i Guelfi; ma, vinto, si rifuggì in Lunigiana, dove lo troviamo nell'anno medesimo. Cane poi aiutò i Ghibellini di Brescia (Ferreto, 1. IX). Nel marzo del 1512 ebbe Vicenza. Si mostrò crudele nella guerra di Padova, prode in tutte. Fu per consiglio di Uguccione della Faggiuola eletto capo della gran lega ghibellina in Italia. Aiutò, ma invano, Uguccione stesso a tornarsene in Lunigiana. Accompagnò sotto Cremona Enrico VII, ed in Milano fece gran prove di sua magnificenza. Benvenuto, di lui: Fra' tiranni fu riputato assai prode e prudente e fu veramente signore di maraviglioso ardire, franco in battaglia e forte per grandi vittorie. CURAR. En., VIII: Contemnere opes. ARGENTO. Inf., I, t. 35. Hor. Ep., I, 18: Argenti sitis importuna famesque.

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29. (SL) MAGNIFICENZE. Sin da fanciullo si dimostrò sprezzatore della ricchezza. Il padre, lo condusse a vedere un tesoro, ed egli levatis pannis, minxil super eum. Nel suo palazzo erano stanze per gli uomini di sapere, di stato, di guerra, con motti appropriati a ciascuna condizione: e quivi eran servi per tutti, e gli agi tutti del vivere; e suoni e canti. Quel che si narra dei motti pungenti dal Poeta rivoltigli, dimostra più l'acre umore di Dante che la miseria di Cane. Quando pure le dette novelle sien vere.

30. (SL) ASPETTA. Purg., XVIII, t. 16: T' aspetta BENEFICI. Lett. a Cane: Mi stringe

Pure a Beatrice.

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Via più là che 'l punir di lor perfidie. 34. Poi che tacendo si mostrò spedita L'anima santa di metter la trama In quella tela ch'io le porsi ordita; 35. Io cominciai come colui che brama, Dubitando, consiglio da persona Che vede e vuol dirittamente, ed ama: Ben veggio, padre mio, sì come sprona Lo tempo verso me, per colpo darmi Tal ch'è più grave a chi più s'abbandona. 37. Perchè di provvedenza è buon ch'io m'armi, Si che, se luogo m'è tolto più caro, Io non perdessi gli altri per miei carmi.

36.

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(SL) VICINI. Purg., XI, t. 47. INFUTURA. Par., X, v. ult. Il gioir s'insempra. Inf., XV, t. 29: L'uom s'eterna. Par., I, t. 26: La ruota che tu sempiterni. Più. Anon.: Mori in esilio a Ravenna, dove alla sua sepoltura ebbe singolare onore a nullo fatto più da` Oltaviano Cesare in qua. PERFIDIE. Sopra (t, 16): Perfida noverca.

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34. (L) DI METTER LA TRAMA... mostrarmi il tessuto de' casi miei.

(SL) TELA. Par., III, t. 32: Qual fu la tela, Onde non trasse insino al co' la spola. Buon. Al lavor che ordito avea Sendo venuta l'ora del riempierlo.

35. (F) VUOL. Sempre la distinzione dell' intendere dal volere.

36. (L) SPRONA... PER COLPO DARMI...: s'affretta, per darmi colpe che ai deboli d'animo duole più.

(SL) SPRONA. Gio. Vill. Spronate loro addosso con vostra cavalleria. — ABBANDONA. Cæs., de Bello Civ., I, 53: Deseret se. Modo vivo.

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37. (L) PERCHÈ onde. PROVVEDENZA: provvidenza. LUOGO patria. GLI ALTRI: la fama. (SL) ARMI. Ovid. Met., XIII: Seque armat et instruit ira.

38. Giù per lo mondo senza fine amaro, E per lo monte, del cui bel cacume Gli occhi della mia donna mi levaro, 39. E poscia per lo ciel di lume in lume Ho io appreso quel che, s'io ridico, A molti fia savor di forte agrume. 40. E s'io al vero son timido amico, Temo di perder vita tra coloro Che questo tempo chiameranno antico. 44. La luce in che rideva il mio tesoro

Ch'io trovai lì, si fe' prima corrusca, Quale a raggio di sole specchio d'oro. 42. Indi rispose: - Coscienza fusca,

O della propria o dell' altrui vergogna, Pur sentirà la tua parola brusca.

43. Ma nondimen, rimossa ogni menzogna, Tutta tua vision fa manifesta;

E lascia pur grattar dov'è la rogna. 44. Che se la voce tua sarà molesta

Nel primo gusto, vital nutrimento Lascerà poi, quando sarà digesta. 45. Questo tuo grido farà come vento Che le più alte cime più percuote; E ciò non fa d'onor poco argomento. 46. Però ti son mostrate in queste ruote, Nel monte, e nella valle dolorosa, Pur l'anime che son di fama note; 47. Chè l'animo di quel ch'ode non posa, Ne ferma fede per esemplo ch'aia La sua radice incognita e nascosa, 48. Nè per altro argomento che non paia. —

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nero.

(SL) FUSCA. Arist. Phys., V: Il fosco sotto il

43. (SL) RIMOSSA. Æn., XII: Sine me hæc haud mollia fatu Sublatis aperire dolis. Hor. Sat., I, 4: Amoto quæramus seria ludo.

44. (L) DIGESTA: digerita.

(SL) MOLESTA. Arist. Eth., I: Oppone il sapore giocondo al molesto.

46. (L) In queste ruote: in cielo. ·PUR: sol. (SL) NOTE. Æn., II: Notissima fama. - VII: Nobilis et fama... memoratus.

47. (L) NON POSA, NÈ FERMA FEDE PER ESEMPLO: non si acqueta nè crede sulla fede d'esempi oscuri o di non illustri argomenti. AIA: abbia.

(SL) POSA. Par., IV, t. 43: Posasi (nel vero). FERMA. Purg., III, t. 22: Ferma la speme.

Il futuro.

Et te tua fata docebo, dice il padre al fondatore dell'impero di Roma; e quello è soggetto d' epopea, laddove Dante intitola Commedia il suo poema, sentendo bene che tra il figlio di Firenze e il padre di Roma dee correre differenza. Se non che gl' intendimenti e religiosi e civili, nell'opera del poeta cristiano necessariamente più ampii, ancorché non bene conformi tutti al puro principio cristiano, donano al minore soggetto altezza maggiore, e fanno parere ed essere le sventure d'un solo uomo poco più che privato non meno degne di considerazione che le sventure e le grandezze d'un popolo, facendo l'uomo singolo simbolo della natura umana, e sollevandolo quasi a potenza ideale. Non può Dante entrare a dire delle vicende che gli si apparecchiano nel futuro, che non innalzi la mente propria alla Mente che vede presente e il passato e il futuro, e non tocchi il mistero per il quale è congiunta la libertà con la prescienza. La profondità di questo tocco è già un volo che porta il

pensiero di Dante sopra quello di Virgilio tanto quanto più alto dell' Eliso sotterra e più luminoso risplende il suo Paradiso.

Dio a lui è quel punto a cui tutte le cose son presenti se il punto presente non fosse indivisibile, avrebbe in sè del passato e del futuro (1). L'essere di Dio non ha passato e futuro (2). - Dio solo nella sua eternità vede le cose future come presenti (3). Il presente intuito di Dio si porta in qualunque sia tempo, e in quante cose sono nel tempo siccome soggette a sè di presente (4). - Dio conosce i futuri contingenti, non solo nelle loro cagioni, ma così come ciascheduno e in atto in se stesso, e ancorché i contingenti seguano in atto successivamente, Dio però li conosce insieme, perchè la sua cognizione misurasi coll'eternità, siccome

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eziandio l'essere suo. Onde tutte le cose che sono nel tempo, sono a Dio presenti ab eterno; non solamente perchè egli ha presenti le ragioni delle cose, ma perchè l'intuito di lui si stende ab eterno su tutte le cose (1).

L'anima beata vede le cose contingenti Anzi che sieno in sè (2), dice Dante (3), e dice che ad essa viene a vista il tempo avvenire come da organo viene all'orecchio armonia. La contingenza che ha luogo quaggiù, è tutta dipinta nella visione divina; ma dalla prescienza divina non prende necessità, come l'occhio che vede la nave andare, vedendo, non isforza l'andare di quella. Del libero arbitrio egli ha già toccato più volte, ma qui pone a sẻ stesso l'obbiezione che risulta dalla prescienza di Dio, e la risolve con una similitudine, dacchè anco le similitudini possono essere argomenti valenti. Vedremo poi, dove tocca della predestinazione, che alla fine è tutt' uno con la prescienza, riaffacciarsi la medesima difficoltà, ed egli confessarla mistero, anzi professarla mistero con umiltà tinta d'alterezza e di sdegno (4). I due fatti del libero arbitrio umano e della prescienza divina essendo innegabili a chi osserva sè stesso, ed ammette l'idea di Dio, il non li saper conciliare non sarebbe ragione a negarli, il che sarebbe un aggiungere mistero a mistero, e sotto pretesto che il lume non è chiaro assai, spegnerlo, e per non poter essere onniveggenti, farsi ciechi. Le seguenti sentenze illustrano la verità leggermente accennata da Dante: Nessun contingente futuro è necessario che sia, sebbene saputo da Dio (5); sebbene la causa suprema sia necessaria, l'effetto può essere contingente per essere contingente la causa prossima (6). - La cosa non sarà perchè Dio n'ha prescienza, ma egli n'ha prescienza perchè sarà (7), siccome voi altri quando vedete a un tempo uomo camminare ed il sole nascere, quello giudicate essere atto volontario, necessario questo: così l' intuito divino che tutto vede non muta la qualità delle cose (8). Se Dio vede liberi gli atti umani, e' son liberi appunto perchè Dio tali li vede (9).

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In questo Canto ricorrono le lodi dello Scaligero detto il gran Lombardo, come dire il grande Italiano, al modo che Guido da Castello è lodato col titolo di semplice Lombardo (10), e lombardi dice Virgilio i suoi genitori per quell' anacronismo con che Giustiniano fa arabi gli Africani d'Annibale (11).

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(1) Som., 1, 1, 14. (2) Terz. 6. Dan., XIII, 42: Deus... qui nosti omnia antequam fiant. Boet. Quæ sint, quæ fuerint veniantque Uno mentis noscit in ictu. ·(3) Conoscere, rivelante Dio, i futuri contingenti. (Som., 2, 2, 95). Della visione del futuro, Som., 1, 57, 5; Dei contingenti, Som., 1, 86, 5; 2, 1, 95, 5; 2, 2, 171, 3. (4) Par., XXI. —(5) Som., 1, 1, 14. (6) Som., 1. c. (7) Orig. in ep. Rom. (8) Boet. (9) Aug., de Lib. Arb., III, 54. —(10) Purg., XVI. — (44) Inf., I; Par., VI.

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E forse di schiatta straniera erano que'della Scala, come pare che accennino i nomi d'Alboino e di Cane. Questo Cane, le cui rendite quasi pareggiavano quelle del re di Francia, era veramente magnifico, non solo nel molto spendere, come talvolta anco gli avari fanno per fini loro, ma nel non amare il danaro (1). Or Dante che nell'imagine di liberalità par comprendere ogni amorevolezza (2); e sentiva più ch'altri come l'avarizia faccia sempre gli uomini odiosi, la larghezza chiari (3); doveva maggiormente stimare le magnificenze (4) di quel della Scala, il qual pare che per proprio pudore risparmiasse il pudore dell'altrui necessità, e prima dell'altrui chiedere, desse e facesse. E notisi la dignità e la bellezza di questo fare, che Dante usa tacendo del dare, si perchè il fatto comprende anco il dono e più cose assai, si perchè il dare degnamente è de' più degni fatti; si perchè Dante non avrà mai forse accettati da Cane doni, ma aspet tato che egli non tanto per sè quanto per l'Italia operasse. E di questo del fare prima del chiedere ecco le sentenze sue e d'altri. Pronta liberalità si è dare non domandato, perciocchè dare il domandato è non virtù ma mercatanzia: perocchè quello ricevitore compera tuttochè il datore nulla venda. Graziosissimi sono li benefizii ne' quali nulla dimora interviene se non per la vergogna del ricevente (5). Certi benefizii dansi non con grazia, ma con contumelia e tardità e tristizia (6). L'affetto di chi ben fa può l'uomo conoscere da questo che lo fa prontamente e con gioja (7). La carità non tarda a sovvenire all'amico che patisce necessità (8). Non dire all'amico: va e ritorna; domani ti darò, quando puoi dare subito (9). E qui merita che sieno recate le belle parole d'un degno e sventurato cultore di Dante: Senza tuo sapere od attendere, ti vedevi d'improvviso giovato. Quasi temeva di dartene la nuova, perchè non ti piombassero addosso le obbligazioni. Avresti dello che scegliesse le parole più leggere; non era vero; secondava in ciò sua natura senza pensiero. L'aver fatto vantaggio agli amici glieli rendeva solo più cari; contento di sua cortesia (10).

Le corrispondenze tra il colloquio di Cacciaguida e quello d'Anchise appariscono evidenti; e pur

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(1) In non curar d'argento (t. 28). Som. Nel disprezzare le ricchezze dimostrò il sommo grado di liberalità. (2) Inf., VI, t. 26: Di più parlar mi facci dono. - XIV, t. 51: Mi largisse 'l pasto; - Purg., XXVIII, t. 21: Di levar gli occhi suoi mi fece dono; - Par., VII, t. 8: Le mie parole Di gran sentenzia ti faran presente. - (3) Boet., de Consol., II. (4) La magnificenza è intorno alle grandi spese di pecunia, la liberalità in somme minori (Som., 2, 2, 160). Della magnificenza Som., 2, 2, 34; della liberalità, Som., 2, 2, 17. (5) Seneca, recato dall' Ottimo, dice che il libro di Seneca era frequente nelle mani a Bartolomeo della Scala. (6) Som., 2, 2, 106. (7) Som., I. c. — (8) Som., 3, 1. - (9) Prov., III, 28.

(10) Gozzi.

nondimeno il canto di Dante è cosa tutt'altra da quel di Virgilio: così e ne' difetti e ne' pregi lo informa un sentimento vivente e proprio all' uomo ed a' tempi. La Sibilla: Tu ne cede malis, sed contra audentior ito, Quo tua te fortuna feret (1); e Dante: Dette mi fûr di mia vita futura Parole gravi; avvegnach'io mi senta Ben tetragono a' colpi di ventura (2); la quale imagine è tolta dal Filosofo: Il virtuoso le fortune prospere e le avverse sostiene d'ogni parte con costanza, siccome buono tetragono (3). Enea: Non ulla laborum, O virgo! nova mi facies inopinave surgit. Omnia præcepi, atque animo mecum ante peregi (4). E Dante: La voglia mia saria contenta D'intender qual fortuna mi s' appressa; Chè saetta previsa vien più lenta (5). Ben veggio, padre mio, si come sprona Lo tempo verso me, per colpo darmi Tal ch'è più grave a chi più s'abbandona. Perchè di provvedenza è buon ch'io m'armi (6). Dove l'imagine del Tempo che, quasi cavaliero armato gli sprona contro, è ben più potente che la Ventura co' colpi che dà in lui tetragono. Le parole ove è detto del proprio esilio e della povertà del Poeta commuovono di pietà; e degno di quelle è il commento che ci fa l'Ottimo: Questo è amaro e chiaro testo. In Virgilio, dopo che il padre ebbe condotto per ogni parte l'eroe, Incenditque animum famæ venientis amore (7), poi gli predice le guerre da sostenere e i cimenti; Et quoquemque modo fugiatque feratque laborem (8): in Dante è prima l'amaro della predizione, poi la consolazione della fama ventura, ma questa non come vanto vano, sì come mercede del bene adempiuto debito dell'annunziare l'austera e pericolosa verità, e dell'incarnare il precetto in esempii noti o per antica memoria o per esperienza viva. Un degli uffizii del poeta si è questo: Recte facta refert; orientia tempora notis Instruit exemplis; inopem solatur et ægrum (9). Su questo altrove Orazio medesimo: Sapiens, vitatu quidque petitu Sit melius, caussas reddet tibi: mi satis est si Traditum ab antiquis morem servare, tuamque vitam famamque tueri Incolumem possum.... Sic me Formabat puerum dictis; et sive jubebat, Ut facerem quid; habes auctorem, quo facias hoc, Unum ex judicibus selectis objiciebat: Sive vetabat, an hoc inhonestum et inutile factum, Nec ne sit, addubites; flagret rumore malo cum Hic atque ille? Avidos vicinum funus ut ægros Exanimat, mortisque metu sibi parcere cogit; Sic te

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neros animos aliena opprobria sæpe Absterrent vitiis (1). Certamente gli esempii più noti si fanno argomenti più validi (2),. e dotti e indotti men si lasciano muovere al precetto che all' esempio: ma del triplice uffizio indicato da Orazio, del notare i fatti commendevoli, dell'istruire le generazioni crescenti anche cogli esempii del male punito, del consolare le anime deboli ed affannate, non tutte le parti io direi adempiute ugualmente da Dante, che più a bell'agio si ferma spesso sul male, e par che voglia rendere tanto più notabili le significazioni dell'umile riverenza alla virtù di coloro che con lui vissero, quanto le son meno frequenti nel suo poema; onde il senso che viene al lettore da tutto il lavoro non è di consolazione rassegnata, non che di lieta speranza, ma di dolore cruccioso.

E s'io al vero son timido amico, Temo di perder vita tra coloro Che questo tempo chiameranno antico (3). Queste parole consuonano in parte a quelle di Salomone: Avrò per lei immortalità: e memoria eterna lascerò a coloro che dopo me saranno.... Temeranno udendomi re orrendi (4). E però dice: Questo tuo grido farà come vento Che le più alte cime più percuote (5). Ma non è già che la tema di perdere nome tra' posteri debba ispirarci il coraggio; egli è che Veracità è parte di giustizia (6); e che Pecca contro la verità per difetto chi occulta quel che bisogna manifestare (7). Però ben dice: Rimossa ogni menzogna, Tutta tua vision fa manifesta (8); ma con modo non degno del cielo e trasportando in popol giusto e sano (9) le volgarità de' chiassuoli di Firenze, non famigliari certo ai villani di Campi e di Signa (10), soggiunge: E lascia pur grattar dov'è la rogna (11). Sta bene che in Inferno un diavolo s'apparecchi di grattare a un dannato la tigna (12), e che altri dannati si traggano giù con l'unghie la scabbia (13); sta bene che Orazio assomigli il prudore de' tristi verseggiatori alla smania della scabbia, e che la cupidità del danaro sia ruggine (14), ei lucri rei scabbia e peste (15); e che la scabbia, secondo Tommaso, significhi carnalità petulante (16). Ma l'imagine è qui tanto più sconveniente, che è messa tra due mangiari: A molti fia savor di forte agrume (17). - Pur sentirà la tua parola brusca (18). - Chè se la voce tua sarà molesta

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(1) Hor. Sat., I, 4. (2) Decret. Gli esempii presenti ci ammoniscono per l'avvenire. Sen., Ep. LXXXV : Con illustri esempii è da istruire la vita. — (3) Terz. 40. — (4) Sap., VIII, 13, 15. (5) Terz. 45. (6) Cic., Inv. citato nella Som., 2, 2, 409.- (7) Som., 1. c. (8) Terz. 43. (9) Par., XXXI, t. 13. (10) Par., XVI, t. 17, 19. (14) Terz. 45. —(12) Inf., XXII, t. 34.(15) Inf., XXIX, t. 28. (14) Hor., de Arte poet. (15) Ep., I. — (46) Som., 2, 1, 102. —(17) Terz. 59. (18) Terz. 42.

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