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E disser: padre, assai ci fia men doglia Se tu mangi di noi: tu ne vestisti Queste misere carni; e tu le spoglia.

pure l'adoperò egli qual voce entrata già nel dominio della lingua comune e non indegna del Volgare illustre; che non è da confondere nè col volgar fiorentino, e nè con qualsivoglia altro di tutti gl' idiomi d'Italia. Il Ch. Tommaseo: Questa voce è condannata come plebea fiorentina nella Volgare Eloquenza. Segno non unico che il poema è scritto nel volgar fiorentino. Noi trattammo altrove questo argomento (a). Quantunque gran peso ci facciano le parole di questo illustre uomo; non sappiamo intendere come si potessero quali voci di lingua non forbita intrudere il manicare, l'introcque, il dindi, il babbo e simiglianti, in questi carmi divini, pe' quali udiamo il Poeta (Par. XXXIII. 67 segg.) implorare da Dio qualcosa di meglio, che non è poi il volgar plebeo fiorentino:

O somma luce, che tanto ti lievi

Dai concetti mortali, alla mia mente
Ripresta un poco di quel che parevi;
E fa la lingua mia tanto possente,

Ch' una favilla sol della tua gloria Possa lasciare alla futura gente. LEVORSI si levarono. È sincope di levorosi, non, come altri notò, di levoronsi. (Inf. XXVI, 36, nota).

61-63. PADRE. Il Tasso notò aver qui il Poeta alterata la storia, forse per muover maggior compassione (v. 38, nota). Figliuoli o nipoti che fossero, quando ei DISSER PADRE più toccarono l'animo di lui, che se chiamato l'avessero con altro nome. Magis tetigerunt animum suum, quam si dixissent: 0 Comes. Benv. da Imola.

CI FIA MEN DOGLIA, SE ec.: sarà a noi minor dolore, che a vedere te morir di fame; o meglio, come chiosò l'Imolese: quam si comedas de te. Nelle Rime, Canz. XIX, il Nostro, volto ad Amore e pregatolo a rendere meno orgogliosa la sua donna, gli dice:

Poscia, se tu m' uccidi, ed haine voglia, Morrò sfogato e fiemene men doglia.

(a) Inf. XX, 130-XXXII, 9, note.

E in questo trinario venne al Poeta non sì felicemente adoperata una tal forma, come nella canzone amorosa. L'artifizio da lui usato nel condurre e ordinare le idee, trovare e comporre i vari accidenti di quell' amarissimo caso, aiuta ben due tanti l'atrocità del fatto e il senso della pietà; e tanto è mirabile, quanto meno si pare e non è punto avvisato. Dante va d'un passo con la natura in tutto questo pietoso racconto di Ugolino; e a servar la norma del natural modo negli affetti della compassione che intese commuovere, studiò sottilmente nell'indole di questa passione, e schivò i raffinati ornamenti,i contrapposti,le arguzie e le vane pompe di pellegrini concetti, che guastano il bello dell' arte, e fuor di natura la tirano, dovecchè negli affetti vuol sola e spontanea signoreggiare. Ma quell'offerirsi che fanno i figliuoli in cibo al padre che si morde le mani, par cosa nonchè ferina, in tutto strana, esagerata, e fuor del naturale; e in questo luogo apparisce manifestamente il Poeta che parla, non i figliuoli che facciano l'orribile proposta.

Il Tasso nondimeno mai non rifiniva di levare a cielo questo terzetto, siccome per più secoli han fatto i savi d'ogni nazione, e perfino i maggior nemici di Dante. Potè forse in loro, più che la ragione d'una critica imparziale e severa, la novità del pensiero, e il lasciarsi per maraviglia trasportare dietro al diletto che messo è nell' animo da un artifizio sì risentito. La sconvenevolezza d'un concetto che appaga,sfugge talvolta alla riflessione; come lieve difetto in bella pittura suol celarsi agli sguardi degli ammiratori. Valerio Massimo conta di quella figliuola, che al vecchio padre condannato a morir di fame in prigione porse la poppa, e col suo latte gli mantenne la vita: ma questo esempio di filiale pie

tà non ha nulla che fare con sì fiera cosa, qual sarebbe che i figli s' offerissero al padre in cibo, promettendogli che ciò sarebbe loro men doglia che a vederlo

mordere e manicar sè medesimo. Nè vale quella ragione, che ad indurnelo si fa da loro arrecare: Tu ne vestisti queste misere carni, e tu le spoglia; dacchè ciò importerebbe un rinnegare il senti mento della propria individualità, alla quale forte la natura ci stringe; e fare che contro l'istinto della propria conservazione, che ci accompagna sino all' estremo termine della vita, noi concediamo ai padri il dritto di poterlaci torre. Nell' assalto di Gerusalemme trovaronsi genitori, che negli stretti più disperati della fame divorarono i propri figliuoli; ma non si legge che questi s' offerisser loro in pasto. E più, in quei padri e in quelle madri avea la rabbia del male messo già in bando dall' animo con la ragione l'affetto naturale verso la loro prole: la qual cosa non ebbe luogo in Ugolino, che per dolor si morse, e in cui la fame fu niente al paragone dell'angoscia mortale che nel cuore lo travagliava. Si dirà che bello è il sacrifizio della propria vita per salvar l' altrui, e che bene poteano esser quei figliuoli prodighi del proprio sangue per campar dalla morte il padre loro. Ma la profferta ch'ei gli fanno, non è generosità virtuosa, è una frenesia, un sentimento di carnale pietà che l'offende; poichè lo suppone peggior di un belva crudele, capace di tranguggiarsi le carni de'propri figli, che è cosa da cui la ragione naturalmente rifugge.

<< Non mi pare che quei giovanetti e forse fanciulli dovessero non pur fare, ma nè cader loro in mente quella fiera cosa, di offerire i lor corpi da mangiare al padre...: il che appena par che potesse non pur dire in tal caso, ma nè scrivendo pensare un uomo ; il quale per essere molto usato nel mondo, e spesso trovatosi in termini assai forti, ed avere amato focosamente, avesse l'animo avvezzo a quelle dissoluzioni di smaniosi affetti e feroci: il che de' giovanetti puri e semplici non è verisimile.. - Se non che questo medesimo contrapposto del, tu ne vestisti, coll' e tu le spoglia (da che i così raffinati concettini e giuochetti di parole piacquero sempre) pigliò così l'animo de' lettori, e di Dante medesimo nel caldo dello scrivere, che non avvisarono l'irragionevolezza del concet

to. Que' giovanetti, quando così offersero al padre le loro carni mangiare, doveano il meno aver cominciato sentire i morsi e 'l languor della fame. Or in questo termine, che dava loro tanto da pensare di sè medesimi, e l'animo tenevasì amaramente occupato, hanno tanto di agio e di voglia da far al padre quella proposta? nol posso creder possibile, e (che è vie più) la detta proposta gliela fanno con quel vago contrapposto di studiato concetto? Tutto questo m'induce a credere, che forse forse (chi ben cercasse) queste difficoltà medesime a qualcun altro dieder negli occhi ». Cesari. — E invero fa maraviglia che Benvenuto da Imola, avvegnacchè confessi, queste parole Tu ne vestisti ec. poter muovere un cor di sasso, e ch' ei medesimo ne lagrimava; non creda poi che le fosser da giovanetti, bensì dell' autore che seppele oratoriamente ordinare al patetico (a). E questo è argomento del buon gusto, e d' una cotal critica temperata e giudiziosa, che in secoli da noi remoti, agl' Italiani non fu mestieri recar da Oltremonti Il Tommaseo scrive: « I figliuoli gli si offrono in cibo: e se qualche macchia dovessimo qui notare, sarebbe quella forma di mezza amplificazione: Tu ne veslisti queste misere carni, e tu le spoglia, che sa d' artifizio, sebbene sia da notare che a que' tempi nutriti nella lettura de❜libri biblici, l'imagine del corpo umano figurata come una veste era comune tanto da non parere inverisimile anco in momenti di dolore supremo. Ma, dopo confessato che questa terzina, da taluni lodata come delle più belle, è la meno; corre debito di soggiungere che la pietà de' figliuoli e la quasi oltraggiosa ignoranza loro dell'amore paterno doveva essere a lui doppia pena, e che il comprimere il dolore per non farli più tristi doveva far crescere la sua ambascia (b) ». Noi diciamo che potè Dan

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Queta'mi allor, per non fargli più tristi:
Quel di' e l'altro stemmo tutti muti:
Ahi dura terra, perchè non t'apristi?

te, come Omero, sonnacchiare alcuna
volta; nè per questo gliene verrebbe di
nulla scema la sua gloria. Niun uomo è
sì grande che in qualche cosa talor non
travegga. Che se l'assoluta perfezione e
fuori la natura di tutte le opere umane;
dove queste più a quella s'appressino,ri-
peteremo con Orazio (a):

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Ubi plura nitent in carmine,non ego paucis Offendar maculis, quas aut incuria fudit, Aut humana parum cavit natura... Indignor, quandoque bonus dormitat Homerus. Verum opere in longo fas est obrepere somnum. Le opere de'grandi splendono come astri nel firmamento della umanità. Si scuoprono delle macchie anche nel Sole; ma che sarebbe senza questa perenne sorgente di luce, di calore e di vita?

64. QUETA'MI: mi quetai; lasciai di più mordermi le mani. Chè fu egli chelo, ma non tranquillo; essendo quies, ond' è fatta la voce chelare o quetare, propriamente cessazione d'opera materiale o d'atto sensibile; tranquillitas, riposo dell' animo. Così vuol qui dire Ugolino, che anche repressosi di quell'atto feroce, non era egli però dentro men crudamente lacerato dall' acerbo dolore; massime che vie più lo impiagava quella dolce pietà degl' innocenti figliuoli che gli dicono: mangia di queste nostre carni come di cosa tua propria.

Var. lez. Quetami il Cod. Cassin. e molti altri. E quetami i testi di autorevoli comentatori, come del Land. e Vellut.; quetàmi scrivono col Bargigi, il Lomb., il Vent., il Volpi, il Biag., il Niccolini, il Tommaseo. Il Cesari, il Bianchi ec. leggono quela' mi. Vedi Inf. XIV. 3; XVII. 122; XXIV. 58, note.

65. QUEL DI' (b). Lo dì hanno il Cod.

(a) De Arte poet. v. 351, seg.

(b) Noto che di', giorno, va scritto con l'apostrofo,essendo troncamento di die o dia: che di seconda persona sing, del pres. dell'Indicativo e dell' Imperativo, richiede l'accento per esser voce intera.., e per distinguerla da di segnacaso, che non vuole nè apostrofo nè accento. 1 grammatici poi malamente scrivono con l'accento di per giorno, e coll'apostrofo di per dici ». Nannucci Anal. crit. de' Verb., pag.321.

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Cassin., l' ediz. di Mant., del Burgofr. Ven., 1529, del Rovell., Lion. 1551, e del Witte; tra le cui Variorum è registrata la lez. l'un dì, con l'altra quel giorno, che trovasi nell' ediz. del De Romanis, Roma 1822. La nostra è di quasi tutti gli altri testi antichi, e adottata nell'edizioni del Zatta, Ven. 1757, del Fulgoni, Rom. 1791, e dalla più parte dei comentatori.

STEMMO TUTTI MUTI: Due di stanno tutti muti, non solo per la rinchiusa ambascia alla quale ogni sfogo sarebbe poco, non solo per non si angosciare a vicenda, ma perchè la fame li ha mezzo sepolti in quel suo letargo ch'è tra l'obblivione e il sentimento, tra la morte e la vita. E di qui cresce potenza all'esclamazione ahi dura terra! Tommaseo. Ne' due primi di' sta muto il padre soltanto, che non risponde neanche alla dimanda d'Anselmuccio, il quale gli dice, che hai ? ed egli invece di proferir verbo, prorompe in atti di disperato dolore: negli altri due di' seguenti questa orribile mutolezza non è sola in lui ma in TUTTI; e non la rompono poscia, se non le parole estreme d' un moribondo (v. 69) ! — Un padre con quattro figliuoli in fondo di torre con la morte negli occhi per la certezza di dover morire di fame, che insieme si guardano senza parlare, è una scena di inesplicabile orrore, che a pena si può concepire. Cesari.

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66. АHI DURA TERRA ec. Al solo ri

membrarsi di quello stato infelice, Ugolino esce naturalmente in questa veementissima esclamazione: segno d'animo tuttavia forte concitato e commosso.

PERCHÈ NON T'apristi? Ut ostenderes te sentire tam impiam crudelitatem, et clamare vindictam ad Deum. Et heic nola, quod non solum cibus corporis

Fir. Le Monn., 1843. Il Bianchi segui questa grafia, e noi l'imitiamo, non ostante che molti pregevoli comentatori scrivano di secondo i testi antichi, i quali in questa parte non fanno autorità.

Posciachè fummo al quarto di' venuti,

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fuit denegatus, sed quod fuit crudelius, cibus spiritualis, quum saepius petiissent. Benv. da Imola. «Volendo Ugolino ora raccontare la morte, stretto da dolore gridò: ahi dura e crudele terra, perchè non ti apristi per ingoiarmi, piuttostochè lasciarmi veder ciò che io vidi?» Bargigi.

DURA TERRA. Nelle irreparabili sventure l'uomo, quasi fuori di sua ragione, si volge anche agli esseri inanimati; e pretende trovare in quelli la pietà, e la vendetta che non ottiene dai suoi simili. Perciò (Virg. Ecl. V.):

Atque Deos, atque astrá vocat crudelia mater. E talora i poeti attribuiscono ad essi vita, senso e ragione. Nella morte di Cesare s' ecclissa il sole per la pietà, e trema, e s'apre la terra, come nella suprema passione del Cristo. (Virg. Geor. I, 466 seg.). Ugolino dice alla terra: perchè non t' apristi, poichè voleva ch'ella medesima non dovesse sostenere, nè reggere a quello strazio; e si fosse aperta a tranghiottirlo, e seppellire nelle sue profonde voragini con la sua miseria e gli uomini e la loro iniquità. Son modi esprimenti il desiderio del finimondo, quando si è caduto nello stremo della disperazione. Così Giuturna (En. XII, 883.):

O quae satis alta dehiscat Terra mihi? Manesque Deam demittat ad imos? Per la corruzione che regna nelle città, un poeta (a) non sa capire come il mondo non vada in subisso: Mi maraviglio (a tal vedo ridotta

La fera turba che qui dentro alberga)
Come il terren non s'apra, e non ne inghiotta;
O come il mar tant' alto un di non s' erga,
Che avanzi questi monti, e 'n noi s' attuffe,
E in un punto ne affoghi, e ne sommerga.
La poca fè, le ruberie, le truffe,

Le proprie utilità, le altrui gravezze,
Le tante uccision, le tante zuffe;

Le pompe, le lascivie, e le mollezze
Non men nelle berrette, che ne' veli,
Le bestemmie, il mal dire, e le alterezze ;
E le altre scelleraggini crudeli,

Il cui lezzo là su credo che saglia, Non so come soffrir possano i cieli. 67. AL QUARTO DI' VENUTI. Quarto, computando il primo già scorso quando

(a) Luigi Tansillo, Podere, Cap. III.

fu sentito inchiodar l'uscio della torre. Se si contasse da questo punto in poi, cadrebbero gli altri figliuoli, men verisimilmente, tra il sesto di' e il settimo, da che preso aveano l' ultimo cibo; che non tra il quinto e il sesto, come dice il Poeta. E dippiù il Conte si farebbe morire dopo nove giorni, secondo la lettera due dì li chiamai (v. 74), o dopo dieci giorni di durissima fame, secondo la lettera tre di li chiamai: il che darebbe nello strano. Il Dal Rio è col Toselli, di credere che questo quarto dì abbiasi ad intendere pel quarto giorno da che il Conte e i figliuoli erano stati gittati nella torre: la quale interpretazione si accorda con la chiosa dell'Imolese. V. not. al v. 26, pag. 605.

DI' VENUTI. Le prime edizioni di Mantova e di Jesi hanno Divenuti. Questa lettera piacerebbe al Torelli; perchè di è stato già detto più sopra. Divenire poi per giugnere, arrivare, trovasi anche altrove (Iof. XIV, 76; XVIII, 68 — Purg. III, 46 Par. XIII, 62) usato dal Nostro. Ma noi non siamo schifiltosi a que

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ste ripetizioni. Il Poeta ripete (vv. 72, 74) ben due altre volte la stessa voce. Conte Ugolino parla concitato dalla passione; e se usar dee modi ellittici, non sono egli certo cotesti, dove ha egli necessario di significare con pienezza d'espressione que' giorni, che gli stanno ancor fitti nella memoria. Ancora, dopo la frase quel di' e l'altro, verrebbe in ordine il terzo. Finito il costrutto, il Poeta dice: al quarto di', riferendosi a un punto ben più lontano. Noi non crediamo ragionevole partirci dalla comune lezione per seguir quella di pochi codici, e l'opinione di chi va cercando parsimonia di parole, dove l'animo appassionato di chi favella non debb' essere avaro a profonderle. Il Poeta dipingea la natura quando i grammatici non si erano ancora creato un mondo fantastico nel vuoto della loro zucca, per credersi più sapienti di Domeneddio, e osar di rinnegare le leggi dello spirito umano; che come sente e pensa dentro, così va fuori significando co'colori della favella,

Gaddo mi si gittò disteso a' piedi,
Dicendo: padre mio, che non m'aiuti?
Quivi morì: e come tu mi vedi,

68. GADDO, il minore de'due figliuoli d' Ugolino. Tra i quattro giovanetti l'ultimo nato è il primo a morire; perciocchè al tormento della fame l' età più tenera regge meno.

GADDO MI SI GITTÒ ec. « Il verso che si protende come corpo presso a spegnersi negli ultimi movimenti, Gaddo mi si gittò disteso a'piedi...,dice qualcosa anco a' sensi ». Tomm.

DISTESO A' PIEDI: « Svenuto, spiega il Lombardi, dalla fame. Morto, dico io, e lo dice il Poeta due versi sotto». Biag.Piano, sig. Biagioli! La frase mi si gittò è significativa d' un atto volontario, del quale è incapace chi è morto. Direste voi mi si gittò morto ? Se fosse come voi sostenete, Dante avrebbe forse detto piuttosto mi cadde morto o disteso ai piedi; e allora non facea mestieri di soggiungere (v. 70), quivi morì; ciò vuol dire che quel fanciullo fu già prima caduto e prosteso ai piè del padre, che morto il che se non fosse, come potea egli volgergli quelle pietose parole: Padre mio, chè non m' aiuti ? Il quivi o si prenda come avverbio locale, o di tempo, significherà che Gaddo svenuto del la fame e non potendo più reggersi, si abbandonò ai piedi del padre,e lì spirò; ovvero che la sua vita si spense col suono ultimo delle sue parole.

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69. CHE NON M'AIUTI ? « La natura supera nel giovine la pietà, nè più si ricorda d'aver detto anch'egli: Ci fia men doglia se tu mangi di noi (a) Pare contradizione il dargli mangiare le carni proprie e poi il dire di Gaddo: padre mio, chè non m'ajuli? Io non so s' io abbia a dire che cotesta è una delle contradizioni tante della misera nostra natura, la quale, dopo sinceramente proffertasi al sacrifizio, richiede poco appresso da altrui quello di che ell' era pronta a fare dono; o s' io abbia a dire piuttosto che l'aiuto invocato dal moribondo non è di pane, impossibile omai

(a) Tommaseo, Illustraz. C. XXXII. p. 480.

70

a trangugiare, e di cui nel delirio del dolore egli ha smarrito il bisogno e quasi l'idea, ma l'aiuto de' conforti e dell'affetto del padre il quale, tenendosi tanto lungamente mutolo in mezzo ad essi, par noncurante di loro, e come fantasima li spaventa. Onde il prego, suonando rimprovero, giungeva come nuova saetta al suo cuore (b) ».

70. QUIVI: ai miei piedi. Bene l' Imolese Scilicet, ante pedes meos, me vidente et audiente. Ovvero, Quivi: in quel punto, come nel Purg. V. 52 segg.: Noi fummo già tutti per forza morti,

E peccatori infino all' ultim' ora:
Quivi lume del ciel ne fece accorti ec.
E quivi eziandio per allora, Inf. V. 35,
36.. Ibi per Tunc usararono anche i

Latini.

70-71. COME TU MI VEDI, VID' 10 ec. St certamente come tu vedi me. Cesari.Quasi dicat: sicut tu vides nunc me loquentem coram te, ita ego vidi illos coram me morientes. Benv. - In sì atroci miserie non furono ad Ugolino amiche le tenebre della torre, che celasmirava gli atti e i visi de' figliuoli mosero agli occhi suoi l' acerbo lutto: egli renti, a quel grado di barlume funesto ch' era in Inferno, e per lo quale il Poeta potea vedere Ugolino. I dolori di morte che per tanti figli estinti moltiplicavano nel cuore del padre, lo rendevano non meno fiero e infellonito in carcere, che nella ghiaccia mostrasse di essere sul capo dell' Arcivescovo traditore.

COME TU MI VEDI, VID' IO CASCAR LI TRE, dipinge anco gli atti che precedono al cadere loro; e ha doppio significato: come vedi me qui, così io in quel buio con gli occhi offuscati dal digiuno li vidi, nel fiero lume del dolore mio e loro, cascare e morire: come tu vedi me qui disperato, fremente di dolore iracondo, nell' allo di sfogarlo sul teschio dell' arcivescovo, così disperato ero in allora e sparuto e livido e

(b) Tommaseo, Illustraz. C. XXXIII, p. 500.

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