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la Storia Pisana scritta da autore contemporaneo e pubblicata dal Muratori si legge Presono lo Conte Ugolino, e li figliuoli, e li nepoti, e tenorli sostenuti, e presi; e feciono loro mettere i ferri, e lenere, e guardare presi in del Palasso del Popolo più di XX dì, in fine che fu acconcia la pregione della Torre de i Gualandi Da Sette vie. E poi ve li feciono mettere entro in de la dicta pregione che fu poi chiamata la Pregione della fame. E dunque probabile che il Conte e i suoi figliuoli, custoditi già in altra prigione, venissero poi messi nella Torre, quando, giunto a Pisa Guido da Montefeltro, furono condannati a morir di fame (a). Il che meglio si fa chiaro dal comento di Benvenuto da Imola che visse poco tempo dopo il Poeta: Comes vero dedit se captivum : et cum duobus filiis et duobus nepotibus traditus est carceri. Comes igitur (b) infelix cum filiis et nepotibus positus est in Turri.. et clausa porta deieclae sunt claves in Arnum etc. E ai versi :

Già eran desti, e l' ora s' appressava Che 'l cibo ne soleva essere addotto. così ancor l'Imolese: Quasi dicat: appropinquabat hora qua eramus soliti prandere. ANTEQUAM ESSEMUS CAPTI. Vel dic-HORA QUA SOLEBAT NOBIS AFFERRI CIBUS ANTEQUAM POneremur in turrI. Quia non statim fuerunt adjudicali huic supplicio extremo, nisi post adventum Comilis Guidonis de Montefeltro etc.-«Ma a ciò potrebbe rispondersi che Dante,

Il lume seguente poi, che fu il giorno septimo d'octobre ec. Lumen per giorno dissero eziandio i Latini. Virg. Ea.356: Vix lumine quarto ec. (a) Gio. Vill. Lib. VII. Cap. 127: I Pisani elessero per loro Capitano di guerra il Conte Guido da Montefeltro, dandogli grande giurisdizione, e signoria, il quale ruppe i confini, c'haveva dalla Chiesa e partissi di Piemonte, e venne in Pisa. Per la qual cosa egli, e' figliuoli, e tutta sua famiglia, e tutto il Comune di Pisa dalla Chiesa di Roma furo scomunicati. E giunto il detto Conte in Pisa del detto mese di marzo, i Pisani, i quali haveano in pregione il Conte Ugolino, due figliuoli, e due nepoti figliuoli del Conte Guel fo suo figliuolo, come addietro facemmo menzione in una Torre in su la piaza delli Anziani, fecero chiavar la porta della Torre, e la chiave gittare in Arno, e'vietarono ai detti pri gioni ogni vivanda ec.

(b) Prendasi qui la voce igitur nel significato di tum, postea, deinde ec.

giudizioso trasceglitore delle circostanze nelle sue descrizioni, non ha stimato d'alcun interesse il rilevare questa traslazione, ed ha immaginato che sin da principio fosse il Conte rinchiuso nella muda de' Gualandi; e che la verità storica non è stata da lui sostanzialmente alterata, perchè sta sempre fermo che il Conte fu detenuto in una oscura carcere, e che dopo lungo tempo fu privato degli alimenti. Ritengasi adunque sicuramente la lez. più lune, e si abbia l'altra per uno de' soliti errori o saccenterie dei copisti ». B. Bianchi. L'atrocità della condanna a cui andarono soggetti Ugolino e i figliuoli, comincia dalla torre e finisce con la loro cruda morte. Al Poeta tornò più comodo lasciar supporre il tempo men fiero della prigionia precedente, per chiamare e concentrare l' attenzione de' lettori ai dì funesti della crudele catastrofe. Avrebbe violate le leggi della Poetica, se gli fosse piaciuto di alterare punto le circostanze di un fatto recentemente accaduto, e ne' più minuti particolari allora noto all'universale, Questo Ch. comentatore osa intanto dire che bisognerebbe aver ben poco lume per adottare l' altra lezione; e conforta a ritener la sua sicuramente, come se l'autorità de' codici antichi più preziosi fosse nulla, e dovesse tenersi come errore da menanti quello che non si è curato di riconoscere autentico con la guida della sana critica. Anche il Cesari dice: Erano passati più mesi. Gli Accademici della Crusca me ne stan pagatori,e Gio. Villani, che dice, dal marzo all'agosto essere il Conte Ugolino stato nella torre: ed io non ne vo'meglio».. Gli Accademici credetter simile il concetto di questo luogo a quello che il Poeta stesso spiegò in una sua canzone:

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ne Signore di Pisa tra le acclamazioni del popolo festante; ed è naturale che ad ingraziarsi co' nuovi soggetti seguitasse egli la politica del re leone ; il quale celando il fiero istinto, giurò che di erbe sarebbe il suo pasto, e poi fu creduto pei dottori di Corte, che alla vita di Sua Maestà era necessario curarne la debolezza dello stomaco, facendolo tornare alle usate vivande. Altro tempo scorse, in cui concepì sospetto che un suo nipote potesse privarlo di Signoria, e cercò modo come farlo morire. Essendo (scrive il Vill.) in grande e felice stato fece per lo giorno della sua nativitade una ricca e magna festa, ove hebbe i figliuoli e nipoti e tutto suo linguaggio ec. Vi si legge che un savio, al quale, quando fu egli al tutto chiamato Conte di Pisa, dimandava che gliene paresse di sua grandezza e potenza, francamente gli rispose: Non vi falla se non l'ira d' Iddio. Parea dunque che forza d'uomo non potesse scrollarlo. Costituirsi siffattamente; ordire tante trame e credersi incrollabile; tentare o consumare il tradimento delle castella; incorrere, a cagione del mal governo, nell' odio di quel popolo, che con grande allegrezza lo avea fatto Signore; son cose che non paiono poter accadere nella breve successione di pochi mesi, nonchè di giorni. Sicchè le parole del Cronista: tosto li sopravvenne, non son da pigliare nel senso che in Agosto, che fu il tempo del suo innalzamento, venisse Ugolino preso e messo in prigione; ma che pochi mesi ch'egli stette al potere, furono assai breve tempo, rispetto a quello, che i più di codesti tirannelli vi si sogliono mantenere; e che non è mai tardi quando che essi rovinino. Stando al frammento della storia Pisana, è probabile che tra la presura del Conte e la sua morte non sia entrato in mezzo neanche tutto intero un sol mese: nè l'Arcivescovo e gli altri Ghibellini sarebbero stati sì matti, da tener tanto lungamente, per otto mesi, lui e suoi figliuoli nel carcere, in mezzo all'ardente furore delle avverse fazioni.Adunque per siffatte ragioni è anche improbabile che Conte Ugolino avesse durata nella muda la prigionia di più lune. Noi pertanto crediamo tenerci all'anti

ca lettera più lume, sponendone la sentenza col Guiniforte: Dentro da quella muda una piccola finestrella, nel far del giorno mi avea già mostrato alquanto lume, quando ricominciai a dormire ec. L'autorità de'testi più insigni, i documenti storici, le chiose antiche e la sana critica, ci francheranno dalla taccia di poco lume o di poco senno in aver seguitato una interpretazione, che fu anche data dal Landino e dal Vellutello, sostenuta dal Lombardi e dal Toselli; e che a noi è parso poter di ragione sostenere contro gli attacchi di chiarissimi comentatori.

26. FECI 'L MAL SONNO. Lodati comen

tatori pigliano qui sonno in sentimento di sogno, come nel v. 38 di questo canto, e nel XII, 65, del Paradiso. A noi pare che anche ne' luoghi citati possa stare alla voce il significato che l'è proprio, e da quel dell' altra bene distinto, come si vede in questo verso del Fortequerri (Ricciard. VIII, 96):

Si ruppe il sonno, ed il sogno disparve. E pare che Ugolino si dicesse aver fatto il mal sonno, nel senso che quel riposo gli venne turbato dalle forme spaventose, che gli furon viste in dormendo: il che significa già ch' ei sognasse, non mica che sonno e sogno fosser tutt' uno. La sentenza che si cava dalla sintesi delle voci, non è da confondere col significato che propriamente legasi alle singole. Dove Cicerone (De Divin. Lib. I.) scrive: Annibalem, cum cepisset Saguntum, visum esse IN SOMNIS a Jove in Deorum concilium vocari, non è dubbio che Annibale non facesse un sogno; ma è certissimo che lo scrittore latino non confuse la significazione di somnus con quella di somnium,che distintamente usò nell' altro luogo (Ibid.): Eandem IN SOMNIIS admonitionem fuisse tertiam. Etc. Dove Dante (v. 38 di questo canto) dice:

Pianger sentii nel sonno i miei figliuoli non vediamo necessità di prender sonno per sogno; perciocchè Ugolino vuol dire che i figliuoli piangevano mentre dormivano; il che significa invero che i loro sonni non erano tranquilli, e che nel sonno dovean pur essi veder cosa che gli turbasse. Il Forteguerri (Ricc. VIII,

Che del futuro mi squarciò il velame. Questi pareva a me maestro e donno, Cacciando il lupo e i lupicini al monte,

16 segg.) usa l'identica frase fra il

sonno :

Ma sazi ben si sono i ferri vostri Del sangue lor, che quasi uomin fra il sonno Uccidete, e mandate ai negri chiostri. Dove si vuol fare intendere che quegli uomini venivano facilmente uccisi senza far le sue difese,quasi immersi nel sonno; e non quasi chi dormendo sognasse. Nel Paradiso si legge :

Vide nel sonno il mirabile frutto: cioè, la visione non fu nella veglia; ma mentre si dormiva.Il sogno si rileva dall'insieme delle parole che fanno la sentenza, non già dalla sola voce sonno, che sempre ci avvisa ritenere il suo proprio significato. Là dove Dante volle dir sogno, adoperò il vocabolo dirittamente; siccome al v. 45:

E per suo sogno ciascun dubitava. E qui nessuno sognerebbe di porre sonno per sogno. Nel passo che noi esponiamo, altri dirà che il Poeta fu stretto dalla rima ad usar l' una voce per l'altra: noi stiamo fermi nel tenere, che a lui sieno le licenze di simil genere piaciute meno che non si crede.

27. DEL FUTURO MI SQUARCIÒ IL VELAME: Il mal sonno, non mi fu di quiete, ma (perciò detto MAL SONNO) col sogno, che in esso mi apparve, mi svelò il futuro: quello che tra breve esser doveva di me e de' miei cari. Il sogno poi, come vien narrato ne' vv. 28-39, è rappresentativo non solamente della misera morte e del male estremo, che dopo il sogno dovea incogliere al Conte; ma eziandio di ciò che occorso gli era stato già innanzi : sicchè l' ora in cui egli sognava e parte delle visioni avverate, facevano più credibile la realtà di quello che gli stava per avvenire. Anche nella forma è terribile il modo, di cui si vale quel misero, per dire: il mal sonno mi tolse dinanzi dagli occhi della mente l'ignoranza del futuro. Ciò che facea velo all'intelligenza di Ugolino, perchè non potesse egli, nonchè prevedere, ma nè conietturare quanto gli sarebbe accaduto, era forse la fallace opi

nione del contrario. L'abituale sentimento della sua potenza, e della sua autorità, il rispetto che, ora o poi, si fosse dovuto avere della sua persona gli facean presumere che, cessato quel primo furor di popolo e di partito, verrebbe egli, se non lasciato libero, mandato o in esilio, o comechessia cacciato di Pisa ; non mai però costretto a sostenere le angosce di morte sì cruda. Ed in questo sentimento è mirabile la potenza del vocabolo squarciò, che ti pare significativo come di turbinoso vento, il quale inopinatamente percuota e laceri di forza la vela gonfia delle sue illusioni, lasci tuttavia contemplare gli effetti della violenza nemica, e pei cincischi dello stracciato velame intravedere il futuro, vacillando sospeso in un dubbio più tormentoso di una infelice realtà. Più forte e più appropriatamente, del suo funesto sogno qui dice Ugolino:

Che del futuro mi squarciò il velame; di quel che in Virgilio sia detto della Sibilla, che apriva le occulte e le future cose:

Magnam cui mentem animumque Delius inspirat vates, APERITQUE FUTURA. 28. QUESTI: il traditor ch' io rodo. 28-29. MAESTRO E DONNO, CACCIANDo ec. - Un Arcivescovo dovea rappresentare nella chiesa il Cristo, Maestro nella dottrina santa, Signore qual capo dei suoi fedeli (a); ma Ruggieri qui, per terribile contrapposto, si pone qual Maestro e donno, Cacciando ec. cioè (come intende il Cesari) capocaccia.-Virgilio chiamò maestro il pastore. (Ecl. III.): Idem amor exitium est pecori, pecorisque ma(gistro.

e (Æn. IX. 173) adoperò la stessa voce

(a) S. Johan. XIII. 13: Vos vocatis me MAGISTER ET DOMINE: et bene dicitis; sum etenim.→ Vagheggiando l' idea religiosa, il Poeta vide orrenda cosa, che un Arcivescovo si mettesse a capo de' faziosi, e gl'incitasse alle vendette ed al sangue: cagne magre in caccia di lupi, e prepotenti del secolo erano i messi (v. 33) dell'Arcivescovo Ruggieri; in antitesi degli umili Apostoli che chiamaron Gesù loro MAESTRO E DONNO, e si misero in cerca di pecore per convertirle alla greggia del Signore.

Per che i Pisan veder Lucca non ponno,

in sentimento di grande dell'esercito, sommo duce ec. :

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Rectores juvenum etrerum dedit esse magistros. Festo: Magister populi, cuius erat in populum summa potestas. Anche nella Bibbia. Deut., XVI, 18. Judices et ma gistros constitues.... ut judicent populos. DONNO è più che maestro; potendo valere Signore, padrone, re ec. Virgilio l'usa in significato di tiranno (En. VI, 621 seg.), dove pone nel Tartaro chi vendè la patria, o la pose al giogo de' despoti ec.

Vendit hic auro patriam, dominumque potentem Imposuit, fixit leges pretio, atque refixit. CACCIANDO: cacciante,che cacciava,o nel cacciare, ec. Michaea, VII, 2: Vir fratrem suum ad mortem venatur.

Il lupo e i lupiCINI. Ugolino sognando vide sè figurato nel lupo, i figliuoli e i nipoti ne' lupicini: non già che quei nomi a loro ei credesse convenirsi, ma perchè alcuna simiglianza v'era tra la caccia che suol darsi a cotesti animali, e parte di quello ch' era già intervenuto nella sua presura. Per sì tremenda visione diviene ormai indovino del suo male, e ne prende l' augurio, ch' egli e i suoi cari figliuoli verrebbero consunti e lacerati da fame rabbiosa, come lupo da magre cagne inseguenti. Il Poeta, che fe' parte da sè, amico solo alla rettitudine, non la risparmia qui ai Guelfi, nè ai Ghibellini ; e quelli adombra sotto l'imagine di lupi, questi di cagne. L'Ottimo vide in Ugolino lupo significata la tiranni

de o il Licaone della Favola.

29-30. MONTE, PER CHE ec. Monte San Giuliano, ch'è tra Lucca e Pisa; onde non possono i Pisani veder l'e: mula città, tutto non più che un dodici miglia da essa lontani. Questi (il lupo e i lupicini) correvano inverso monte Pisano ec.; e questo significa, che il Conte dubitando, havea ordinato di ridursi a Lucca dove reggevano i Guelfi. Landino. Lo cacciano verso Lucca per rinfacciargli le castella tradite a Lucca e a Firenze. Tomm. Com.

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È taciuto anco il nome del monte, e disegnato esso monte per questo ch' e' toglie a Pisa la veduta di Lucca, come se

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ogni cosa dovesse qui essere linto d'odio e muto di luce. Tomm., Illustraz. al C. XXXII, in fine.

30. PONNO possono. Innanzi a questa voce pongono il punto fermo il Landino col Vellutello, il Bargigi, il Volpi, il Venturi, il Lombardi, il Biagioli, il Niccolini ec., il Bianchi ed altri. Ma: Io (dice il Cesari) tiro innanzi questo costrutto,con sola una virgola posta qui; parendomi che le cagne vadano congiunte al cacciare del lupo. Il Tommaseo segue la stessa interpunzione; tengono amendue la sentenza, che Ruggieri, menando egli quel tradimento, s'avea messo dinanzi dalla fronte quelle cagne magre ec. intese per le famiglie potenti messe in faccenda contro Ugolino; quindi dopo conte van posti i due punti, essendo secondo loro i due versi 32, 33 una esplicazione della sentenza precedente. Il Biagioli accomoda la identica interpretazione, ancorchè con diversa punteggiatura, per una sottigliezza forse più fina, che vera. Dà alla particola con del v. 31 CON GAGNE MAGRE ec. Egli si aveva mesil significato di come (a) e intende così: si dinanzi dalla fronte Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi come cagne magre studiose e conte. Il ch. Tommaseo (b) scrive: « Di questo strazio tutto intimo e spirituale è parte non piccola il sogno nel quale egli vede le cagne caccianti lui lupo; e in quelle (come suole ne' sogni, che le imagini si confondono per più illustrarsi alla coscienza in luce nuova fulminea), riconosce i nemici suoi, i Sismondi, i Lanfranchi, i Gualandi, nomi come il suo germanici tutti ». A noi pare, che nella visione del Conte son da sceverare le cagne da' maggiorenti

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Le voci col (Purg. XIII, 9; XXIX, 145), colle (a) Nè può negarsi che talvolta le convenga. (Par. XXXI, 61), valgono comé'l, come le. Dante da Majano scrive:

Col parpallion m' ha morto in disianza. il qual verso non fu inteso dal Monti, che prese il col come preposizione articolata. Ma qui è egli certo che la particella con abbia a togliersi

nel sentimento che vuole il Biagioli, anzichè

delle altre identiche,messe dal Poeta nel corso dello stesso costrutto?

(b) Com. al C. XIII, in fine.

Con cagne magre, studiose e conte:

Pisani che alla caccia del lupo accompagnavano il capocaccia Ruggieri; e non già che Ugolino spiegasse egli a sè stesso nel sogno, come quelle cagne significassero le tre famiglie potenti, alle quali non crediamo si possa applicare l'epiteto di MAGRE che, anche a sentimento dell'ill. uomo, Simboleggia la fame, come le vacche del re Faraone. Úgolino vide in sogno l'Arcivescovo, i suoi satelliti Gualandi ec. che s' avea messi dinanzi dalla fronte, e le cagne,che non son da confondere con quei nobili. Tutte que ste specie fantastiche costituivano un sogno solo; nel quale nessuna parte era il prodotto dell' attività intellettiva dello spirito sopito nel sonno; e tutte nel loro complesso erano ordinate a rendere al Conte, poi che si fosse desto, il tristo presagio de' casi suoi.

Il Venturi non avrebbe, con questo avviso, fatta colpa al Poeta d'aver egli, colla interposizione delle potenti famiglie Pisane, interrotto il suo parlare allegorico sotto metafore; e Dante fu qui censurato perchè franteso.

Il Landino, il Vellutello, il Venturi, generalmente i più antichi, intesero cagne magre per la plebe: e quegli assennati espositori schivarono le difficoltà nelle quali restano involti i chiosatori moderni.

31. CON CAGNE MAGRE ec. Pel prelato si dimostra l'Arcivescovo; e per le cagne il popolo. Land. - Parveli nel sonno vedere l'Arcivescovo insieme con le tre famiglie di sopra dette, e con LE CAGNE MAGRE, intese per la plebe, cacciare un lupo coi lupicini. Vellut.- Rappresentava questo sogno la caccia, che dato avea a sè ed ai suoi figli l'Arcivescovo con le dette parentele, loro dando la caccia con CAGNE MAGRE E CONTE,

STUDIOSE spedile, pronte, sollecite in cacciare. E voce significativa insieme di fretta, diligenza, ardore e favore, onde uno fa opera a cui per naturale ingegno è ordinato e disposto. I Toscani hanno studiarsi per affrellarsi; ma qui la voce ritiene anche dal latino la nozione di fautore, benevolo, parziale, che fuori dell' allegoria quadra molto bene a quelle cagne aissate da una contro un'altra fazione.

CONTE: ammaestrate a simil caccia, avvezzate al mestiere. Pietro dal Rio crede più aggiustatamente spiegar questa voce, applicandole il significato generico di acconce, cioè atte, idonee, da ciò. Nella quale opinione egli riconfermasi, dopo che il Fornaciari ebbe notato non potere in altro sentimento pigliarsi questo vocabolo là dove Francesco da Barberino (Docum.VII, 8) dice, che i cavalli alti sono troppo più conti a passar fiumi, fanghi e monti, che i cavalli bassi; e che a passar fiumi ci ha mestieri di ferme navi e conte. Cotal nozione re

car buona sentenza nelle frasi saette conte (Purg. II, 56), le parole tue sien conte (Inf. X, 39). Il Buti, ch'è autore della prima spiegazione, fa la voce conte sincope del lat. cognitae, usata in questo luogo in significato attivo, cioè: istruite alla caccia. I latini ebbero ezian

dio nolus ne' due sensi di chi è noto e di chi conosce. Altri trae conto da comptus (a). Il Landino, il Vellutello, il Cesari, nonchè altri, non ci aprono la loro mente circa il significato della parola conte. Il Sansovino scrive: « CONTEZZA, conoscenza, voce usata leggiadramente

(a) Nel Convito si legge : « E così dicere che la nobile natura lo suo corpo abbellisca, e faccia COMPTO e accorto non è'altro dire,se non che

ovvero avvezzate al mestiere, cioè coll'acconcia a perfezione d' ordine. La nostr'anipopolo minuto, nel quale erano uomini senza fama, poveri, e pronti a fare novità. Bargigi.

MAGRE: gracili, snelle; acciocchè potessero essere più leggiere al corso, più anelanti alla preda, e più specchiato segno della fame che dovea consumare Ugolino.

ma opera gran parte delle sue operazioni con organo corporale; e allora opera bene, che 'l corpo è bene per le sue parti ordinato e disposto. I fautori dell'anzidetta etimologia, col sig. Fanfani, potrebbero intendere per CAGNE CONTE quelle, che per naturale disposizione del corpo loro andavano più spedite all'assalto; e lasciare ai due epiteti di magre e di sollecite, l'officio di significare l'abitudine non naturale ed acquisita da quelle cagne nella dimestichezza co'loro padroni.

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