Page images
PDF
EPUB

me.

Cioè come la morte mia fu cruda,
Udirai, e saprai se m' ha offeso.
Breve pertugio dentro dalla muda,

del carcere mi avvenne, e niuno è, da
cui abbi potuto saperlo. Ciò che non
puoi avere INTESO da altri, UDIRAI da
E SAPRAI Con certezza; poichè
sono io medesimo che tel racconto. E
notabile la proprietà delle voci qui usa-
te: avere inteso, udirai, saprai. Il
Poeta (C. prec. v. 137) dice:

Sappiendo chi voi siete, e la sua pecca. Ad Ugolino stesso più che alla fama incerta debb' egli credere, per intender la ragione di quell' odio immortale; e su poi nel mondo cangiargliene, come fece, di santa ragione.

20. COME LA MORTE MIA FU CRUDA. ECco la chiave che ci apre il segreto di questa narrazione. Ognuno già sapeva che cruda dovett' essere la morte di Ugolino perito di fame; egli dunque più che alla fame, ad altre cose riferisce l'atrocità della sua morte. Concorrono a rendere ineffabile lo strazio tutto intimo e spirituale molte e svariate cagioni: l'indole d' uomo non sai dire se più incivilito che fiero, il quale dal culmine dell' ottenuta signoria va travolto nel fondo d'una tetra prigione a furor di quel popolo che l'avea festeggiato; l'esser ferito a morte nel proprio orgoglio da avversari che l' aveano superato nelle arti del tradimento:

Tu dèi saper ch' io fui Conte Ugolino! Sentirsi moltiplicato nell'anima il tormento vedendo seco iniquamente dannati alla stessa pena gl' innocenti figliuoli; lo spettacolo dell' attuale realtà, che tutte manda in fumo le lusinghiere beatitudini del passato; il sogno che coi suoi funesti fantasmi gli aggrava l'idea del presente, e spalanca dinanzi l'abisso d' uno spaventoso avvenire: tutti questi pensieri in quell' uomo che non ha istante di tempo, nè punto di luogo dove gli riluca barlume di speranza che lo conforti, assalgono con più ferocia e lacerano l'anima con morsi più crudeli e più acuti, che la fame non infigge nelle membra lungamente digiune.

Le particolarità che fecero CRUDA la morte di Conte Ugolino non furon le co

20

muni di coloro che periscono della fame. Fu disperato dolore che ancora, già pur pensando, premevagli il cuore (v. 5 seg.); e dolore, non fame gli fa morder le mani (v. 58). Quella stessa che soffrono gl' innocenti figliuoli, moltiplica nella fantasia del padre le imagini dei lor patimenti, e l'amore tutti gli riversa sopra di sè, e gliene fa sentire più acuti che della propria le trafitture e gli spasimi; famelico egli stesso tanto maggiormente patisce, quanto la privazione del cibo necessario vie più gliene aguzza la brama, e il disperato pensiero di mai non poterla appagare aggrava il male col presentimento di un lungo soffrire. Il contrasto e la prevalenza di questo moral sentimento sulla stessa natura corporea dell' uomo, la quale reclama l'alimento necessario alla propria conservazione, è il vero punto obiettivo che il Poeta ebbe in mira. Egli con la potenza dell'arte sua raccoglie in unità gli sparsi elementi delle cose, rende spirituale quel ch'è più materiale nel mondo di fuori, e tribuisce al pensiero la parte maggiore ch'esso prende, come nelle delizie, così nelle angosce della vita. Nel fallo di Ugolino la parte più rilevante in sè stessa, quella che moralmente e civilmente più premeva al Poeta, non era già descrivere uno o più uomini che basiscono di fame, ma un superbo e traditore della sua patria che in pena dell' orgoglio e del misfatlo è tradito, e muore morte lunghissima non tanto in sè quanto nella fame de' suoi cari innocenti. Il dolore corporeo de' quali egli non poteva sentire in sè stesso se non colla fantasia e con l'amore e con la meditazione assidua del presente spettacolo fierissimo; ond'è che il dolore corporeo stesso a lui si converte in dolore dell'anima, e così si fa più crudo e più penetrante. Tom

maseo

21. E SAPRAI SE M'HA OFFESO, cioè, tanto, che non abbi a maravigliarti dell' odio, ch' io gli porto, e della ferocia, ond' io gli rodo il teschio (C. prec.

La qual per me ha 'l titol della fame,
E in che conviene ancor ch' altri si chiuda,

[blocks in formation]

MUDA carcere buia.· Gli antichi usarono mudare per mutare, a cagione della stretta affinità delle lettere de t. Quindi anche muda per mula. Bandino Padovano:

Di mia sentenza però non mi mudo. Muda s'intende per la stia dove si serrano gli uccelli a mutare le penne. Nella torre, ove fu chiuso il Conte Ugolino, mudavano, dice il Buti, le aquile

del comune. Muda nondimeno si disse

anticamente la muta delle guardie che sopravvegghiavano ai fortilizi e a luoghi simili. Nel Dittam. Lib. III, Cap. I: Ov' è un lago,

Che si guarda la state a muda a muda. Non volendo pensare che quell' infelice Conte venisse assimigliato dal Poeta a un fringuello messo nella torre a mutar le piume; si potrebbe almanco sospettare che in questo verso la muda presa nel senso di custodia o di guardia, significasse il luogo stesso custodito e guardato; siccome anche oggidì si dice guardia al luogo dalle ascolte munito. Dante però usurpa qui la voce MUDA in significato di prigione, chiamandola egli stesso (v. 56), doloroso carcere. In simil guisa il Petrarca (Trionf. d'Am., Cap. 4) disse:

In così tenebrosa e stretta gabbia

Rinchiusi fummo; ove le penne usate Mutai per tempo, e le mie prime labbia. Il Guiniforti spone il traslato: DENTRO DALLA MUDA : dalla prigione, la qual, ben posso chiamar muda, a similitudine di quella degli uccelli, perocch'io vi mutai entro le penne, mutai mia fortuna, e vi lasciai il corpo. Il Buti Muda chiama quella torre, o forse perchè così era chiamata, perchè vi si tenessono le aquile del comune a muda

[ocr errors]

re; o per transunzione, che vi fu rinchiuso il Conte e li figliuoli come gli uccelli nella muda.» Contrapposto terribile è chiamar muda il doloroso carcere ». Tomm.

23. PER ME: per questo fatto.

TITOL DELLA FAME È detta: la torre della fame.- TITOLO, che propriamente vale gloria, vanto, pare qui adoperato con amara ironia. Il Vill. Lib. VII. Cap. 127: E da allora innanzi fu la detta torre chiamata la torre della fame, e sarà sempre.

24. E IN CHE ec. Ugolino ciò non dice perchè vegga di lontano quel che il temsegg.); ma perchè crede che ad altri fapo era per seco addurre (Inf. X, 100 cilmente incontrerà quello che a lui, in una città soggetta a spesse mutazioni, per causa del civile disordine e pel furore degli opposti partiti. Noi non crediamo che Ugolino, e nè Dante, profetasse qui nulla. I vaticini de' poeti son di cose passate; e a voler tenere per profetiche queste parole, farebbe mestieri che, dal 1288 al tempo della visione Alligheriana, fosse avvenuto qualche altro caso simile quello del Conte Ugolino (a).

a

Var. E che... altrui, il Cod. Cassin., il Filipp., le quattro prime edizioni di Fol., Mant., Jes., Nap.; i Codd. Vat. n. 3199, e Caetani. Secondo la quale lettera il verso direbbe :

E che conviene ancor ch' altrui si chiuda.

quello spirito, se vero fosse ciò che si legge in (a) Terremmo come vatidica la sentenza di un codice della Biblioteca Chigiana; e se il Poeta avesse voluto a quel fatto riferire la predizione. «Un figlio del Conte Ugolino fu dalla nutrice sottratto al comune destino de' suoi. Fatto grande, e saputo il caso, ne prese sì disperato dolore, che da Lucca, ove fu cresciuto e dimorava, recossi a Pisa, dicendo che egli era colà venuto per correre la sorte comune di sua gente. Udito ciò i Pisani lo ebbero per pazzo e lo sostennero in carcere. Dopo un anno la donna che lo aveva allevato, domandò di essere messa a' servigi di lui. Le fu conceduta la domanda a patto di seco starsi rinchiusa. Per tale comunione di vita non venne meno la prosapia di Conte Ugolino. Carlo IV, che passò di colà, mise in libertà que' due, de' quali lo scritto non parla avanti ». Strocchi.

M' avea mostrato per lo suo forame
Più lume già, quand' io feci 'l mal sonno,

molto per verità più conforme al con-
cetto; perciocchè Ugolino non vuol si-
gnificare che altri verrebbe chiuso nella
torre, il che poteva accadere senza con-
danna di morte; ma che la porta della
torre si chiuderebbe ad altri come a lui,
che intese chiavar l'uscio di sotto, se-
gno evidente della terribile sentenza, e
al quale ci avvisa voler egli alludere in
questo luogo.

25. Forame; il vano o l'apertura

del foro. Un famoso comentatore chiosa:

Ma se

«Per lo suo forame, il sopraddetto breve pertugio, pel suo foro ». pertugio è, anche secondo lui, buco, foro; ne seguiterebbe che ad Ugolino il foro avesse pel suo foro mostrato più lune: il che pare inconveniente, chi voglia stare alla proprietà de' vocaboli, che in Dante, più che in altri, rigorosamente si osserva.

26. Più LUME. Preferiamo questa lezione all'altra più LUNE, che dalla Crusca fu tenuta come la vera, e che gli espositori moderni prescelsero pe'loro testi. Più lume hanno le edizioni di Mil. e di Jesi (an. 1472), il cod. del Boccaccio (Vat. n. 3199); il testo Bargigi, e Landino, l' ediz. del Burgofr. Ven. 1529; la 2a delle Rovilliane, Lion. 1551; la 1a delle Sansov., Ven. 1564; la Fulgon., Rom. 1791; quella del De Romanis, Rom. 1822, e molti altri autorevoli testi editi e MSS. antichissimi. Le prime edizioni di Foligno e di Napoli, e il cod. di Berlino leggono più lieve, e non favoriscono la lezione comunemente adottata più lune, che trovasi nel cod. Cassinese e nella Nidobeatina, dalla quale il Lombardi questa volta discostasi, scrivendo e chiosando PIÙ LUME: mollo lume. « Così amo di leggere con molte antiche edizioni, tra le quali l' Aldina, e con la maggior parte de' mss. veduti dagli Accademici della Crusca, e non più lune, come la Nidob. e i detti Accademici, sull'autorità di soli otto fra un centinaio di testi. Essendo stato il Conte Ugolino (ecco la ragione che recano gli Accademici di aver cangiato più lume in più lune),

25

come racconta Gio. Villani, dall' Agosto al Marzo in prigione, volle il Poeta, secondo noi, mostrar la lunghezza di quella prigionia con le parole più LUNE. Hanno però essi Accademici mancato di avvertire che il tempo della prigionia del Conte Ugolino doveva essere cosa a Dante già nota: e che non vuole il Conte dire se non di quello che Dante non potè aver inteso, v. 19. Al contrario di superfluo, ma serve ottimamente ad più lume non solo ha nulla d'incoerente indicare la cagione per cui prestasse egli al sogno fede. Imperocchè dicendo che più lume cioè lume molto già gli si era fatto vedere quando sognò, viene a dire, ch' era quella l' ora

La rondinella

che incomincia i tristi lại

E che la mente nostra pellegrina Più dalla carne, e men da' pensier presa Alle sue vision quasi è divina. (Pur.ÍX, 13 seg.) Nè perchè poi dica Ugolino, Quand' io fui desto innanzi la dimane ec. (v.37) viene perciò questo senso a turbarsi, come oppone il Daniello. Basta che distinguasi l' aurora dalla dimane, cioè dal giorno, che incomincia all' uscir del Sole ed avvertasi che l'aurora in Marzo (tempo in cui, testimonio il Villani, sostenne il Conte la crudel morte) dura un'ora e mezza, e facilmente s'intenderà come potesse il medesimo Conte incominciare il mal sogno dopo nata l'aurora, e terminarlo innanzi la dimane, cioè durante la stessa aurora ». Lombardi. - Al Zacheroni parve soverchio di aggiungere altro, dopo tutto questo ch'è stato detto dal Lombardi, per giustificare la lezione più lume, che si ha nel testo del Guiniforti. Ma secondo il Biagioli è cotesto uno de' troppo spessi scappucci che il Lombardi suol fare camminando in questo aspro sentiero. Ponderiamo le ragioni che allega in contrario il sottile comentatore.-«1°. Che l'espressione più lume non mi par giusta, nè conveniente ad esprimere l' aurora per quanto avanzata sia » - Non giusta nè conveniente, quando in modo assoluto, o, come dicevano gli Scolastici, sic et simpliciter volesse altri dinotare l' aurora per la frase

più lume, la quale potrebbe significare un eccesso qualunque di lume in tutte le ore diurne per effetto della luce solare, e nelle notturne per quello della luce artificiale ma nel caso del Conte Ugolino ch' era in carcere buia, l' espressione più lume è relativa all'oscurità precedente della notte, nè può altro significare che l'effetto della nuova luce apparsa sull'orizzonte e per lo spiraglio dell'orribile torre penetratavi entro.« Negli antichissimi codici che si conservano nel nostro Istituto, havvi più lume. In quello segnato col no. 135 si legge più lume (idest oriebatur dies, così è comentato) ». Mazzoni Toselli (a).

«<2.° Che se fosse com'egli dice, bisognerebbe che Ugolino si fusse destato per vedere quel più lume, addormentatosi poi, e fatto quel terribile sogno; il che quanto impossibil sia ognuno per sè lo vede. »> Il Sig. Biagioli non crede che quel misero condannato potesse aver avuti sonni interrotti! A noi pare impossibile il contrario. I pensieri fugano il sonno. Nel turbine degli affetti che agitavano l'anima di Ugolino, l'impossibile è concepire ch'ei potesse far soave e riposato sonno. E nondimeno questi valorosi comentatori, contro i fatti della più volgare esperienza, danno ai guai la virtù narcotica, e vogliono che il Conte, in quello stremo tormentosissimo, legasse l'asino a buona caviglia. Concediamo pure al valentuomo (3.o e 4.° dei suoi argomenti contro il Lombardi) che Ugolino potesse accennar di volo il tempo della sua prigionia, quantunque noto a Dante; e che il ciò fare fosse cosa naturalissima ed aggravasse, anzi che no, il suo tragico fine: ma non sembra ragionevole lo aggiugnere che il Poeta deve e vuol dirlo a chi doveva leggere i suoi scritti mille e mille anni dopo; perciocchè Dante vuol esser poeta, non cronologo; e chi dopo i secoli de' secoli avrà vaghezza di saper la durata della prigionia, andrà a consultare non già la Divina Commedia, ma le cronache e le storie del tempo; e troverà che neppure gli storiografi si son curati di narrare appunto appunto quello stesso, che il

(a) Dizionario, voc. Dimani.

Biagioli pretende che il Poeta dovesse e volesse dire. Finalmente, concesso che Dante potè far checchessia, da ciò non viene che l'abbia fatto. Non è dunque il solo Lombardi che scappucci per questo aspro sentiero.

Più speciosi, ma non meno futili, sono gli argomenti pe' quali il Ch. P. Costa s' induce a seguitare la lezione del Volpi e del Venturi. « Il Conte Ugolino, dic' egli, fu desto innanzi la dimane, cioè innanzi al principio del giorno; perciò è che, se prima di quell'ora egli aveva sognato, non può essere che più lume già fosse entrato per lo forame della torre. >> - Qui s'abusa il vocabolo dimane, definendolo, così vagamente, pel principio del giorno, e facendo intender principio del giorno i primi albori, che appariscono sull'orizzonte ortivo; quando che il suo vero significato è piuttosto quello che gli assegna il Lombardi. Gli antichi interpretarono MANE, dies clarus. Alcuni, a testimonianza di Varrone, fanno la voce dal verbo manare; quod tum manat dies. Festo riferisce essersi antichissimamente usitata la frase Solem manare significativa di quel punto di tempo, che cominciano a gittarsi sulla terra i raggi del Sol nascente. Ugolino soqnò dunque innanzi la dimane, e pria che sognasse, avea veduto di quel lume che al dì chiaro precede. Il Toselli scrive: « Sarebbe mai voce composta di Dì giorno, e di Man grande, la voce Dimani ? I Galli al riferire di Cesare contavano il tempo dalle notti. In Francia il giorno comincia dalla mezza notte, e l'Alba è chiamata Petit jour, e lo spazio dopo l'Alba Grand jour. Altre volte in Italia contavasi il giorno dal principio della notte, e lo spazio che è dopo l'Alba dicesi da' Bolognesi Degrand. Da tutto ciò si potrebbe congetturare che Dimani avesse in origine significato giorno grande, cioè lo spazio dopo l'Alba. Il Conte Ugolino vide più lume, cioè l'Alba o l' Aurora prima di fare il mal sogno; e questo fece dopo l'Alba e prima della Dimane. » Ma seguita il Costa : E quand'anche esso Conte avesse sognato dopo l'Aurora, era cosa naturale, che egli dicesse che più lume gli avea mostrato la torre per lo

suo forame? chi sogna dorme, chi dorme non vede. »> Mi avea mostrato, dice Ugolino; dunque vid' egli lume prima di dormire e di sognare. Noi crediamo che quell' infelice sostenne penosa veglia fino allo spuntar del primo raggio mattutino; che questa luce benefica fugando parte de' tristi fantasmi che seco la notte adduce, contribuì molto a fare che quel misero,combattuto da'pensieri, cadesse per istanchezza, come ad altri addivenir suole, nel sonno; il quale non fu nemmanco quiete ed obblio momentaneo delle sue sciagure; che mentre dorme gli è turbato lo spirito da fiere visioni.«Leggiamo dunque più lune (il Costa), e interpretiamo coi sopraddetti chiosatori già cran passati più mesi dalla mia prigionia (cioè dall'Agosto al Marzo, secondo che narra Giovanni Villani). È cosa naturale che colui che sta chiuso e solitario in carcere discerna e noti i mesi dal risplendere che fa la luna d' intervallo in intervallo di tempo. Si noti ancora che quando Ugolino parla del secondo giorno dopo il sogno, dice: Come un poco di raggio si fu messo nel doloroso carcere ec. Se il raggio era poco nell' ora che il Sole, come si è detto nel verso antecedente, era uscito nel mondo, manifesto è che più lume non poteva essere entrato in essa torre sul far dell' Alba. »

L'espressione più lume è relativa al buio notturno, e tal potè dirsi di qualsivoglia gradazione si fosse: l'altra espressione un poco di raggio è riferita alla luce sfolgorante del Sole già nato, in rapporto alla quale poco veramente esser dovea qualunque raggio luminoso, che penetrar potesse nel tenebroso carcere. Adunque il più lume non può mettersi in confronto col poco di raggio: quello sta ben detto, ancorchè scarso fievol fosse, al paragone della notte; questo bene ancora detto poco, rispetto al molto che irradiava il mondo, e rispetto eziandio alla quantità necessaria a poter chiaramente vedere nella scura torre i visi de' figliuoli. I quali visi dice il padre d'aver non veduti, ma scorti; nel che il Poeta, osservando la stretta proprietà de' vocaboli, ci fa intendere come quello scorgere non fosse senza sbirciare

in alcun modo in mezzo alla scarsa luce, non fosse che un vedere a fatica. Dopo questa considerazione noi possiamo rigorosamente concludere contro il Ch. Costa, che quel poco lume era maggiore del più lume. La Grammatica ci vede un assurdo se corre dietro alla lettera morta; la ragione, che cerca lo spirito nella lettera, in questi paradossi apparenti rintraccia il vero.

Che poi per le più lune abbia il Conte Ugolino misurato il tempo della sua prigionia, concedasi pure ai sapientissimi Accademici della Crusca; concedasi al Ch. Tommaseo, e ad altri, che sia un contrapposto terribile il far penetrare per lunghi mesi in quel buio il notturno lume della luna, e poi di giorno un poco di raggio quanto a vedere i quattro moribondi figliuoli; non potrà mai all'ill. Costa mandarsi buona, che, se al chiaro sole poco lume v' entrava, e all'alba pochissimo, potesse poi Ugolino nel fondo di torre buia, nelle notti invernali, che le nuvole oscurano il cielo, veder tanto chiaror di lume lunare per sì piccol foro, da misurare i tristi mesi della sua prigionia. A noi pare che il Conte meglio potea contarli, discernendo i dì dalle notti per la luce diurna, che vi permetteva il breve pertugio; quando però non altre cure avuto avesse colui, che di calcolare il tempo, notando le fasi del nostro satellite, da una specola, per verità, nulla acconcia alla compilazione de' calendari. E a noi, dietro l'autorità di sì grandi uomini, non sarebbe dispiaciuto che Conte Ugolino, il quale non avea guardato mai alle stelle, fosse ito in prigione per apparare di Astronomia; ma ci pare impossibile che, ne' torbidi dell'anima sua, potesse egli avanzarvisi e non errare ne' calcoli, che dimandano mente tranquilla e serena. Ancora, com'è mai che Ugolino contasse molti mesi pel pertugio di quella prigione, dov' egli pure non giacque che pochissimi giorni? Nella stampa di Venezia 1568, appo Pietro da Fino, è a questo luogo la lettera più lumi, cioè, più giorni, secondo l' interpretazione di Torquato Tasso (a). E ne' frammenti del

(a) Nel 1400 anche i prosanti usarono lume in sentimento di giorno. Da Prato, Stor.Milan.:

« PreviousContinue »