come condottiero a respingere le fiorentine armi che dopo la morte d'Enrico imperatore li premevanò, in breve gli uffizii della guerra e della pace, e tutta in fine la repubblica nel suo arbitrio raccolse; e la potestà concessagli per punire i nemici usó per opprimere i cittadini. Soggiogata Pisa a violento dominio, trasse a sè la vicina Lucca, non ultima fra le città toscane; e tanto col flagello di guerra l'afflisse, da costringerla al giogo di una medesima servitu. Con le forze di due si nobili città e' non reggeva soltanto l'acquistata tirannide, ma all'occasione, sotto pretesto di aiutare parte ghibellina, con ingiuste armi tendeva insidie alle altrui libertà continove. E vinti i Fiorentini in battaglia a Monte-Catini, e fiaccatili, aveva in tutta Toscana diffuso gran terrore di sè, e già Volterra e già Pistoia con l'armi e con l'animo cupido minacciava. Or codesti due tiranni avevano invasa la città nostra, sito ad essi opportuno, che tiravano ad Arezzo e a Perugia, e non molto distanti dalla Sarsina e da' castelli ch'e' possedevano sopra l'Apennino: onde toltaci libertà, che fino a quel giorno San Sepolcro aveva conservata intatta, sotto acerba e dura servitù ci premevano. Nè speranza o scampo alcuno mostravasi a'cittadini, onde sottrarsi a si misera peste: avevan già sottoposto il collo al giogo, e con fiacco dolore portavano la sventura. Carlo, oltrechè l'ingiusta calamità della patria fortemente lo commoveva, era de' Neri altresi privato inimico, non solo per odio della tirannide ma per animosità di fazione contraria. Egli, nella casa dei re napoletani educato, e guerriero sempre di loro, per le cui forze e autorità tutti i Guelfi di tutta Italia si reggevano, aveva quasi succiato col latte l'odio dei Ghibellini: onde stimando dovere vendicare la patria da si crudele infortunio, con tutto lo sforzo dell'animo a questo attendeva. Raccolti amici d' ogni intorno; incitati dal medesimo odio di parte, pregó i Perugini segnatamente, a'quali era stretto da pubblici vincoli (aveva un tempo comandato il loro esercito), li pregò volessero, o fosse a liberar la patria o fosse a combattere il nemico comune, aiutarlo. Consiglio non soffrissero in città si prossima alla loro, le forze de' tiranni distendersi, per poi minacciare, se a tempo non vi si ostasse, tutti i popoli circonvicini: consiglio spegnessero quell' incendio, massimamente a'Guelfi molesto, prima che serpeggiasse più innanzi. Mosse i Perugini e l'una cosa e l'altra, e la pia sollecitudine di Carlo nel recare all'oppressa patria soccorso, e della vicina tirannide si l'esempio, si la forza e la frode, per nulla favorevoli alla libertà loro. Fatta cerna di soldati quanto parve sufficiente a compire l'impresa, li diedero a Carlo. Il quale senza punto indugiare, avvisati per secreti messi e del suo disegno e della venuta i cittadini, corse al Borgo con quanta mai celerità si poteva. De'due tiranni l'uno era al Borgo, Neri; e a stabilire la signoria con astuzie e rapine, come i tiranni sogliono, s'adoprava. Ebbe tutt'insieme improvviso l' annunzio, che Carlo veniva, che c'era giá. Sbigottito del subito caso, conoscendo come il presidio che aveva seco a tenere in timore i cittadini, non fosse assai forte a sostenere l'incontro di Carlo, vedendo gli animi de' Borghesi levarsi a nuova speranza, senza pur tentare battaglia, mentre già Carlo era sotto alle mura, per l'opposta parte usci di città. Parve questo essere stato quasi l'augurio della prossima ruina che lui colse e il padre suo e la famiglia. Giacchè la signoria d'Uguccione ebbe tal fine da incutere stupore e sgomento a' tiranni. Stabilito ch'egli ebbe questo medesimo Neri signor di Lucca con titolo di pretore, costui, per raffermarsi nel grado, risolse di togliere di mezzo Castruccio Castracani, giovane di esimio valore e nobiltà; ma cacciato che l'ebbe in carcere, vide la città tutta si altamente turbata, che per consumare più sicuramente il misfatto, chiamò da Pisa Uguccione suo padre. Questi frettolosamente venuto con una banda di Tedeschi a cavallo fu dal figliuolo accolto a lauto convito: fra il quale, mentre che, ghiotto com'era e vorace, tripudiava a gola, ecco venirgli la nuova che i Pisani, per la sua assenza preso animo, si sommossero e con grande tumulto corsero all' armi. Giá prima ancora i Pisani, nemici alla tirannide d'Uguccione, e intenti a scuotere giogo si duro, avevano congiurato; e occultamente confortato Castruccio e altri Lucchesi de'primi ad osare il medesimo: e tanto più covavano il rancore nell'animo, e ad ogni occasione di sfogarlo anelavano, che Uguccione, temendo appunto di ciò, aveva morti alquanti di loro che più sospettava. Il qual timore d'essere a uno a uno di giorno in giorno abbacchiati accrebbe l'odio e la pressa di non più differire, senza scemare il coraggio. Null'altro dunque aspettando che il tempo di effettuare il consiglio, non perdettero l'occasione dell'assenza di lui. Uguccione, o poca fede prestasse, o pigliasse a gabbo la cosa, non se ne turbo tanto da voler üscir dı pranzo prima d'essere alle ultime vivande e alle frutte. Se fosse, come bisognava, subito uscito col messo, vogliono sarebbe venuto in tempo a sedare il tumulto. Ma quando, ben sazio e pieno di cibi, e' correva da ultimo verso Pisa, senti ch' ogni cosa era disperatamente perduta; che già i Pisani, trucidati i servi e le guardie di lui, avevano riacquistata la libertà, e la città fatta di proprio diritto. Escluso a questo modo da Pisa, e' ritiravasi a Lucca, ma anche quivi pure trovò la sorte ugualmente nemica. Chè i Lucchesi alla nuova e all' esempio della Pisana sommossa, anch' eglino, prese le armi, traggono Castruccio di carcere; e da lui guidati discacciano i Neri e i satelliti. Però ad Uguccione in mezz'ora spogliato dela doppia tirannide, fu non senza sale rinfacciato una volta, ch' e' s' era divorato in un pranzo due città. Visse poi presso Cane della Scala tiranno dei Veronesi, e da lui e da Spinetta Malaspina aiutato, per mezzo de'Lanfranchi, de' più potenti tra i cittadini di Pisa, tentò il ritorno nella perduta signoria: ma scoperta la trama, fu rotta, e i Lanfranchi a furia di popolo malmenati. Però d'ogni parte rigettato, e battuto dalla fortuna, fu da Cane messo capitano alle sue milizie; e nell'assedio di Padova, esule, povero, e dell'altrui potenza satellite, egli che un giorno tanto aveva abusata la propria, mori. Neri il figlio, caduto da tale altezza, raccolse sè e la famiglia là sopra il Borgo in alcune castella dell' Apennino, e spesso tentò di cacciarsi signore del Borgo: ma ingannato di sua speranza ricadde nell'inopia di prima, fintantoché i Fiorentini di quelle stesse castella lui e la sua prole privarono. Vivono ancora i posteri loro in un castellaccio di poche case ne'medesimi monti, che si chiama Corneto; ricaduti nella bassezza e povertà dell' origine antica. Ostentano i monumenti e i diplomi dell'amplissima avita fortuna, di null'altro eredi se non dei nomi di Uguccione e di Neri. Carlo (per tornare al proposito) dopo la fuga del tiranno, viene accolto con somma allegrezza del popolo congratulante. Entrato in città tra le fauste grida che lo chiamavano padre e liberatore, lagrimando di gioia ed egli e i vecchi più di tutti, venne alla piazza, dove tanto era il concorso, che le donne stesse, non rattenute da' riguardi del decoro e del sesso, accorrevano in folla, e si mescolavano alla turba degli uomini, desiderose di vederlo, e alcune di parlargli e toccar la sua mano, e del ritorno e della vittoria congratularsi. Carlo, poich' ebbe strettamente abbracciati i più prossimi a sé, fatto dai banditori silenzio, tacendo tutti, incominciò dicendo, quanto dolore avesse sentito dell'acerba ruina della sua patria: indi discorse delle cose tentate per liberarla, e rese a Dio grazie che gli avesse conceduto poter senza ferite, senza sangue, e senza pericolo o danno alcuno de' cittadini, scacciare il tiranno. Confessava ciò essere oltre la sua speranza avvenuto, perch'egli credeva, che non lui solo ma la patria ancora sarebbe dovuta esporsi per la comun salute a pericoloso cimento. Ma poichè per singolar dono di Dio ciò non fu, riprendessero, con propizio aiuto del medesimo Iddio, le abolite leggi (chè d' ogni legge teneva poc'anzi vece il capriccio del tiranno), e la pristina libertà riabbracciassero, e alla custodia di lei con tanto più attendessero di vigilanza, quanto più acerbo avevano provato della perdita il danno. Poi noto che, dopo Dio, molto dovevano al popolo perugino, dalle cui forze principalmente aiutati, potettero ricuperare la patria e la libertà; ed esortandoli mandassero ambasciatori a Perugia a render pubbliche grazie, sciolse la radunanza. Indi tornato a casa e dato luogo alle congratulazioni e agli abbracciamenti de'suoi; acciocchè grave non fosse alla città travagliata ed esausta il ritorno della militar moltitudine, condusse fuori l'esercito; e giunto sul Perugino, lo congedo. Egli con gli ambasciatori che lo avevano seguito dal Borgo, andatone a Perugia, si presento alla signoria: e ringraziata con larghe parole, quale al merito si convenivano, la città, disse che perpetua rimarrebbe di tale benefizio fra'suoi la memoria. Cortesemente risposero i Perugini recando tutta la lode del prospero successo alla prudenza e al valore di Carlo: ed egli ritornò tosto alla patria con tanto onore salvata. I nostri in consiglio di popolo, per comune sentenza e decreto, non solo altissime grazie resero a Carlo, ma quanto d'autorità si poteva, salva la repubblica, attribuire ad un solo, gli attribuirono; e lo crearono podestà, il quale onore a nessuno de' cittadini era stato per innanzi reso; poichè, giusta pure l'uso delle altre città, quell' uffizio soleva agli stranieri affidarsi, non a'cittadini, uffizio in cui risiedeva il supremo potere di vita e di morte sugli abitanti tutti. Carlo con tanta lode di moderazione e di giustizia lo sostenne, che fessuno de' cittadini ebbe a dolersene mai. Soli i Bolognani parve se ne adontassero, i quali sebbene a Carlo congiunti d'affinità, ma spesso avvezzi a comandare nella città per le forze della fazion ghibellina, mal sostenevano che tanto potere fosse conceduto ad un cittadino, al capo di parte avversa. Aggiunsesi nel decreto, che la porta da cui Carlo entrò, prima detta del Castello, quindi innanzi Libera fosse chiamata. Poch'anni fa, quando il vescovo rifabbricava il maggior tempio nostro, e in altr' ordine disponeva gli altari, fu trovato il sepolcro di Carlo, cinto da strisce di marmo lunense: sulle quali strisce vergate d'oro, sì fresco a vedere che parea maraviglia, erano scolpite spoglie guerriere. Nel sepolcro non apparve vestigio di corpo umano, ed è credibile che il dente de' secoli l'abbia consunto. Erano scritte sulla pietra queste poche e rozze parole: Carolus domini Buoni de Gratianis hic jacet. È presso noi anco il ritratto di Carlo, dipinto al vivo, e, per opinione di tutti, somigliantissimo al vero. Bionda si vede e lunga la chioma, e bene composta, rasa (come portava il costume di quel tempo) la barba, virili fattezze, da cui traspare il gran vigore dell' animo: purpurea la veste, purpureo il berretto, o foss' uso comune o fosse insegna della pretoria dignità. A questo Carlo, o fratello, deve la nostra famiglia moltissimo, ch'ebbe dal suo valore e dai suoi meriti grande incremento e di splendore e di fama. Sali egli a'militari onori ben alto, e (che vince ogni lustro) di tanto amore arse della patria, che il titolo bellissimo n'ebbe di Salvatore. E quale havvi dignità più prestante di questa: bene meritar della patria? O qual merito può pareggiarsi al merito di colui che i proprii concittadini da flera servitù sottratti a libertà riconduce? Ma alla gloria del nome troppo fa il luogo ed il tempo in cui l'uomo nasce: e non è assurdo ciò che narrasi detto d'un Greco non so quale, che non tanto per industria propria quanto per la chiarezza della patria in cui sorse, acquistó rinomanza. Ed in vero, di quanti chiarissimi fatti la memoria peri, perchè a' luoghi, in cui seguirono, manco luce, onde dagli scrittori furono o ignorati o negletti? Quanto grande non sarebb'egli Carlo, quanto diffuso il suo nome, ch'ora appena si sente, e tra noi, che di lui nacquimo, vive, se tanto illustre benefizio avesse egli reso o a Roma o ad Atene, o ad altra città della Grecia antica. dove per la gran copia degli scrittori, non solo non era alcuno egregio fatto lasciato oscuro; ma e i mediocri e i dappoco venivano con parole magnificati. E io desidero vivamente, o fratello, che di quest'uomo, di questo fatto bellissimo, perpetua nella famiglia e nella città nostra si stenda e fiorisca la memoria; e sieno eccitati i posteri nostri ad ambirne la lode, ad imitarne l'esempio. |