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PER LA SUA

(SL) PARTE. Inf., XXIX, t. 6: Purte sen gia, ed io retro gli andava, Lo duca. DEGNI. Semint.: Degnare dell'onore de' tempii. Buc., IV: Nec Deus hunc mensa, Dea nec dignata cubili est.

8. (L) I SEGNI : † P. - PROFILA: delinea.

(SL) REGNI. Ad Timoth., II, II, 12: Conregnabimus.

9. (L) LEI: colei (Lachesi). AVEA TRATTE: avea, tirando, finito di filare il pennecchio che Cloto, altra parca, impone alla rocca e perchè stia, lo stringe ed aggira, che è il compilare.

(SL) LEI. Comune in Toscana per ella. - СомPILA. Qui usato propriamente del mettere insieme il filo, che sono peli. Il latino compilare nel senso di levare i peli, dev'essere un significato di seconda mano; e l'uso italiano è forse più antico dell'aurco latino.

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14. Quei cominciò:

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Cosa non è che sanza
Ordine senta la religïone

Della montagna, o che sia fuor d'usanza. 15. Libero è qui da ogni alterazione:

Di quel che 'l cielo in sè da sè riceve, Esserci puote, e non d'altro, cagione. 16. Perchè non pioggia, non grando, non neve, Non rugiada, non brina, più su cade, Che la scaletta de' tre gradi breve. 17. Nuvole spesse non paion ne rade,

Nè corruscar, nè figlia di Taumante, Chè di là cangia sovente contrade. 18. Secco vapor non surge più avante, Ch' al sommo de' tre gradi ch'io parlai, Dov' ha 'l Vicario di Pietro le piante.

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(SL) LIBERO. Purg., XXVIII. - Lucan., II: Nubes excedit Olympus. · SE. Cagione del tremare son l'anime che il cielo riceve in sè, venenti da sè di lor libero moto. Ovvero, come l'Ottimo: La cagione di ciò che paia lassù esser moto non è... da strano in strano, ma da sẻ in sè; perocchè il cielo la cosa sua e non strana in sè riceve; l'anima dal cielo discende, mandata o creata da Dio; e il cielo in sè la riceve, ritornante a lui che la creò... Il modo è oscuro e somiglia a quel del XXXII del Purgatorio: E quel di lei a lei lasciò legato. Che un passo dia luogo a troppe interpretazioni letterali non è lode.

(F) ALTERAZIONE. Arist. Phys., VII: Alterazione è un immulare della materia. - Alterazione è il moto della quantità. - Diciamo allerato quel che si fa più caldo, più denso, più secco, più bianco. - È alterazione il generarsi l'aria dall'acqua.

-

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16. (L) GRANDO: grandine. LA SCALETTA DE' TRE GRADI BREVE : quella che sta alla porta del Purgatorio. (SL) NON. Aug., de Civ. Dei, XIV, 26: Nel paradiso terrestre non calore nè gelo. · NEVE. Omero, Odiss.: Non neve nè inverno forte, nè mai pioggia, ma sempre d'un zeffiro dolce spirante, l'aure dall' Oceano inviate. CADE. Georg., I: Salit grando. — SCALETTA. Purg, IX, t. 26.

(F) PIOGGIA. Dal ciel della luna al centro della terra son quattro regioni, al dire di Pietro. Calda, fredda, fredda e calda, il sen della terra. La pioggia scende dalla regione calda e fredda, la grandine dalla fredda. 17. (L) PAION: appaiono. CORRUSCAR: lampo. FIGLIA DI TAUMANTE: arco baleno. DI LA CANGIA SOVENTE CONTRADE: nel mondo si vede or di qua or di là, sempre opposto al sole.

(SL) FIGLIA. Ovid. Met., IV: Thaumantias Iris. (F) RADE. La nube rada è vapore acqueo, dice Pietro. Qui l'Ottimo cita Aristotele e Beda. 18. (1) 'L VICario di Pietro: l'Angelo.

Pietro.

(SL) PIETRO. Inf., I, t. ult.: La porta di san

(F) Secco. Aristotele (de Metaphys., II) distingue l'umido vapore dal secco: dall' umido la pioggia, la neve, la grandine, la rugiada, la brina; dal secco, il vento vento se il vapore è sottile; se più forte, tremuoto.

19. Trema forse più giù poco od assai:

Ma per vento che 'n terra si nasconda, Non so come, quassù non tremò mai. 20. Tremaci quando alcuna anima monda

Si sente, sì che surga, e che si muova Per salir su; e tal grido seconda. 21. Della mondizia il sol voler fa prova,

Che, tutto libera, a mutar convento L'alma sorprende; e di voler le giova. 22. Prima vuol, ben: ma non lascia 'l talento Che divina giustizia, contra voglia, Come fu al peccar, pone al tormento. 23. Ed io che son giaciuto a questa doglia Cinquecent'anni e più; pur mo sentii Libera volontà di miglior soglia. 24. Però sentisti 'l tremoto, e li pii

Spiriti per lo monte render lode A quel Signor, che tosto su gl'invii. 25. Così gli disse. E perocchè si gode

Tanto del ber quant'è grande la sete, Non saprei dir quant'ei mi fece prode. 26. E' savio duca : Omai veggio la rete Che qui v'impiglia, e come si scalappia: Perchè ci trema, e di che congaudete.

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di mangiare.

23. (L) Mo: ora.

- Di Miglior SOGLIA: del cielo. (SL) Più. Dal 96 circa che Stazio mori (Fabr., Bibl. Lat.) al 1300 scorsero milleducent'anni. Stette tra i prodighi cinquecento, tra gli accidiosi quattrocento e più il resto ne' cerchi di sotto (Purg., XXII, t. 31). — SOGLIA. BUC., V: Limen Olympi,

24. (SL) Put. Æn., VI: Secretosque pios. INVII. Nel Gloria è il motto: Qui tollis peccata mundi, miscrere nobis.

25. (L) PRODE: pro.

(SL) BER. Prov., XXV, 25: Com'acqua fresca a chi ha sele, cosi buona novella da lontano paese. SETE. Som. Sitim vel desiderium. PRODE. Vite ss. Padri. Conv., I, 6: Colali uomini sono quali bestie, alli quali la ragione fa poco prode.

(F) GODE. Som. Quant' uomo ha più sele, e più diletto ha del bere. Georg., IV: Potis gauderent intyba rivis.

26. (L) IMPIGLIA legati. SI SCALAPPIA quando siete mondi. - Ct: qui. CONGAUDETE a chi sale. (SL) DI CHE. Georg., II: Unde tremor terris. CONGAUDETE. Voce biblica.

27. Ora chi fosti piacciati ch'io sappia:

E perché tanti secoli giaciuto

Qui se', nelle parole tue mi cappia. — 28. Nel tempo che 'l buon Tito, con l'aiuto Del sommo Rege, vendicò le fora Ond' uscì 'I sangue per Giuda venduto; 29. Col nome che più dura e più onora Er' io di là rispose quello Spirto) Famoso assai, ma non con fede ancora. 30. Tanto fu dolce mio vocale spirto,

Che, Tolosano, a se mi trasse Roma, Dove mertai le tempie ornar di mirto. 31. Stazio la gente ancor di là mi noma. Cantai di Tebe, e poi del grande Achille; Ma caddi 'n via con la seconda soma.

27. (L) NELLE PAROLE TUE MI CAPPIA: sia contenuto nel tuo dire, perchè...

(SL) CAPPIA. Bocc., I, 1: Ti cappia nell'animo. Altrove Nel mio giudicio cape.

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28. (L) SOMMO REGE: Dio. -FORA: ferite. - SANGUE di Gesù Cristo. PER: da.

(SL) BUON. Il buon Tito sta tra il buono Augusto e il buon Barbarossa (Inf., I; Purg., XVIII). — TITO. Ott. Nel cui tempo fu tanto riposo, che sangue di neuno uomo si sparse. Questi insino da piccolo fu di chiaro ingegno di cavalleria e studioso in lettere; umile fu, liberale ed onorifico, dispregiatore di pecunia; nullo di fu che non donasse... ; fu pietoso e misericordioso perdonatore a quelli ch’avevano giurato d'ucciderlo. - SoxMo. En., II: Superi Regnator Olympi. - FORA, Som.: Perforatio, omicidio di trafittura. 29. (L) NOME di poeta. Stazio.

DI LA: vivo.

SPIRTO:

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(SL) SPIRTO. Prop., III, 45: Qualis Pindarieo spiritus ore tonat. Hor. Carm., II, 16: Spiritum Grajœ tenuem Camœnæ. TOLOSANO. Era di Napoli (Stat., Silv., III, 5). Ma Placido Lattanzio commentatore di Stazio lo fa tolosano: Insegnò rettorica in Gallia con molta celebrità: ma poscia, venuto a Roma, si diede a poesia. Confuse Stazio Papinio con un altro. Sbaglio fin dai tempi dello Scaligero quasi comune. Bocc., Am. Vis., V Stazio di Tolosa. Nè le Selve di Stazio al tempo di Dante erano forse note. TEMPIE. Æn., VII: Tempora ramo Implicat. MIRTO. Non come poeta amoroso, ma come men nobile. Buc., II: Et vos, o lauri, carpam, et te proxima myrte. Nel Convito lo chiama dolce poeta. Stat., Silv., III: Nunc ab intonsa capienda myrto Serta. [Buc., II; Petr., nel sonetto: La gola e'l sonno...]

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(SL) SEME. En., VI: Semina flammæ. SCALDAR. Stat. Pierius menti calor incidit. Ovid. Fast., VI: Est Deus in nobis ; agitante calescimus illo. DIVINA. Stat., XII: Divinam Æneida. — MILLE. Inf., I, t. 28: Degli altri poeti... lume.

33. (L) SENZ'ESSA NON FERMAI PESO DI DRAMMA : misurai ogni mio concetto a' suoi.

(SL) ENEIDA. Anco nel Convito (I, 5). MAMMA. La voce famigliare dice affetto e venerazione, e denota come Virgilio paresse a Dante non solo nutritore ma generatore di nuova bellezza. PESO. Sap., XI, 21: Omnia... in pondere. - DRAMMA. Stat., XII: Vive præcor, nec tu divinam Eneida tenta, Sed longe sequere, et vestigia semper adora.

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34. (L) DI LÀ: al mondo. ASSENTIRE UN SOLE... AL MIO USCIR DI BANDO: piglierei di stare un anno più in Purgatorio.

(SL) SOLE. Inf., VI, t. 23.

35. (L) LA Virtù che vuole la volontà,

(SL) DICEA. Ovid. Amor., I, 4: Nutusque meos, vultumque loquacem. - Verba superciliis sine voce loquentia dicam. [TACI. Con un solo verso esprime una fina operazione dell'anima; dove uno de' nostri verseggiatori n' avrebbe impiegato dieci, seppure gli avesse la Provvidenza ispirata l'idea.]

(F) VUOLE. Petr. E chi discerne è vinto da chi vuole. Qui tempera il detto più sopra della libertà umana; non contraddice però,

36. (L) DA CHE CIASCUN SI SPICCA: che li produce. MEN SEGUON VOLER NE' PIÙ VERACI i più sinceri non sanno dissimulare.

(SL) SEGUACI. Petr., Trionfo d'Am.: Come in un punto si dilegua, E poi si sparge per le guance il sangue, Se paura o vergogna avvien che'l segua. VERACI. Osservazione retta e lode all'anima del Poeta.

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(F) PASSION. Som.: Passione ogni impressione. Ogni moto dell'appetito sensitivo è passione. - Passioni dell'animo come gioia, amore o simili.

37. Io pur sorrisi come l'uom ch'ammicca;

Perchè l'Ombra si tacque, e riguardommi Negli occhi, ove 'I sembiante più si ficca. 38. E: Se tanto lavoro in bene assommi, Disse, perché la faccia tua testeso Un lampeggiar d'un riso dimostrommi? 39. Or son io d'una parte e d'altra preso: L'una mi fa tacer, l'altra scongiura Ch'i' dica: ond'io sospiro; e sono inteso. 40. Di', 'l mio maestro, e non aver paura, Mi disse, di parlar; ma parla, e digli Quel ch'e' dimanda con cotanta cura. 41. Ond'io: Forse che tu ti maravigli, Antico spirto, del rider ch'io fei: Ma più d'ammirazion vo' che ti pigli, 42. Questi che guida in alto gli occhi miei, È quel Virgilio dal qual tu togliesti Forte a cantar degli uomini e de' Dei. 43. Se cagione altra al mio rider credesti, Lasciala per non vera, ed esser credi Quelle parole che di lui dicesti.

44. Giá si chinava ad abbracciar li piedi

Al mio dottor: ma ei gli disse: - Frate, Non far: chè tu se' Ombra, e Ombra vedi.

'L SEMBIANTE PIÙ SI FICCA:

37. (L) PERCHÈ onde. più l'anima nascosta si legge. (SL) AMMICCA. Ammiccare non è sorridere; ma sorridendo per cenno si può ammiccare con gli occhi.

(F) FICCA. Conv., III, 8: L'anima dimostrasi negli occhi tanto manifesta che conoscer si può la sua presente passione, chi bene la mira. Plin. In oculis animus inhabitat. Som. Quelle membra nelle quali più espressa si vede l'orma del cuore, come negli occhi e nella faccia e nella lingua. Segneri: L'occhio, visibile ritratto dell'animo non visibile. Sembianti le somiglianze degli atti esterni con l'affetto dell' animo. Ficcarsi non è ben chiaro par dica si nasconde e cercasi trarnelo fuori con l'occhio quando gli altri segni della persona non dicano l'animo.

38. (L) SE così tu.

or ora.

AssoyMI: finisca. TESTESO:

(SL) LAMPEGGIAR. Petr.: Il lampeggiar dell' angelico riso. Tasso: Mostrò Ciprigna lampeggiando un riso. Ma lampeggiare con angelo non istà; e nel secondo l'imitazione è troppo letterale; dacchè Dante qui aveva ragione di dire dimostrommi il lampeggiar d'un riso come di cosa fuggevolissima e l'un rende chiaro il concetto. Ma mostrare un riso, da sè, non par modo compiuto. Se non che qui la rima in ommi stuona un po'. 39. (L) L'UNA: Virgilio. INTESO da Virgilio. 40. (SL) DIGLI. Ripete parla e di' per vincere il ritegno di Dante messogli dal divieto tacito del maestro. 42. (L) FORTE A CANTAR: a cantar alto. (SL) OCCHI. Modo biblico.

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Il monte trema da cima a fondo; e da tutto il monte si leva un grido di gloria a Dio negli altissimi, perchè un'anima già purgata è fatta degna di salire alle stelle. Innanzi che l'espiazione sia compiuta, l'anima vuol, ben: ma non lascia l talento Che divina giustizia, contra voglia, Come fu al peccar, pone al tormento (1). Vorrebbe salire ma contro sua voglia è da Dio condannata a volere la pena. Il desiderio dell'espiazione combatte col desiderio del gaudio, come in vita peccando il desiderio del male combatte con l'amore del bene. E siccome il male vinse di là, di qua vince il dolore (2). Nell'eliso di Virgilio le anime stanno lunghissimo corso d'anni a purgare le colpe della prima vita: Exinde per amplum Mittimur Elysium, et pauci læta arva tenemus; Donec longa dies, perfecto temporis orbe, Concretam exemit labem, purumque reliquit Æthereum sensum, atque auraï simplicis ignem. Has omnes, ubi mille rolam volvêre per annos, Lethæum ad fluvium deus evocat agmine magno: Scilicet immemores supera ut convexa revisant, Rursus et incipiant in corpora velle reverti (3). A quest'ultimo verso consuona il concetto di Dante, ma più pienamente con le idee cristiane, che dimostrano la volontà de' giusti essere conforme alla giustizia divina ed umana anco nelle cose che spiacciono ad essi; e la volontà esercitarsi, in certo modo, contro sè stessa e sopra sè stessa, ch'è la più nobile prova dell'umana libertà. La pena del Purgatorio è volontaria, intanto che la soffrono sentendola necessaria a salute (4). — Nè si può senza la grazia muovere a giustizia dinanzi a Dio per sua libera volontà (5). Libertà è potere che ha l'uomo di muovere la sua volontà verso o contro

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(1) Terz.. 22. ·(2) Purg., XXIII, t. 25: Chè quella voglia all' albero ci̟mena, Che menò Cristo licto a dire Eli. - (3) En., VI. (4) Som. Sup. (5) Concil.

Trid.

la legge; volontà è la facoltà d'appetire il bene conosciuto (1).

L'anima che sorge e si fa a' due Poeti compagna, è l'anima d'un poeta, di Stazio; al quale egli non diede luogo tra' cinque, al suo parere, più grandi, Omero, Virgilio, Orazio, Ovidio, Lucano, per destinargli qui luogo più distinto, e ragionarne con maggiore abbondanza, e battezzarlo quasi nella poesia religiosa di Virgilio, e dipingere loro e sè in quell' atto di famigliarità riverente e di ammirazione lieta, e di dignitosa docilità, che si ben si conviene agl'ingegni grandi. Il punto quando Stazio, senza sapere di Virgilio presente, lo loda con tanta effusione e parsimonia insieme, e Virgilio, per un moto di modestia, impone a Dante di non lo svelare; ma poi, quasi commosso dal contrasto che segue nel suo discepolo tra due nobili sentimenti, e per riconoscenza all'affetto di Stazio, e per amore di verità in ogni cosa, permette a Dante di dire il suo nome; quel punto è di drammatica e di morale bellezza. De' ragionamenti di Virgilio e di Stazio Dante dice, Ch'a poetar gli davano intelletto (2); perchè nelle imitazioni che fece Stazio di Virgilio, non servili, ma che talvolta ridicono non servilmente le parole medesime, come Dante fa, egli apprendeva ad appropriarsi l'altrui parola ed il concetto, e col proprio concetto ampliarlo. Quando si pensa che più di sedici secoli dopo la Tebaide di Stazio, un grande ingegno, l'Alfieri, viene a mettere in dialogo per lo spazio di dieci atti que' casi; e quasi sempre si dimostra e meno conoscente della natura umana e più pagano di Stazio, s'intenderà come Dante potesse pregiare tanto quel retore fecondissimo, e si scuserà ch'e' volesse farlo di sua autorità cristiano. A vedere come gli antichi sieno il più so

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vente seguiti o giudicati da uomini che sono pur degni di sentirli e emularli, il cuore e la mente s'empiono di pietà e di sgomento. Il buon Forcellini, che dimostra nel suo grande lavoro tanto senno, ripete il detto di non so chi intorno a Stazio: Nelle Selve erudito, sublime nella Tebaide, nell'Achilleide blando. Le Selve non paiono note a Dante; ma si la Tebaide e l'Achilleide; e' lo cita altresi nelle prose. Donde sapesse della sua prodigalità, non saprei; se forse non accenna a que' versi in cui Giovenale, rammentando gli applausi che accompagnavano la lettura della Tebaide, soggiunge della povertà del poeta a cui la sua fama non dava pane; Intactam Paridi nisi vendat Agaven. Forse che Dante abbia inteso che codesto vendere il dramma fosse non tanto per necessità di vivere, quanto per ismania di spendere (1); e forse che sapendolo povero, e non lo volendo fare avaro, alla men disperata lo fece prodigo, tanto per il piacere d'abbattersi in Purgatorio seco, e vederlo in atto d'inginocchiarsi dinanzi al comune maestro. Se non che quando si rammenta che tutte le invenzioni e gli accenni di Dante, anco i più strani, hanno fondamento in una qualche autorità che o sia la tradizione o ne porti sembianza, vien voglia di confessare piuttosto la ignoranza propria che accagionare di leggerezza il Poeta.

E così l'essere Stazio vissuto cristiano in segreto non ha conferma dalle sue Selve, ove dice con pietà d'onest'uomo: Qui bona fide deos colil, amat et sacerdotes (2): nè pare che la persecuzione di Domiziano fosse da lui pianta per compassione de' Cristiani. Nelle Selve egli loda (3) il domino Cesare (4), e si tiene sacratissimis ejus epulis honoratus (5): e di lui dice altrove (6): Qui reddil Capitolio Tonantem.... En hic est deus, hunc jubet bealis Pro se Jupiter imperare terris... Salve dux hominum et parens deorum Prævisum mihi, cognitumque numen. Ma forse qui Stazio è fatto salvo perchè nella Tebaide leggesi

(1) Nel IV delle Selve è detestata l'avidità degli eredi, che in Orazio è argomento a godere il presente senza sollecitudini avare. (2) Silv. Præf., V. Belle parole quell' altre: Uxorem vivam amare, voluptas est; defunctam, religio. Stazio a Massimo Giunio intitola con una lettera la Tebaide: Dignitatis et eloquentiæ nomine a nobis diligi. E dice d'avere per ammonimento di lui tormentato con lunga lima il suo poema, del quale ragiona qui con parole men umili che nella fine di quello, e poco meno che non si pareggi a Virgilio : Quippe, te fido monitore, nostra Thebais multa cruciala lima Tentat audaci fide Mantuano Gaudia famæ. Lo attendeva di Dalmazia con desiderio. Silv., Quando te dulci Latio remittent Dalmatæ montes ? ubi Dite viso Pallidus fossor redit eruloque Concolor auro? (3) Silv., II, 1. — (4) Silv. Præf., IV. · (5) Silv., 1. c. - (6) Silv., IV, 3.

IV:

ritratta con orrore l'empietà di Capaneo (1); forse, sapendosi che parecchi de' pagani conoscevano i libri della legge mosaica e della cristiana, e di li potevano avere il vero, Dante avra imaginato questo di Stazio e per amore di lui, e per collocare in Paradiso, insieme con un imperatore e con un guerriero pagani (2), un poeta; e per fare onore di questa conversione al suo poèta diletto, a Virgilio, il quale, appunto pe' versi qui recati era, ne'drammi sacri del medio evo, introdotto a vaticinare il Messia insieme co' profeti e con la sibilla. E veramente nella parola di tutti gl'ingegni più eletti è, più o meno chiaro, dell'ispirato, e che però giova all'indovinamento siccome dell' avvenire, cosi del passato e del prosente, che sono a indovinare sovente non meno difficile, chi bene guardi. Stazio dunque reca a Virgilio l'onore e della sua corona poetica e della sua salvazione dal vizio della prodigalità e della sua salvazione dal paganesimo. A trarlo dalla turba de' prodighi valse l'esclamazione che è in Virgilio contro gli avari: Quid non mortalia pectora cogis, Auri sacra fames! (3) Che è tradotto da Dante Per che non reggi tu, o sacra fame Dell'oro, l'appetito de' mortali? (4) A trarlo dall'errore pagano valsero i versi che Virgilio disse di Pollione, ma vuolsi che a Pollione egli applicasse la profezia che guardava al Redentore aspettato (5). Questi versi applica Dante nella lettera ad Arrigo alla ristorazione dell'imperio. L'imperio era a lui redenzione nuova. E rivolge ad Arrigo le parole che Giovanni a Cristo: Sei tu 'l promesso?

(4) Inf., XIV e XXV. Teb. X, 927. (2) Purg., X; Par., XX.. ·(5) En., III. —- (4) Purg., XXII. Traduzione liberissima, e però più fedele. Il cogis che, alla lettera, potrebbe significare violenza e negare la libertà dell'arbitrio, qui volgesi in reggi, che ha forse l'origine stessa da ago. Il per dipinge più vivamente del quid l'impeto della passione che per varii eccessi travolge l'animo, e cosi compensa quello che potesse mancare del cogis; e rammenta gli altri modi virgiliani: Triste per augurium Teucrorum pectora ducunt ( Æn., V). Vivo equidem, vitamque extrema per omnia duco (Æn., III). Pectora è reso qui da appetito; e in Aristotele appetito è propriamente la concupiscenza e nella Somma, più volte, l'appetito delle ricchezze; e nella Vita Nuova: L'anima, cioè la ragione, è contraposta al cuore, cioè all'appetito. Anco gli altri dell' Egloga IV sono liberamente tradotti, e se ne dà non il compendio ma lo spirito. Secol si rinnova, dice Magnus ab integro seclorum nascitur ordo; ma non lo dice con altrettanta ampiezza d' imagine e pienezza di suono. Primo tempo umano è meglio che saturnia regna; sì perchè ci si tace del regno favoloso, si perchè tempo umano denota che quello era lo stato vero dell' umana natura. Nel terzo verso l'armonia latina è più compiuta, e l'alto alla fine richiama i pensieri al luogo da cui la salvezza discende; e demittitur, lasciando imaginare la forza della virtù che scende e quella della virtù che invia, è più profetico e più cristiano. —(5) Nat. Alex., Hist. eccl., sæc. I, dis. 1; Demaistre, Soirées; e così Girolamo, Epist. L.

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