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che scendea nell' Inferno de' Cristiani; e, per provarlo bene, fa una filza lunga lunga di passi mitologici, i quali ci dicono che Mercurio aveva il caduceo; e che colui il quale trova altri without any erudition

ne ha una ben copiosa ne' dizionarj cognitissimi da cui va pescando. Mi dà poi un grido all' orecchio, perchè ho fatto quella stessa sciocchezza che fecero molti altri, inclusi gli Accademici della Crusca, nel preferire una lezione piuttosto che un'altra, e dirò quale.

In un gran numero di codici ed edizioni, si legge che il messo del cielo veniva come un vento, il quale fiede la selva, fa fuggir le fiere, e" I rami schianta, abbatte e porta i fiori;" e qualche codice ed edizione legge in vece, porta fuori. Egli vuole che questa e non quella sia la vera lezione; e perche? perchè gli parve naturalissimo che il vento porti fuori della selva i rami schiantati, senza che nel passaggio da macchie e tronchi sien rattenuti, e senza che per proprio peso ricadano; e affatto inverisimile che il vento stesso, schiantando i rami fioriti, ne porti via i fiori, e li dissipi co' fiati suoi.

Il censore senza malizia che non trovò nulla, ma proprio nulla di buono nel mio Comento Analitico, sotto qualunque lato e rispetto, lo approvò in un sol punto; e perchè? per denigrarlo. Volendo far credere altrui che quelle forti ragioni da me addotte, per provare che le tre fiere della selva figurino Firenze, Francia e Roma, non sien già mie, scrive così: "Dionisi ed ultimamente il Marchetti hanno provato ciò al di là d'ogni dubbio, e Rossetti ha fatto bene ad adottare la loro interpretazione." Un dottissimo Italiano vivente gli rispose per profezia: "Il est vrai que Dionisi et quelques autres commentateurs avoient expliqué de la sorte ces trois allegories; mais M. Rossetti y ajoute tant de remarques, qu'on ne sauroit lui refuser le mérite d'avoir donné à son interprétation le plus haut dégré de probabilité."-Revue Encyclop. de Paris: F. SALFI".

Un solo vero difetto ei rileva nel mio Comento, e glie lo aveva additato io stesso; di che ragionerò nel parlare di Guido Cavalcanti; dove metterò in veduta che cosa mi trasse in abbaglio, per farmi commettere un anacronismo di due anni, e un dire e disdire. In un terreno sì disastroso e senza orme, qual è quello ch'io calco, è maraviglia che abbia posto un piede in fallo? E non aveva io dichiarato fin dal primo volume: "Degli abbagli che ho forse presi, ove sia chi voglia farmene per cortesia avvertito, mi correggerò, e mi farò vanto di confessar l'errore, e di manifestare al mondo il nome del dotto correttore; nè grave mi fia il dire, Ho sbagliato; poichè chi sa dirlo, con sentito amor del vero, dice in sostanza, In questo momento son miglior di prima, perchè ho un error di meno." In due grandi volumi, foltissimi e calcati di dottrine antiche e riflessioni varie, e scrutinj e citazioni e date e fatti e documenti, storici, diplomatici, poetici, ecc. poteva io darmi a credere di dir sempre bene? Egli nega che Roma abbia reso omaggio ad Arrigo, dove fu coronato fra vive acclamazioni, dove avea fortezza e senatore, un eser

a Questo articolo comparve più d'un anno prima di quello del Censore.

a

cito, una corte, un seguito, un partito, e libero campo nella massima parte dellac ittà, sino a Castel Sant' Angelo .-Ei dice che la Università di Bologna era Guelfa, quella cioè dove si sostenea che l' Imperadore era un Dio in terra. Egli asserisce che quella città per 70 anni, giusto al tempo di Dante, non diè mai ricetto ai Bianchi di Firenze, ed è quella che nell'esilio di Dante reggevasi a parte Bianca, e fece una spedizione contro i Fiorentini Neri, per rimettere nella città i Bianchi espulsi". Egli assicura che Virgilio è tipo della Filosofia in generale, e non quello ch'io sogno, e che Dante lo tenea per gran filosofo come Aristotele e Platone. Ma nulla di tutto ciò diremo, e di altro meno significante, e conchiuderemo con le sue parole: "Here we stop; not that we have said all we might have said, but because it would be too tedious a task to point out all the errors into which the learned Censor c, without any malice, has fallen." Oh! mi dimenticava di mettere in vista l'ultimo spropositone madornale rilevato da lui nel mio Comento, e tale ch' ei non potè credere agli occhi suoi quando lo lesse. E sapete qual è? L'aver io scritto che il Papa è maschio e non femina; cioè che nel linguaggio figurato gli uomini eran dipinti quali donne, siccome nell' allegoria della Meretrice e della figura opposta a lungo vedemmo. Ei situò questa bombarda al termine del suo fuoco artificiale strepitosissimo; e, dopo averne riso esso, ha invitato a riderne tutti gli amici suoi, che forse ridono ancora. Chi vuol vedere questo modello di urbanità letteraria, di critica profonda, e di esemplar buona fede, lo troverà nel Foreign Quarterly Review di Londra, No. iii. art. 9.

Ho creduto mio obbligo di non dissimulare la lepida critica e la rabbiosa censura, fatte al mio Comento Analitico sulla Divina Commedia; perchè son le sole che espressero decisa disapprovazione al mio modo d'interpretare; e perchè altri vegga quai sono le armi da cui fu combattuto. Agli elogj, che furon molti, rispondo con sincera gratitudine; alle opposizioni, che furon parecchie, ho risposto col presente volume; ma alle condanne, alle beffe, alle sghignazzate gratuite, che vituperarono e schernirono, senza render ragione alcuna, che poss' io rispondere? Io chiudo ad esse l'orecchio sinistro, ed apro il destro a Dante che mi dice,

Vien dietro me, e lascia dir le genti;
Sta come torre ferma, che non crolla
Giammai la cima per soffiar di venti.

Vedi la Vita di Arrigo premessa al Vol. II. del mio Com. Analitico. b Vedi Gio. Villani, lib. viii. cap. 72, in cui tutto cio è a lungo narrato. E un anno dopo l'esilio del poeta scrive ancora: "Nel detto anno (1302) e mese di marzo, i Ghibellini e Bianchi usciti di Firenze, con la forza de Bolognesi che si reggevano a parte Bianca, e con l'ajuto de' Ghibellini di Romagna, vennero a Mugello con 800 cavalieri e 6000 pedoni."—(lib. viii. cap. 60.) E leggi ancora il cap. 83 di questo stesso libro (1305) in cui caporali di parte Bianca e Ghibellina usciti da Firenze (e Dante n'era uno) erano ancora in Bologna, da cui furono scacciati per opera de' Neri Fiorentini. Ei dice Commentator.

N.-Pag. 377.

La storia ci attesta che, fin dal primo entrare in Europa della scuola settaria, Roma ne sorprese le pratiche e 'l linguaggio; che alquanto dopo il Mille molti suoi proseliti furono scoperti in Italia e in Francia; ma che la persecuzione non servì che a renderli più cauti e ad accrescerne il numero. E gia vedemmo altrove che nel tempo di Federico II (1243) Ivone di Narbona ne svelò i segreti all' Arcivescovo di Bordò (vedi la nota C.). Considereremo qui alquanto più di quella lettera del Narbonese, ora che potremo meglio capirla, e valutarne le espressioni.

Si ha dagli storici che gli Albigesi eran chiamati Patarini o Tartarini. "On donnoit aux hérétiques Albigeois le nom de Patarins ou Tartarins:" dice Millot nella Storia de' Trovatori, e in quella di Francia lo ripete quasi con le stesse parole.

Scrive quell' Ivone che dopo esser egli lungamente vissuto fra i Patarini, di cui conobbe i segni e i segreti, passò fra i Tartari, di cui vide le opere inique ; e parla di essi in modo che a molti caratteri pajono veramente i Tartari; ma a molti altri si scorge che in que' Tartari ci vengono indicati i Tartarini. Egli non ignorava che quelli avevano orecchi ed occhi, braccia e pugnali, da per tutto; e un resto di prudenza, e l'arte appresa del gergo gli suggerirono forse quella sostituzione di vocabolo. Ei dice fra l'altre cose che i confessori e i consiglieri de' principi avrebber sempre dovuto declamare all' orecchio de' lor signori contro que' malefici Tartari, operatori di cento iniquità, aggiungendo, "Male faciunt si non clamant, pejus si simulant, pessime si succurrunt." E potremo mai credere che i confessori e i consiglieri de' Principi Europei volessero secondare e favorire i Tartari Asiatici, per far mettere a socquadro i regni, e mandar tutto a rovina? Il Narbonese sapeva per pruova che ecclesiastici e cortigiani erano fra i Tartarini, e che si adopravano al gran successo della Setta, e quindi scrisse si succurrunt. E segue a dire di que' Tartari, Hostes sævissimi relinquimus in patria. Questi dunque

erano Tartari nostrali, e non forestieri; e sentite che belle cose facevano: Ingannavano in Europa tutt'i re, in tempo di pace, servendosi a dritto e a traverso di mille finzioni di cui erano fecondissimi ; volevano riportare nella lor patria i gran regi, i cui sacri corpi ornavano la città di Colonia, cioè gl' Imperadori di Germania che aveano colà la loro residenza; intendevano punire l'avarizia e la superbia di Roma delle antiche oppressioni a lor fatte; e davano con menzogne ad intendere esser usciti dalla loro terra per andare in pellegrinaggio a San Jacopo di Galizia. O devotissimi Tartari! E da siffatte finzioni i principi illusi si erano a que' barbari con patti ed amistà collegati, concedendo ad essi libero corso negli stati loro. Or mira zelo di Tartari per gl' Imperatori di Germania, mira divozione per San Jacopo di Galizia! Ecco le parole d'Ivone: "Omnes populos et principes regionum, secundum causam et non causam, tem

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pore quietis decipiunt: Nunc se propter magnos reges, quorum sacris corporibus ornatur Colonia, in patriam suam reportandos; nunc propter avaritiam et superbiam Romanorum, qui eos antiquitus oppresserunt, puniendam ;-nunc propter peregrinationem ad Sanctum Jacobum in Galicia terminandam, egressos se patria mentiuntur. Pro quibus figmentis quidam eis reges simplices, inito fodere, liberum per terras suas transitum concesserunt." E questi Tartari, così abili a fingere, chiamavano Dei i loro Monarchi, e lor rendevano culto: Principia suorum tribuum Deos vocant, et certis colunt temporibus solemnitates eorum.' Questi principi erano naturalmente quei di Colonia, di cui facevano così gran caso. All'udire poi certi altri scrittori, questi Tartari facevano cose portentose: e fra le altre sparivano dagli occhi altrui tutte le volte che volevano, per mezzo di che s'involavano alla vista de' lor nemici e persecutori; e un lor signifero condottiere salvò con quest' arte tutto l'esercito Tartarino da pericolo. "M. Paulus Venetus narrat Tartaros adeo pollere spiritu et ingenio, et tam in exquirenda rerum natura sagaces, ut quoties volunt tenebras concitent; fuisse que ex his quemdam qui circumcinctus grassatoribus, hac arte, licet difficulter, effugit. Haitonus, vir eximiæ doctrinæ magnæque authoritatis, hac de re testimonium fert, Tartarorum exercitum, jam fere propulsum et graviter transverberatum, incantatione ejusmodi, per signiferum quemdam, qui tenebras valde decisas in hostium castris excitavit, restitutum esse a " Io quasi giurerei di conoscere chi sia questo signifero de' Tartari, che fece questo miracolo, d'involare sè e i suoi alla vista de' nemici persecutori. Di questi Tartari è scritta ancora cosa non meno strana. Rinchiusi da Alessandro Magno fra quelle montagne di Gog e Magog di cui parla l'Apocalisse, vi rimasero fino all'anno 1202, senza osar mai di uscirne ; ed ecco perchè. Alessandro avea fatto situare sopra que' monti certe trombe grandissime, che ad ogni vento mandavano squillo di guerra; e que' Tartari sì fini credettero di generazione in generazione, per decine di secoli, che Alessandro fosse sempre pronto dietro que' balzi a piombar loro addosso; ma essendo poi avvenuto che alcuni gufi si fecero i nidi nelle bocche di quelle trombe, talchè più non sonarono, i Tartari, fattosi coraggio a montare sulle alpestri cime di Gog e Magog, e veduto da presso con qual artificio erano stati rattenuti in vana paura per tanti secoli, ebbero in pregio i gufi servizievoli, e si sparsero vincitori per ampio paese. Essi si scelsero per capo uno di loro, il quale su un povero FELTRO fu levato, e fu chiamato CANE, che in lor linguaggio significa IMPERADORE. Questo Cane fu molto savio e valoroso, ed uscì fuori di quelle montagne con tutto quel popolo, e ordinollo a decine, a centinaja, a migliaja, con capitani acconci a combattere; e per mezzo di sì gran forze si assoggettò lo Presto Giovanni il quale vinto divenne suo tributario. Io non so se questo Imperator de' Tartari, chiamato Cane, e levato da

a Tractatus de Dignitate et Excellentia Hominis, pag. 280-opuscolo aggiunto al Theatrum Mundi minoris, tradotto dal francese in latino da F. Lorenzo Cupero. Antuerpiæ 1606.

un feltro abbia nulla che fare con quell' altro Cane o Veltro, la cui nazione, o nascita, esser dovea tra feltro e feltro; so però che tutta questa leggenda delle trombe sulle montagne di Gog e Magog, e del suono che mandavano ad ogni vento, e de' gufi che, chiudendone le bocche, liberarono i Tartari da quella vana paura, e del Presto Giovanni fatto suddito del Cane ecc., è tutto gergo, che a miglior tempo spiegheremo, e che già forse più d' uno capisce. Questo racconto è nella giornata ventesima del Pecorone di Giovanni Fiorentino, scritto (come ei dice) nel 1378, regnando Carlo IV, Imperador de' Romani. E' ingegnoso il gergo di questo libro: la prima metà è di novelle d'Amore, la seconda è quasi tutta di racconti concernenti le guerre de' Guelfi e de' Ghibellini, e delle dissenzioni degl' Imperadori e de' Papi. Nella due novelle che formano la Giornata Nona si narrano l'edificazione di Firenze fatta dai nobili Romani, e la distruzione di Firenze fatta dal barbaro Totila; e dei due racconti la congrua conchiusione è questa :

Adunque, amanti, che seguite Amore,
Che porta in sè la passion del core,
Sappiate onestamente mantenere,
Sicchè nessun giammai l'abbia a vedere.
Ballata mia, va agli amanti di pregio
Che sanno con prudenza Amor seguire,
E diventa, se puoi, del lor Collegio a,
Perchè son savj e ti staranno a udire:
Con lor t' allarga in ciò che tu vuoi dire,
Con gli altri non parlar punto nè poco.

Lo Presto Giovanni, tributario del Cane Imperator de' Tartari, ci può mostrare per qual mezzo si operava il miracolo di sparire. Nelle Cento Novelle del Parlar Gentile, scritte per coloro che hanno cuore nobile e intelligenza sottile, nel quale Parlar Gentile i fiori sono mischiati a molte altre parole (proemio dell' autore), è narrato quanto segue. Lo Presto Giovanni mandò per un' ambasceria all' Imperadore Federico II, che amò molto il dilicato parlare, tre pietre nobilissime, di cui Federico non seppe fare buon uso, tenendole inoperose. Il lapidario del Presto Giovanni disse un giorno a quell' Imperadore: "Messere, questa pietra (la prima) vale la miglior cittade che voi avete; questa (la seconda) vale la miglior provincia che voi avete ; poi prese la terza, e disse: Messere, questa vale più che tutto il vostro Impero; e strinse il pugno con le sopradette tre pietre. La vertude dell' una lo celò sìe che lo 'Mperadore nè la sua gente nol potero vedere." E così il lapidario sparì dagli occhi loro, e riportò al Presto Giovanni le tre pietre, poichè Federico II non seppe farne

a E' Cristo abbate del Collegio, dicono gli amanti nel Purgatorio a Dante; i quali dichiarano che il lor peccato e d' Uomo e Donna,

Nostro peccato fu Ermafrodito.

E udiremo da Swedenborg che gli Angeli del Paradiso, ov' egli spesso andava, erano maschi e femmine.

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