Per la impacciata via dietro al mio duca, 7 Ed ecco, sì come ne scrive Luca, Che Cristo apparve a' duo ch' erano in via, scilicet sciatur de causa quid est, non dicitur intellectus attingere ad causam simpliciter: quamvis per effectum cognoscere possit de causa an sit. Et ideo remanet naturaliter homini desiderium, cum cognoscit effectum, et scit eum habere causam, ut etiam sciat de causa quid est: et illud desiderium est admirationis, et causat inquisitionem, puta si aliquis cognoscens eclipsim solis considerat quod ex aliqua causa procedit, de qua, quia nescit quid sit, admiratur, et admirando inquirit; nec ista inquisitio quiescit, quousque perveniat ad cognoscendum essentiam causæ. Si igitur intellectus humanus cognoscens essentiam alicujus effectus creati non cognoscat de Deo nisi an est, nondum perfectio ejus attingit simpliciter ad causam primam, sed remanet ei adhuc naturale desiderium inquirendi causam; unde nondum est perfecte beatus. Ad perfectam igitur beatitudinem requiritur quod intellectus pertingat ad ipsam essentiam primæ causæ. Et sic perfectionem suam habebit per unionem ad Deum sicut ad objectum, in quo solo beatitudo hominis consistit. Thom. Aq. Sum. theol. P. I. 2ae. qu. III. art. 8. - PUNGEAMI: Al. pungémi; mi spronava. - LA FRETTA: dell' andare, dovendo seguir Virgilio che andava in fretta; cfr. Purg. XX, 149. 5. IMPACCIATA: ingombrata dalle molte anime che giacean per terra. 6. CONDOLEAMI: Al. condolémi. VENDETTA: quì, come nel canto antec. v. 95. la voce vendetta non ha il fiero senso moderno, ma vale Punizione, Pena. Senso: Io compassionava quelle anime per la pena, del resto giusta, che esse soffrivano. 7. NE: ci. LUCA: nel suo Vangelo, c. XXIV, 13-16: Et ecce duo ex illis ibant ipsa die in castellum, quod erat in spatio stadiorum sexaginta ab Jerusalem, nomine Emmaus. Et ipsi loquebantur ad invicem de his omnibus quæ acciderant. Et factum est, dum fabularentur, et secum quærerent: et ipse Jesus appropinquans ibat cum illis: oculi autem illorum tenebantur ne eum agnoscerent. 8. AI DUO: ai due discepoli che erano avviati verso il castello di Emmaus, il giorno stesso in cui Cristo risuscitò. Quì i commentatori ci danno un esempio della spensieratezza colla quale si copiano l'un l' altro. Lan., Petr. Dant., e Buti ci dicono che questi due erano gli apostoli Giacomo e Giovanni; Tom. ripete l' errore, e lo stesso fanno Frat., Andr., Cam., ecc. Anche Greg., quantunque taccia i nomi, c'insegna che erano due Apostoli. Eppure la più superficiale occhiata sul sacro testo avrebbe insegnato a questi commentatori che i due discepoli nè si chiamavano Giacomo e Giovanni nè erano del numero degli apostoli. Il nome dell' uno vi è taciuto, mentre nel v. 18 si dice che l' altro chiamavasi Cleopα (Κλεόπας). Poi nel v. 33 si legge: Et surgentes eadem hora regressi sunt in Jerusalem: et invenerunt congregatos undecim. Se i due discepoli trovarono raunati gli undici apostoli, essi due non erano dunque del numero di costoro, chè il giorno della risurrezione di apostoli non ce n' avea più di undici, per quanto sappiamo noi. Ma il copiare gli errori altrui era naturalmente più comodo che non il leggere il capo XXIV del Vangelo di San Luca. Leggendo poi i santi Padri si avrebbe trovato che sant' Ambrogio opina che il compagno di Cleopa, il cui nome il Vangelo tace, si chiamasse Almeone, mentre san Gregorio vuole che costui fosse l' evangelista Luca medesimo. Ma invece di studiare i dotti commentatori ripetono l'errore, e un Tommaseo lo ripete per quattro edizioni di seguito. - IN VIA: Nonne cor nostrum ardens erat in nobis, dum loqueretur in via. Luc. XXIV, 32. 9. GIÀ SURTO: risuscitato spiegano i più; all' incontro il Borghini (Studi, ed. Gigli, p. 246): Surto vuol sempre dire alzato su e rilevato; così Inf. XXVI, 43: Io stava sovra il ponte a veder surto. In modo che sempre importa il medesimo, e non importa quivi risuscitato, ma levato su, ecc. 10 Ci apparve un' ombra, e dietro a noi venia 10. UN' OMBRA: Stazio poeta, cfr. v. 91. Publio Papinio Stazio, figlio di un poeta dello stesso nome, fu poeta famoso ai suoi tempi, e visse sotto Domiziano (81-96 p. Ch.). Il padre di Stazio riportò più volte la corona ne' poetici combattimenti che ogni quinto anno celebravansi a Napoli (cfr. Stat. Silv. V, 3, 112 e seg. 134 e seg.) e fu maestro di poesia ed eloquenza (ibid. 90) prima a Napoli (ibid. 146-175) e poi a Roma (ibid. 176-194), ove morì dopo l'anno 80 dell' era cristiana (ibid. 206 e seg.) in età di 65 anni (ibid. 253 e seg.). Arrigo Dodwello (Annales Statiani, Oxon. 1698 §. 1), e dietro lui molti altri, vogliono che Stazio nascesse l'anno 61 dopo Cristo e morisse l'anno 96 in età di soli 35 anni. Ma tale opinione è priva di fondamento. Alla morte di suo padre Stazio aveva già riportato la vittoria nei poetici combattimenti a Napoli sua patria (Silv. III, 5, 78 e seg. V, 3, 225 e seg.) e preletto a Roma parte della sua Tebaide (Silv. V, 215 e seg. Juven. VII, 82 e seg.). Inoltre egli stesso dice di sè (Silv. V, 2, 158): nos fortior ætas iam fugit, ed altrove (ibid. IV, 4, 69): nos facta aliena canendo vergimur in senium. Egli era dunque nato alcuni anni prima del 61, forse come altri vuole l'anno 50 o in quel torno (Beck, Ad carm. paneg. ad Pison. pag. 13 e seg.), quantunque anche questa non sia che una congettura. Sposò una vedova romana di nome Claudia, dalla quale non ebbe progenie (Silv. III, 5. V, 5, 79 e seg.). Adulatore di Domiziano al superlativo ne ottenne il favore. Fu ammirato a Roma (cfr. Juven. VII, 87 e seg.) ove riportò più volte la corona nei combattimenti poetici (cfr. Silv. II, 2, 6. III, 5, 28. V, 3, 222 e seg.). Venutogli poi a mancare l' applauso e vistosi vinto ne' giuochi Romani (efr. Sito. III, 5, 21. V, 3, 231 e seg.) Stazio si ritirò a Napoli, ove cessò di vivere verso l'anno 96. Delle sue opere diremo più sotto, nella nt. al v. 92. Sulla vita, carattere ed opere di Stazio cfr. Fabric. Bibl. lat. ed Ernest. II, p. 329 e seg. Dodwell, 1. c. Tiraboschi, Stor. lett. Vol. II, p. 76 e seg. Bähr in Pauly's Encykl. d. class. Alterth. Vol. VI. P. I. pag. 1398 e seg. Bernhardy, Grundriss der Röm. Literatur. 3a. ediz. 1857. p. 462 e seg. Teuffel, Gesch. d. Röm. Literat. 2a, edize. 1872. §. 316 pag. 696 e seg. D'accordo con Dante G. C. Scaligeri (Poet. lib. VI) pone Stazio accanto a Virgilio, aggiungendo che gli sarebbe stato ancor più vicino, se non avesse voluto essergli vicino di troppo (etiam propinquior futurus, si tam prope esse noluisset). Ma oggigiorno si troverebbe appena alcuno che volesse assegnare a Stazio il posto eminente assegnatogli da Dante. Seine Vorzüge (dice il Bernhardy, 1. c. p. 462) sind Phantasie und geläufige, mehr nach Ovid als Virgil gebildete Diktion, die den Sprachschatz der Augustischen Zeit variirt; sein Ausdruck aber wenig einfach, sondern künstlich und wortreich, oft überladen, auch durch Schwulst und gesuchte Kürze mehrmals dunkel: man merkt den Improvisator, dem der poetische Hausrat zum Spiele dient. Daneben empfindet man den Mangel an Charakter und Tiefe, gelegentlich die gedrückte, selbst demüthige Haltung des Dichters seinem Kaiser und reichen Gönnern gegenüber; das Uebermass in üppiger Erzählung und malerischen Zügen läßt nur einen gewandten Versificator merken. Er war allerdings der letzte Römer der wirklich epische Stoffe behandelte, doch in Wahrheit weder Epiker noch Künstler, sondern ein lesbarer und ausmalender Erzähler. Non men severo è il giudizio del Teuffel (1. c. pag. 696): Hochgebildet und von dichterischer Begabung, fähig warmer Empfindung, überaus gewandt und geschliffen in der Form, stößt Statius dennoch mehr ab als daß er fesselte, wegen der Unwahrheit die in seinen Gedichten herrscht, weil er nicht blos wirkliche Gedanken und Gefühle ausspricht, sondern auch erheuchelte, gemachte und bestellte, und den Ausdruck derselben so häufig durch die rhetorische oder mythologische Phrase erdrückt oder ersetzt. Diverso fu però il giudizio dell' antichità e del medio evo. Stazio venne posto accanto a Virgilio; i suoi versi si citavano nelle scuole, le sue opere vi si leggevano. Il medio evo considerava Virgilio e Stazio come i principi della poesia epica (cfr. Ozanam, Purg. pag. 350. 351.). Anche recentemente vi fu chi chiamò Stazio il primo poeta del secolo d'argento e lo disse degno degli elogi di Dante e degli altri (cfr. Bocci, Diz. stor, della D. C., pag. 424). Ma chi giudica in tal modo o non ha letto Stazio oppure è privo di buon gusto. Dappiè guardando la turba che giace; 11. DAPPIÈ: ai suoi piedi, al suolo. degli avari giacenti per terra. LA TURBA: la gran moltitudine 12. NÈ CI ADDEMMO: e non ci accorgemmo di lei. SÌ PARLÒ PRIA: e così avvenne che l'ombra fu prima a parlare a noi, mentre se ci fossimo accorti di lei saremmo stati noi primi a parlare a lei. Così Dan., Vent., Biag., Wagn., Bl., ecc. Altri: Non ci accorgemmo di lei sinchè essa cominciò a parlare (Benv. Ramb., Vell., Lomb., Pogg., Costa, Ces., Tom., Br. B., Frat., Greg., Andr., Triss., Bennass., Camer., Franc., ecc.). E veramente sì per sinchè è modo famigliare a Dante, al Boccaccio e ad altri padri della lingua (cfr. Cinon. Partic. 229. 40. Blanc, ital. Gram. pag. 547). La prima interpretazione ci sembra però più naturale. - Fondandosi su questo verso il Bennass. vuole che si spieghi l' antecedente in modo diverso da tutti gli altri commentatori, i quali a suo dire «hanno rovesciato tutto». Infatti, egli dice, «come potea saper Dante e dire che un' ombra di cui i poeti non se n'erano ancora accorti, si guardava dietro ai poeti dappiè la turba che giace? Sarebbe questa un' aperta contradizione. I poeti non hanno ancor veduto quest' ombra, eppure hanno veduto ch' ella guardavasi a' piè i prostesi. Risum teneatis, amici!» Ma sospendiamo ancora un momento questo ridere, al quale il pio arciprete di Cerea è un po' troppo prono. Come bisogna dunque intenderlo, quel verso? <<Non era», risponde l'arciprete, «la nuova ombra quella che guardava la turba prostesa, era all' incontro la turba prostesa quella che guardava la nuova ombra. Oh, questa sì che è nuova! Ma non ci ha detto il Poeta che tutte le anime di questo cerchio giacevano a terra tutte volte in giuso (Purg. XIX, 72), tenute da giustizia legate e prese in modo da esser costrette a starsene immobili (ibid. v. 123-126), così che esse non ponno alzare il capo nè mostrare il viso (ibid. v. 83 e seg. cfr. XX, 29 e seg.)? E qui egli verrebbe dunque a dirci appunto l'opposto, che quelle anime cioè «torcendo la testa si guardavano verso il loro piè», che <<tutta quella turba aveva levato un po' il capo e tortolo indietro?» Dunque egli s'era dimenticato della pena delle anime da lui descrittaci! Risum teneatis? Si teneatis, chè ride ben chi ride l'ultimo. Inoltre, ο qual grammatica permette mai di riferire quì il gerundio guardando a la turba invece di riferirlo a un'ombra? Cosa è qui più ridicolo, la costruzione voluta dal Bennass., o «il senso dei commentatori?» L' argomento poi del Bennass. è troppo puerile. Il Poeta non poteva dunque dirci come Stazio veniva, se non se n'era ancora accorto? Qui bisogna ricordarsi del precetto: Responde stulto juxta stultitiam suam, ne sibi sapiens esse videatur (Prov. XXVI, 5), e rispondere: Se Dante non sapeva come lo spirito fosse venuto e voleva pur dircelo, e' non aveva che a chiedere: Sior Stazio lustrissimo, la mi dica un po' come la venia prima che noi la vedessimo, e Stazio avrebbe risposto senza dubbio: Io veniva Dappiè guardando la turba che giace; ed ecco per Dante due vantaggi in uno, una bella risposta ed un verso già bell' e fatto! 13. FRATI: fratelli. Stazio crede parlare a due anime che vanno verso il cielo. DEA: dia; dea per dia usavasi anticamente anche in prosa; cfr. Nannuc. Anal. crit. p. 562. Quì Dante l'usa forse per ischivare la cacofonia del Dio vi dia. Il saluto di Stazio corrisponde al degli Ebrei, all' Εἰρήνη ὑμῖν con che il risorto Cristo salutò i suoi discepoli (S. Giov. ΧΧ, 20. 26), e al precetto di Cristo agli apostoli: Intrantes in domum, salutate eam, dicentes: Pax huic domui (Matt. X, 12.). שׁלוֹם לָכֶם 15. RENDE' GLI: Al. Rendè lui. - IL CENNO: il saluto: E collo spirito tuo, che risponde al Pax vobis. Cosi Lan., An. Fior., Vell., Biag., Ces., Tom., Greg., Camer., ecc. Altri vogliono che cenno importi qui atto e non 16 Poi cominciò: «Nel beato concilio 19 «Come! (diss' egli, e parte andavam forte), 22 E il dottor mio: Che questi porta e che l' angel profila, parola, e spiegano: Virgilio le rendette un gesto di riverenza colla persona (Benv. Ramb., Buti, Dan., Vent., Lomb., Pogg., Costa, Br. B., Frat., Andr., Triss., Bennass., Franc., ecc.), riferendosi a ciò che il complimento di parole vien subito dopo. Ma il Poeta dice che Virgilio rendè a Stazio il cenno confacente al saluto, e al Dio vi dea pace si confanno parole e non inchini o gesti di riverenza. 16. POI: dopo avergli reso il saluto Virgilio incominciò di nuovo a parlare. Voleva chiedergli il motivo del tremuoto e del canto (v. 34 e seg.), ma appena ebbe incominciato fu interrotto da Stazio, meravigliato di ciò che ode. CONCILIO: non resurgent impii in judicio, neque peccatores in concilio justorum. Psal. I, 5. cfr. Parad. XXVI, 120. Beato concilio appella qui Dante il Paradiso, dove è l' adunanza de' beati. 17. LA VERACE CORTE: la corte celeste, del giudice infallibile. «Perchè le Corti del mondo sono corti da scena. Forse coll' epiteto verace vuol indicare che la verità alberga solo nella Corte del Cielo, laddove le menzogne, le frodi, la dissimulazione, l' inganno, e ogni genere di falsità annida per lo più nelle corti terrene.» 18. RILEGA: confina nel limbo. Giober. ETERNO ESILIO: dal cielo che è la vera patria delle anime; cfr. Inf. XXIII, 126. 19. DISS' EGLI: Stazio, interrompendo Virgilio. - E PARTE: e intanto camminavamo tutti e tre sollecitamente. Di parte avverbio per mentre, intanto ecc. dicemmo nella nt. sopra Inf. XXIX, 16. - Così leggono i migliori codd., e così spiegano Post. Cass., Benv. Ramb., Tom., Br. B., Andr., Cam., Bl., Witte, ecc. I più leggono: e perchè andate forte, lezione derivata per avventura dal non conoscere l' indole della voce parte, e secondo la quale Stazio farebbe una dimanda molto oziosa. Altre lezioni sono: e perchè andava forte, che non dà verun senso; e parte andavan forte, chi? Virgilio e Stazio? Ma allora doveva andar forte anche Dante. (Del resto non mancano esempi della desinenza an della prima pers. plur. dell' imperf. ind. invece di am; cfr. Blanc, ital. Gram. pag. 345.) Altri leggono e parte andava forte che il Ces. spiega: «L'ombra era anche indietro da loro, sentitala pure al saluto: dunque, per raggiugnersi ad essi e farsi meglio intendere, avea preso un buon passo» (così Lomb., Portir., Pertic., ecc.). Ma la presupposizione che l'ombra fosse ancora indietro dai due poeti è falsa, i versi antecedenti mostrando troppo chiaramente che essa era loro giunta vicino. Dopo il tanto scritto da altri su questo verso ci sembra superfluo lo spendervi sopra ulteriori parole. Chi ne vuol sapere di più confronti Parenti, Saggio d' annotazioni al Dizion. della lingua ital. Fasc. III, p. 225 e segg. Blanc, Versuch ecc. P. II, p. 76 e seg. Barlow, Contributions ecc. p. 252 e seg. e l' Ed. Pad. ad h. 1. 20. NON DEGNI: le quali Dio non reputa degne di essere ammesse su nella verace corte, nel cielo. 21. SCALA: il monte del Purgatorio è la scala che conduce al cielo, imperocchè la via che mena a Dio è la penitenza. TANTO: sì gran tratto. Non sono più molto lungi dalla sommità del monte. - SCORTE: guidate; cfr. Purg. I, 43. IX, 86. nt. Stazio fa ai due poeti la stessa dimanda già fatta loro dall' Angelo portiere. 22. I SEGNI: i P descritti dall' Angelo nella fronte a Dante; cfr. Purg. IX, 112. Gliene rimanevano ancora tre. 23. L' ANGEL: guardiano del Purgatorio. fronte di chi egli ammette a purgarsi. PROFILA: delinea in su la Ben vedrai che coi buon convien ch' ei regni. 25 Ma perchè lei che dì e notte fila, Non gli avea tratta ancora la conocchia, Che Cloto impone a ciascuno e compila, 28 L'anima sua, ch'è tua e mia sirocchia, 24. CONVIEN: essendo dall' angelo stato ammesso ai sette cerchi egli è per conseguente ammesso a salire al regno de' buoni. REGNI: Possidete paratum vobis regnum; Matt. XXV, 34. Si sustinebimus, et conregnabimus; II Timot. II, 12. 25. LEI: la Parca Lachesi la quale secondo la mitologia greco-romana fila lo stame della vita di ogni uomo. Viene in sentenza in questa terzina a dire: Perchè costui non avea ancor compiuto il corso della sua vita. Lei per ella si usa comunemente, quantunque a rigore non dovrebbe esser mai posto come nominativo o soggetto della proposizione; cfr. Blanc, ital. Gram. p. 266 e seg. Corticelli, Regole ed Osservazioni della Lingua Toscana, p. 33. Manni, Lezioni di lingua toscana, pag. 114. La lezione Ma per colei non dà senso sopportabile; l'altra Ma perchè Lachesì che dà le fila deve senza dubbio la sua origine alla chiosa di chi volle spiegare chi sia lei che dì e notte fila. La lezione da noi accettata è de' migliori codd. e così lessero gli antichi espositori (Lan., Ott., An. Fior., Falso Bocc., Buti, Land., Vell., Dan., Dol. ecc.). Il Post. Cass. e Benv. Ramb. lessero per colei; la terza delle lezioni mentovate non ci venne fatto rinvenirla presso verun commentatore antico. FILA: pongono i poeti alla vita degli uomini tre Dee, le quali chiamano Parche; et dicono ch' elle abitono presso a Plutone allo' nferno: la prima ha nome Cloto, la seconda Lachesis, la terza Antropos (Atropos, cfr. Inf. XXXIII, 126). La prima quando l'uomo nasce pone alla sua rocca la conocchia; la seconda fila continuamente questa conocchia; la terza quando gli pare taglia il filo, onde il verso: Clotum colum bajulat, Lachesis trahit, Atropos secat. Per questo non intendono altro i poeti, se non che ciascuno vivente ha prima la creazione, et questo è Cloto, poi la ditrazione et questa è Lachesis, poi il mancare della vita et questo è l' Atropos. An. Fior. 26. TRATTA: compiuto a trarre: imperò che chi fila a poco a poco tira giù lo lino o la stoppa tanto, che fa lo filo, et a filo a filo tira giù da la rocca tutto lo pennecchio e la roccata. Buti. - CONOCCHIA: il lino avvolto alla rocca. 27. CLOTO: la più giovine delle tre parche, quella che al nascere di ciascun uomo impone su la rocca di Lachesis quella porzione di stame, durante la filatura del quale conviene che duri la vita di ciascuno. COMPILA: due atti si fanno nel metter sopra della rocca il pennecchio: il primo è di soprapporvelo largamente, facendolo dall' aggirata rocca a poco a poco lambire, e questo appella Dante imporre; l' altro è di aggirare intorno al pennecchio medesimo la mano per unirlo e restringerlo, e questo appella compilare. Lomb. 28. SIROCCHIA: sorella, perchè uscita di mano allo stesso creatore, figliuola del medesimo Dio. Così i più (Buti, Vell., Dan., Vent., Lomb., Biag., Ed. Pad., Ces., Tom., Br. B., Frat., Andr., Triss., Bennass., ecc.). Anche il Land. vuol forse dire lo stesso: «Perchè sono d' una medesima specie, benchè tu sia confirmato in grazia, et io dannato, et egli ancora in dubbio» (in dubbio? nonostante quanto ha detto or' ora, v. 22-24?). Il Postill. Cass. nota: Propter artem poesi, e forse furono del medesimo parere anche il Falso Bocc. («cioè che Dante seguia la poesia di Virgilio») e Benv. Ramb. («essendo noi fratelli poeti»). Il P. Ab. Di Costanzo (Lettera ecc. in Div. Com. Roma 1815. Vol. IV, p. 71. e Pad. 1822. Vol. V. pag. 223) e De Romanis approvano la chiosa del Postill. Cass. Ma Virgilio non poteva assolutamente dire che l'anima di Dante fosse sorella di sè e di Stazio per essere tutti e tre poeti, e ciò pel semplicissimo motivo che egli non sapeva ancora che poeta fosse colui col quale egli parlava, cfr. v. 79. Dunque bisogna stare coi più. Nè il ch'è tua e mia |