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Ch' è di torbidi nuvoli involuto, E con tempesta impetuosa ed agra Sopra Campo Picen fia combattuto;

Ond' ei repente spezzerà la nebbia, Sì ch'ogni Bianco ne sarà feruto: E detto l' ho, perchè doler ten debbia.

la lingua nostra, che il Poeta non guarda all'altro di che viene appresso. Però non vuole adoperarsi che co' verbi dinotanti origine,scostamento, allontanamento, o moto locale, rispondente alla dimanda unde; come nell'altro verso:

Mia donna venne a me di val di Pado.
V. Inf. VII, 56:

Questi risurgeranno del sepolcro e molti altri esempi.

VAPOR figuratamente per Moroello. Marte è pieno di fumi, e di umor bravi, direbbe il Lippi. Vapor fulmineo intendono i comentatori.-VAL DI MAGRA, nella Lunigiana superiore, dove signoreggiavano i Malaspina. La Magra, fiume che divide la Toscana dal Genovesato. VAL, troncamento di Valle. Il Poeta l'usa anche altrove (Inf. XX, 64):

Per mille fonti, credo, e più, si bagna
Tra Garda e Val Camonica, Pennino.
Ancora; (Parad. XV, 137):

Mia donna venne a me di val di Pado. I grammatici consentono si dica: val di Nievole, val d' Arno, val dell' Olmo, val di Mazzara, ec. non poi val fiorila, val profonda ec.

Contro le loro sottigliezze o ragioni, ch'egli si sanno, sta l' esempio del testè addotto verso: Tra Garda e Val Camonica, Pennino; e l'uso che di questa voce fecero i provenzali, gli spagnuoli, e i francesi.

Provenz. Val de lagremas.

Franc. antic. Delez grant val, grant mont; cioè, appresso gran val, gran

monte.

Spagn. antic. Fallòla Polytratus en una val escura, che vale: Trovolla Politrato in una val oscura.

L'accorciamento delle voci desinenti con due ll seguite da vocale, nasce da ciò, che quelle scrivevansi e proferivansi in antico con la l scempia, siccome è lecito arguire da esempi che ne permangono; ne' quali troviamo fole, Apolo, co

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lo, pele, trastulo, bargelo ec. in iscambio di folle, Apollo, collo, pelle, trastullo, bargello ec. Così potè dirsi vale per valle; onde il troncamento veniva senza lesione della grammatica.

146. DI TORBIDI NUVOLI INVOLUTO: involto, circondato di nuvoli che minacciano burrasca. Torbidi nuvoli i Neri.

147-150. CON tempesta ec. Il fulmineo vapore cinto di neri nuvoli (Moroello co' suoi) sarà sul campo Piceno acremente combattuto da' Bianchi; ed egli Scoppierà improvviso come saella (REPENTE SPEZZERÀ LA NEBBIA ec.) (a), e gli allerrerà.

Il Filicaja imitò questo luogo così:

Di Val d'Ebro attrasse Marte

Vapor che si fer nuvoli, e s'apriro,
E piovver d'ogni parte

Aspra tempesta sull'austriache genti. 151. DOLER. Dice il Tommaseo: Dante a quel tempo era Guelfo; nè poleva intendere il senso del vaticinio di Vanni; il qual già prevede che il Poeta sarà un giorno de' Bianchi, e si dorrà della loro sconfitta. Ma percorreva l' Inferno da Ghibellino, e tale dobbiamo supporlo nel 1300, ch'è il tempo della Visione. Ammesso per vero ciò che asserisce l'Illustre Tommaseo, non sapremo conciliare Dante con Dante: Dante che ode da Guelfo il prognostico del Fucci, con Dante non Guelfo, che teme la Lupa romana, ed aspetta il Veltro, che la cacci d'ltalia. Son fulmini d'ira ghibellinesca quelli che scoccano contro i Papi simoniaci (C. XIX). Un Guelfo non avrebbe veduto nella Chiesa papale la putta del

(a) È chi crede per nebbia dovers' intendere la parte Bianca, a differenza de' torbidi nuvoli che son la Nera; ma a noi pare che, nominandosi già OGNI BIANCO nel verso appresso, si uscirebbe dal figurato al letterale, ch'è inconveniente: all'incontro, quel repente spezzar la nebbia a nulla meglio può riferirsi che al fulmine di Giove, o di Marte.

CANTO XXV.

Seguito della settima bolgia. — Incontro di cinque ladri fiorentini.

Al fine delle sue parole il ladro

Le mani alzò con ambedue le fiche,
Gridando: togli, Dio, che a te le squadro.

l'Apocalisse; ma riconosciuta la Sposa di
Cristo nel luogo che vaca (Parad. XXVII):

Alla presenza del Figliuol di Dio.

DEBBIA per debba non è nè solo in poesia adoperato, nè in questa per cagion della rima. È dall'antico debbere. L'Ariosto XXII, 23:

Come gli mostra il libro che far debbia.
Il Tasso, Gerus. III, 27:

E tuo gran tempo; e tempo è ben che trarlo
Omai tu debbia, e non debb'io vietarlo.

Il Passav. Specch. Penit. 106: Onde non spera che Dio debbia avere misericordia di lui. Sen. Pist. 106: Io dirò a me medesimo quel che io veggio

che tu mi debbia dire ec. Crediamo sia dal lat. debeat, mutata la seconda e in

si sia inserito l'i in molte voci; dicendosi vadia, reggia, seggia, veggia ec., per vada,regga,segga,vegga ec. - PERCHÈ doler ten debbIA: perchè te ne dolga.

Il Poeta intende pienamente il senso che hanno le parole di Vanni; e, fosse anche un anacronismo, è giuoco forza supporre, che nel 1300 egli sentisse per la prenunziata sconfitta de' Bianchi, lo stesso dolore che provò del suo esilio. Se Dante è Guelfo alla presenza del Pistoiese,il vaticinio della disfatta de' Bianchi dovrà produrgli nell'animo una gioia anticipata dell'annientamento in cui sarà per cadere la fazione contraria: effetto non inteso da Vanni; il quale, come dalec.; tuttochè per liscezza di pronunzia testo rilevasi, cerca da quell'istante attossicare con le sue predizioni un Bianco, il quale, viaggiando per l'Inferno, erasi avvenuto in un ladro di parte Nera. L'Alighieri nel detto anno di sua Visione tenne già il Priorato dal mezzo Giugno, al mezzo Agosto; ed avversò quanto fu in lui, la venuta di Carlo di Valois, come funesta alla parte Bianca odiata da Bonifazio VIII. Intimo di Guido Cavalcanti, ch'era nemico acerrimo di Corso Donati, non potè Dante essere troppo tenero del Guelfismo. Egli fe parte da sè, e, la rettitudine in cima de' suoi pensieri, amò di cuore la causa de' Bianchi. Di spirito ghibellino, ed operò al mondo il miracolo del sacro poema; Guelfo, ci avrebbe lasciato appena le parafrasi del Credo e del Paternostro, e il pianto de' sette salmi penitenziali. Concludiamo adunque, che Dante nel 1300 visitò l'Inferno con animo avverso alla parte Guelfa.L'invenzione poetica acciocchè regga richiede, a costo eziandio di tradire la verità biografica dell'autore, che noi gli attribuiamo quelle opinioni quando egli finge di avere scritto, le quali si ebbe realmente mentre scriveva.

1-3. Questo atto villano di squadrar le fiche ha molto de' manichetti, che suole sbracciare nell'ira il contadino calabrese; ed è degno di quel ladro Vanni Fucci, cui piacque (Inf. XXIV, 124) vita bestiale e non umana. Questa bestia pistoiese, con tale atto sconcio in dispregio di Dio, pon fine al vaticinio che fece al Poeta su' casi di Firenze. Notisi che i toscani usarono il verbo Torre assoluto, ed ellitticamente come il Buon. Tanc. Atto I, sc. I:

Un cittadin la Tancia? olà, toli. cioè tolè, tolete, togliete; l'atto dinotando che cosa.

Il Petrarca più gentilmente, ma con senso di amarezza disse:

Ma tolga il mondo tristo che il sostene. e forse mise il dito grosso tra l'indice e il medio, facendo le fiche al mondo, come altri le farebbe agl'italiani delusi.

I Provenzali dicevano Tenetz, i Veneziani Tolè, e il Calabro più riciso di Dante stesso, dice Te', e tutto ha compiuto.

Da indi in qua mi fur le serpi amiche,

Perch' una gli s' avvolse allora al collo,
Come dicesse non vo' che più diche;

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Il Boiardo (Lib. II, C. V, 42) usò la prec.vv.143-151), rivolge contro Dio la frase fare un fico.

Egli si volta e falli un fico in faccia.
Il provenz. Far la figa.

Alcuni traggono l'origine di questo modo da cosa che bello è il tacere. Il vero fonte, da cui si è cavato, avvegnacchè non men brutto, noi l'additiamo con le parole del Nannucci (Anal. crit. de verb. it. Fir. Le Mon. 1843, pag. 134). I milanesi avevano oltraggiata l'imperatrice moglie di Federigo Barbarossa, il quale vinti che gli ebbe nel 1162 gli obbligò a riparazione di quella offesa a trar fuori co' denti un fico collocato nell'orifizio del fondamento d'una vecchia mula. E perciò riputavansi a somma ingiuria il presentar loro la cima del dito grosso serrato tra l'indice e il medio: e questo si diceva FAR LA FI... Questa locuzione divenne proverbiale e servi ad esprimere una beffa in

giuriosa ec.

Che poi si dica fiche, è da ricordare che Ficus latino è femminile; che i provenzali dissero la figa o figua e i nostri antichi la fico per il figo o il fico frutto; in quel modo stesso che dicesi la mano, la rosmarino, la spiganardo, la eco ec. Il Beato Jacopone: Lib.III,Od. XXV, 13: De la fico ave figura

Ch'è grassa per natura. Epperò Dante (Inf. XXXIII,120) disse: Che qui riprendo dattero per figo. usando figo non per antitesi a causa della rima,o perchè il veneziano, il lombardo e qualche dialetto così pronunzi; ma dall'essersi detto figa o figua in provenzale, figa nell' antico spagnuolo; figue nell' antico franc. e dall' essersi imitata appo i nostri antichi cotal proferenza.

LE MANI ALZò ec. Sulla rocca di Carmignano, in quel di Pistoia, era una torretta con suso due braccia di marmo levate in atto di far le fiche a Firenze. G.Villani, VI, cap. 5. I Fiorentini disfecer la torre nel 1228.

TOGLI, DIO ec. Il Fucci disfogatosi contro Dante col funesto vaticinio (Canto

bestiale e sacrilega rabbia. Uno Statuto di Prato imponeva multa di dieci lire, o la pena della frusta a chi osato avesse far le fiche, o mostrar le chiappe verso il cielo, o verso la imagine di Dio e della Madonna.

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SQUADRO; misuro, squaderno. TommaLe fo, le indirizzo ec. Squadrare val proprio aggiustar con la squadra, cioè quadrare o riquadrare; ancora isquarlare e rompere; che potrebbe significare un senso osceno dell'atto villano con cui le fiche fatte si disfanno. Squadrare, secondo il Venturi, è più che mostrare, quasi spinger sugli occhi. Lat. obtrudere. Mostrare apertamente, Volpi.

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A TE: in tuo dispregio,a tuo dispetto.

4-5. MI FUR LE SERPI AMICHE; peroc

chè fecero appunto quel ch'io volea che facessero. Nam idem velle atque nolle, ea demum firma amicitia est. Sallust. Cat. XX. Una serpe, la cui lingua è velenosa, avvince il bestemmiatore nel collo, e lo strozza. Di due immani serpenti che avvinchiano Laocoonte, così Virgilio, En. II, 247:

Corripiunt,, spirisque ligant ingentibus: et jam Bis medium amplexi, bis collo squamea circum Terga dati, superant capite et cervicibus altis.

6. DICHE: tu dica. Al tempo antico si voleva configurare le desinenze del congiuntivo a norma della prima coniugazione; la quale, come appo i latini aveva le voci amem, ames, amet ec., tolta l'estrema consonante, divenne pe' primi scrittori volgari: io ame, tu ame, colui ame ec. E così: io teme, tu teme, egli teme; io ode, tu ode, colui ode. Esempi. Brunetto Latini; Cap. V:

Non fie che tu non saccie
Ma vo' che tanto faccie
Che lo mio dire apprende
Si che tutto lo 'ntende
Parlandoti in volgare
Che tu intende e appare.

E Cap. XVI:

Che tu non perde freno.

Cap. XVII:

E voglio che ame e crede ec.

Ed un' altra alle braccia, e rilegollo,
Ribadendo se stessa sì dinanzi,

Che non potea con esse dare un crollo. Ah Pistoia, Pistoia! che non stanzi

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Tal ch'io non penso udir cosa giammai Che mi conforte ad altro che a trar guai. E il nostro, nell'Inf. VII, 72:

Or vo' che tu mia sentenza ne imbocche. C. XII, 27:

Mentre ch'è 'n furia è buon che tu ti cale. Cant. XIII, 16:

E'l buon maestro: prima che più entre. C. XVI, 85:

Fa che di noi alla gente favelle.

C. XVIII, 127:

Appresso ciò lo duca: fa che pinghe,

Mi disse, un poco 'l viso più avante

Si che la faccia tua con gli occhi attinghe. Nè in poesia soltanto; chè molti esempi ci ha benanche nella prosa.

Rettor. di Frate Guidotto: Una cosa voglio che sappie, che la voce ec. Nel volgariz. di Albertano, Tratt. del Dire e del Tacere. Cap. II: Nella nona parte richiedi non diche paraula d'ingiuria. - E però t'hoe ditto di sopra che fugghe la buscia.

Nel lib. del Consol. e del Consigl. Cap. I: Io ti chieggo uno gran dono, che tu mi die ispazio di dire Cap. XXVIII: A ciò che quelle posse compor

tare A ciò che lo consilio bene esa

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mini, e li tuoi fatti saviamente faccie. Il simile si è fatto in tutte le lingue

romanze.

Bene a ragione il Nannucci: Il valore, la proprietà e le bellezze di tante voci e modi di dire, che si leggono in Dante, debbonsi quasi sempre investigare non in altre lingue che in quelle, che sono con la nostra più da vicino congiunte;e queste sono la latina e la provenzale: il che non si è fallo dagl'illustratori della Divina Commedia, i quali sono perciò caduti il più delle volte in errore. I commentatori, quando non sanno render ragione di certe voci dantesche, che sembran loro fuor della regola, ti annotano bravamente: in grazia della rima... Dante nulla disse giammai strozzato dalla rima, che a Dante non mancavano rime. Discorso.

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sopra la parola Colo usata da Dante ec.

Ragione, la quale ne conforta a scrivere ed ordinare queste note filologiche e grammaticali, in vantaggio degli studiosi della Divina Commedia. Vedi Purg. XXV, 3.

7. UN'ALTRA ALLE BRACCIA RILEGOLLO. Una serpe (v. 5) racchiude il fiato al Fucci che avea detto: Togli, Dio ec.; l'altra stringe tra le sue spire le braccia del ladro che gli squadrò l'atto ingiurioso e villano. RILEGOLLO: Lo legò di nuovo e più stretto. Già tutti questi ladri (C. XXIV, 94):

Con serpi le man dietro avean leg ate. 8. RIBADENDO SE STESSA... Dinanzi. La serpe dunque avvince da tergo le braccia al ladro, e si ritorce e stringe dal petto, rificcando la coda a mo' di chiodo che si ribadisce; cioè, la cui punta si ritorce e ribatte nell' asse confitta. Ribattendo hanno il Cod. Cassinese; l'ediz. 2a Rovelliana, Lion. 1551; del Burgofranco, Ven. 1529; la prima del Sansovino, Ven. 1564; le lezioni variorum del Witte; il cod. Filippino (sec. XIV); l'edizione del Veronese, Jesi 1472; e il testo Bargigi. Onde non pare si sia male apposto il Zacheroni, scrivendo: «Se l'origine del verbo ribadire trovasi in ribattere, non può negarsi che il primo sia un'alterazione di questo secondo fatta in Toscana, e che il solo ribattere sia vocabolo italiano da tutti inteso, e da Dante adoperato ».

9. NON POTEA ec. nonchè far le fiche; ma nemmanco DARE UN CROLLO, alzando, abbassando o punto movendo le braccia dalla forte strettura.

10-12. Aи PISTOIA ec. Contro la patria del Fucci ladro, sanguinario, sacrilego, non sa Dante contenersi che non isputi del fiele, come fece imprecando Pisa (Inf. XXXIII, 79-84), i Genovesi (ivi, 151 segg.) e gli abitanti di Val d'Arno ec. (Purg. XIV, 29 seg.).

CHE NON STANZI D'incenerarti ec.Let

D' incenerarti, sì che più non duri,
Poi che in mal far lo seme tuo avanzi?

tera di ben dugencinquanta edizioni della Divina Commedia: e la comune interpretazione è: Perchè, o Pistoia, non STANZI (risolvi) di tutta convertirti in cenere; poichè tu in mal fare AVANZI (Superi, vinci, sormonti) LO SEME TUo, che furono i ribelli di Roma seguaci di Catilina? A tale sentenza bisogna prendere le parole che non nel senso del quid ni o cur non de' latini; stanzi da stanziare in sentimento di ordinare, stabilire, deliberare ec.; incenerarti da incenerare per incenerire (a); SEME pei primi fondatori della Città. Ma al contrario il che non potrebbe valere non enim, quae non, e torrebbesi via la forma in terrogativa: scanzi ha il codice Cassinese; nome stanzi il Riccardiano, no 1028 già pubblicato da Lord Vernon per la tipogr. Piatti, Fir. 1846. Nelle variorum del Witte ed in venti e più codici, con quello della biblioteca reale di Parigi, segnato N. 10 fonds de reserve, il trinario 10-12 di questo canto si legge così: Ah Pistoja, Pistoja, che non stai anzi (b) D'ingenerare si che più non duri, Poichè in mal far lo seme tuo avanzi?

L'egregio Vinc. Ferrari pensò che fosse questa la vera lezione; poichè presenta il concetto naturale e spontaneo di pregare Pistoja che cessi dal propagare una generazione più malefica degli avi; e non chiama, come l'altra fa, i cittadini ad incenerirsi deliberatamente, che sarebbe un pensiero forzato e d''immanità non più udita. Simigliantemente (Purg. XIV, 115 segg.), delle tralignate generazioni di Bagnacavallo, di Castrocaro e

di Conio, aver detto il Poeta:

Ben fa Bagnacaval, che non rifiglia,

E mal fa Castrocaro, e peggio Conio, Che di figliar tai conti più s' impiglia. Le varianti co' diversi sensi che seco portano le parole, e per fino gli amminicoli della punteggiatura non certa, ren

(a) Vedi Inf. V1, 84 nota.

(b) Non fu cosa difficile fra gli antichi scrivere stanzi invece di stai anzi: essendosi fatte di simili collisioni e incorporazioni di due in una parola, come si vede nel testo Cassinese. Quanto all'altra voce incenerare, potè di leggieri scriversi così in luogo di ingenerare, për l'affinità delle due consonanti.

dono scabrosa l'interpretazione di questo luogo: pure quella che ci si porge dalla lezione preferita dal Ferrari ne pare la più probabile, quantunque il dire a una città: resta dal moltiplicare le tue genti e condannati da te stessa a un perpetuo celibato ne paia poco differente dall' esortarla ad un incendio che l' arda e consumi. Nell' un caso e nell' altro le si direbbe: risolvi di fare che tu più non sia. A gittarsi nel nulla par non ci debba essere chi da senno osi persuadere una città, o che l' annientarsi si faccia per voracità di fiamme, o che per lento perire di tutta una gente che rinunzi al più forte istinto della procreazione. I comentatori non fanno conto di tali inconvenienti, o non pure gli hanno avvertiti. Diremo noi col Ferrari avere il Poeta espresso in quelle parole un sentimento forte e probabile? La forma imprecativa consente che si dica ai Genovesi:

Perchè non siete voi del mondo spersi? ai Pisani:

Muovansi la Capraia e la Gorgona,

E faccian siepe ad Arno in sulla foce, Sì ch'egli anneghi in te ogni persona. ma l'esortazione fatta a Pistoia su qual principio estetico si sostiene? Non altro mentoso disfacimento di Vanni, reputa da questo: che il Poeta, veduto il tormiglior partito che i Pistoiesi cessino dal propagarsi, di quello sia il dare al mondo degli esseri malvagi, che piovan poi alla terribile pena (c). La religione sonell'Inferno per sottostare eternamente prannaturale feconda la fantasia del Vate divino. Egli vede che i martiri di questa vita non son da comparare col premio soprabbondante dell'altra; e che le soddisfazioni del mal talento e le mentite dolcezze, a cui inchina la foga delle passioni, sono come una goccia di mele in confronto all'amaro d'una interminabile miseria; sicchè vale assai meglio non nascere, ch'esser nato ad incenerirsi come Vanni Fucci. E già come disse Dino Compagni LXII:Naturalmente i Pistoje

(c) G. C. (Matth. XXVI, 24) disse di Giuda: Bonum erat ei, si natus non fuisset homo ille.

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