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Semint. Tardi per la vecchiezza, — RIGUARDI. Così detti in Romagna, nota il Perticari, i termini che dividono i campi, o pali, o colonne lungo la via. Vien forse da questo che alla meta si tiene fiso lo sguardo.

(F) FOCE. Pietro di Dante: Procedendo venit ad Gades insulas silvestres ultra Hispaniam in Occidentem, a quibus mare illud dicitur Gaditanum, ubi primo ab Oceano mari limen aperitur fine Bactice provinciæ dirimentis Europam ab Africa... Ibi posuit Hercules columnas, significantes ibi esse finem terræ habitabilis. Solino: Calpe et Abyla montibus, quos dicunt columnas Herculis,

37. (L) SIBILIA: Siviglia. sullo stretto.

sto.

SETTA Ceuta in Africa

(SL) SIBILIA. Villani. - SETTA. Cosi anco l'ArioLASCIAL. En., II: Postes... Relicti a tergo. 38. (L) FRATI: fratelli. MILIA: mille. PICCIOLA VIGILIA: la vita è breve vigilia al sonno della morte. Alla vita che rimane non negate l'esperienza degli antipodi.

(SL) MILIA. Comune allora per numero indeterminato. Psal., XC, 7: Cadent a latere tuo mille, et decem millia a dextris tuis; ad te autem non appropinquabit. PERIGLI. Lucan., I: Bellorum, o socii, qui mille pericula Martis Mecum, ait, experti, decimo jam vincitis anno. VIGILIA. Æn., 1: O socii (neque enim ignari sumus ante malorum).... Per varios casus, per tot discrimina rerum, Tendimus in Latium.... Durate et vosmet rebus servate secundis.

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(SL) CONSIDERATE. Modo de Maccabei (II, XIV, 5). SEMENZA: Æn., VIII: O sale gente Deùm. FATTI. Voce biblica. - CONOSCENZA. È nel Convivio.

(F) BRUTI. Som.: Gli animali bruti che hanno natura soltanto sensibile, non possono pervenire al fine della razionale natura, Conv.: Viveré, nell'uomo è ragione usare. Altrove: Enon si parte dall' uso della ragione chi non ragiona il fine della sua vita. CONOSCENZA. Som.: Gli enti non conoscenti non hanno che le forme loro, ma il conoscente è nato ad avere la forma altresì d'altro oggetto, perchè l'idea del conosciuto è nel conoscente. Però la natura dell'arte conoscente è più ampia. La forma è ristretta dalla materia ; onde le forme più sono immateriali e più s'appressano ad una certa infinità. Però l'immaterialità dell'ente è la ragione dell'es ser lui conoscente. Onde nel II dell' Anima dicesi che le piante non conoscono perchè materiali: il senso è conoscitivo in quanto riceve le specie senza materia, e l'intelletto ancor più conoscente perchè più separato dalla materia, come è detto nel III dell'Anima.

41. Li miei compagni fec' io si acuti,

Con questa orazion picciola, al cammino, Ch'appena poscia gli avrei ritenuti. 42. E volta nostra poppa nel mattino,

De' remi facemmo ali al folle volo, Sempre acquistando del lato mancino. 43. Tutte le stelle già dell'altro polo

Vedea, la notte, e 'l nostro tanto basso
Che non surgeva fuor del marin suolo.
44. Cinque volte racceso, e tante casso
Lo lume era di sotto dalla luna
Poi ch'entrati eravam nell'alto passo:
45. Quando n'apparve una montagna, bruna
Per la distanza; e parvemi alta tanto
Quanto veduta non n'aveva alcuna.

46. Noi ci allegrammo; e tosto tornò in pianto: Chè dalla nuova terra un turbo nacque,

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(SL) NEL MATTINO: Georg. III: Ore omnes versæ in Zephyrum. VOLO. Horat., Epod., XVI Etrusca præter et volate littora. Æn., III: Velorum pandimus alas. Prop., lib. IV, Eleg., VI: Centenis remigat alis. En., III: Pelagoque volamus. È l'inverso del volat... remigio alarum (En., I). · ACQUISTANDO. Purg., IV: Pur su al monte dietro a me acquista. 43. (L) ALTRO POLO antartico. VEDEA io. NoSTRO: artico.

-

(SL) SUOLO. Virgilio, del mare: Subtrahitur que solum (Æn., V).

44. (L) Cinque VOLTE: cinque mesi dal nostro partire da Gades. CASSO: spento. — LO LUME ERA DI SOTTO DALLA LUNA: quando la luna è illuminata sotto dalla parte che guarda la terra allorchè è visibile a noi. (SL) RACCESO. Inf, X. CASSO. Æn. II: Lumine

cassum.

45. (SL) APPARVE. Æn., III: Quarto terra die primum se attollere tandem Visa; aperire procul montes, ac volvere fumum, - Jam medio apparet fluctu nemorosa Zacynthos. Altri intende d' una montagna dell' Atlantico, di cui Platone e i geografi antichi, altri, e meglio, di quella ove Dante colloca il Purgatorio. BRUNA. Æn., III: Cum procul obscuros colles humilemque videmus Italiam.

46. (L) IL PRIMO CANTO: la prua.

(SL) PERCOSSE. Æn., 1: Ingens a vertice pontus In puppim ferit.... ast illam ter fluctus ibidem Torquet agens circum, et rapidus vorat æquore vortex. — - CANTO. Æn., I: Prora avertit, et undis Dat latus. 47. (L) ALTRUI. Per non dire Dio.

(SL) PIACQUE. Æn., II: Superis placet. - I: Sie placitum (di Giove).

48. (SL) Richiuso. Georg., IV: Spumantem undam sub vertice torsit.

Ulisse e Guido di Montefeltro.

Seguono ai ladri coloro che con frodolenti consigli fecero furto alla giustizia e alla verità per giovare ad altri o a sẻ, siccome, dice l'Anonimo, per aguati imbolarono altrui le cittadi e gli uomini, e qui da queste fiamme sono imbolati ellino. L'aguato, o fatto o consigliato che sia, è posto da Dante in una bolgia più sotto del furto, perché riguardando cose meno materiali e persone insieme, e maggior numero di persone e di cose, e adoprando oltre a' mezzi materiali più pensatamente l'ingegno, e così viziando lo spirito più addentro, si fa più degno di pena. Ed è sapiente collocare accanto a' ladri, che, presa la parola nel senso più letterale, son tolti dal volgo degli uomini, e più sotto di loro collocare i consiglieri de' grandi (1).

E però il fuoco che involge costoro, il Poeta lo chiama furo, cioè ladro de' ladri, e de' servi de' ladri. Circumdederunt eos adinventiones suæ... Applicuerunt quasi clibanum cor suum cum insidiarentur eis (2). S. Jacopo dice la mala lingua inflammata a gehenna (3); e i Salmi (4): Sagittæ potentis acutæ cum carbonibus desolatoriis; e Isaia (5): Siccome lingua di fuoco divora la stoppia e l'ardor della fiamma brucia; così la radice loro sarà quasi favilla.

Rincontra Dante per primo Ulisse e Diomede in una fiamma medesima, perchè uniti all' aguato e alla strage di Reso (6), ed al furto del Palladio, violento insieme e sacrilego e frodolento (7). Ma la fiamma va divisa in due punti, siccome quella che arde i cadaveri de' due fratelli per il regno nemici; e questo perchè gli uomini acuti al male si dividono tosto o tardi in sè stessi, e, se forzati a star pure insieme, codesto è continuo tormento. Il corno della fiamma ove geme Ulisse, è maggiore, perché Diomede più violento partecipò a talune delle trame di quello; ma Ulisse, che pure è da Virgilio chiamato dirus e sævus, ordiva le trame: e altre ne ha di sue proprie, come la morte

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(1) Furto ha senso in Virgilio d' insidia ingenerosa: Fugientem haud est dignatus Oroden Sternere, nec jacta cæcum dare cuspide vulnus: Obvius adversoque occurrit, seque viro vir Contulit; haud furto melior, sed fortibus armis (Æn., X). (2) Os., VII, 2 e 6. (3) Epist., III, 6. (4) CXIX, 4. (5) V, 24. (6) En., I: Rhesi... tentoria... primo quæ prodita somno Tydides mulla vastabat cæde cruentus. - (7) Æn., II: ... Impius ex quo Tydides sed enim, scelerumque inventor Ulyxes Fatale adgressi sacrato avellere templo Palladium, cæsis summæ custodibus arcis, Corripuere sacram effigiem, manibusque cruentis Virgincas ausi Divæ contingere villas.

di Palamede (1), e l'inganno con cui scoperse Achille, vestito da donna, e lo tolse all'amore di Deidamia per condurlo alla guerra (2). Le parole del Poeta dimostrano com'egli stimasse ingiusta la guerra de' Greci. E dice l'Anonimo, che prima di ridomandare la rapita Elena i Greci avevano assaliti i Troiani e presono Esiona sirocchia di Priamo: dunque non ebbero li Greci giusta ragione di guerra. E per conseguente ogni inganno fu abominevole e degno di pena.

Ma siccome in Virgilio Ulisse e Diomede non sempre sono del tutto vituperati, e Diomede è fatto consigliere agl'Italiani di farsi amico Enea, confessando il suo valore (3); così Dante parla d'Ulisse con lode, rammentando quel che ne dicono Ditti e Darete, che al suo tempo facevano autorità come storici, e Ovidio nelle Metamorfosi, della facondia di lui, e Orazio nell' epistola a Lollio, della sua continenza. Ditti fa Ulisse morto per man di Telegono; Plinio e Solino lo fanno fondator di Lisbona: su questa tradizione appoggia la sua finzione il Poeta. E questa gli è occasione a sfoggiare scienza geografica, e a commentare poeticamente il passo di s. Agostino citato da Pietro: Nimis absurdum est ut dicatur aliquos homines ex hac in illam partem, Oceani immensitate trajecta, navigasse ac pervenire potuisse (4).

Fallaces cum fallacibus ardeant (5).

Non senza perchè Dante pone accanto ad Ulisse e nel bene e nel male Guido di Montefeltro che siccome, al dir di Sinone, Ulisse col sacerdote Calcante tramò la morte di costui, e Calcante tacque per dieci giorni l'oracolo omicida, e finalmente composito rumpit vocem; e così Guido alla

(2) Altro

(1) En., II: Invidia... pellacis Ulyssei. furto tra violento e sacrilego d' Ulisse poteva a Dante parere l'accennato in que' versi di Virgilio che sono da sè un quadro compiuto, e segnatamente nelle ultime figure di que' fanciulli e di quelle madri che in lungo ordine stanno tremanti e cattive tra le spoglie e le memorie care e venerate delle case loro e de'templi, quadro tale che, moralmente considerato, vale per un canto d' Omero: Et jam porticibus vacuis, Junonis asylo, Custodes lecti Phoenix et dirus Ulysses Prædam asservabant: huc undique Troïa gaza Incensis erepta adytis, mensæque Deorum, Crateresque auro solidi, captivaque vestis Congeritur: pueri et pavidæ longo ordine matres Stant circum (Æn., II). — (3) Æn., XI: Munera quæ patriis ad me portastis ab oris, Vertite ad Ænean... experto credite, quantus In clypeum assurgat, quo turbine torqueat hastam. (4) De Civ. Dei, XVI. (5) Greg. Dial., IV, 35.

domanda del principe de' nuovi farisei, come a parole d'uomo briaco tacette, poi rincorato parlò. Guido, il nobilissimo nostro latino Guido Montefeltrano, come lo chiama nel Convivio; uomo, dice il Boccaccio, sommamente ammaestrato nei liberali studii, che i valorosi uomini onorava. Ghibellino, capitano nel 1276 i Fiorentini e i Forlivesi contro Bologna, e vinse: nel 1277 sgominò i Fiorentini e i Forlivesi fuorusciti: ebbe poi scemate le forze da' legati del Papa, ma nel 1282 distrusse le armi (francesi le più) che Martino IV, francese anch'egli, avea mandate ad assediare Forli nel 1285 vinse il castel di Caprona (1). Perduta Cervia e Faenza, s'umiliò ad Onorio che lo mandò a'confini in Piemonte e tenne in ostaggio due suoi figli; nel 1289 è chiamato a reggere Pisa, ristora le

forze di lei, prende a Firenze Pontadera, il più forte castello d'Italia in piano, ed occupa Urbino: è scomunicato da Papa Nicolò IV. Nel 1295 la pace tra Pisa e Firenze, stretta a patto che Guido ne fosse espulso, lo condusse a cercare la grazia di Bonifazio VIII; la cui mercè potette rientrare in Forli. Nel 1297 si rese frate minore.

Una satira francese del 1270 (la Volpe coronata) è contro i frati, e segnatamente contro i Cordiglieri a cui Guido appartenne. Cicerone (2): Fraus vulpeculæ, vis leonis videtur. Alberto: la frode è siccome di volpe, la forza siccome di lione. Dante non poteva amare in Guido, benchè ghibellino, la strage frodolenta de' Francesi in Faenza, e altre arti d'astuzia rea. Poi l'essersi lui riconciliato a Bonifazio faceva dimenticare al Poeta que' fatti ove Guido fu leone, non volpe (3). Or ecco.come faceva Guido strage degli assedianti francesi. Entravan essi da una porta della città; egli (tale era il patto) usciva dall'altra co' suoi: i soldati francesi convitati a lauta cena, Guido, tornato, trucidò tranne venti.

Nel Convivio, parlando di Guido: Certo il Cavalier Lancialotto non volle entrare colle vele alte, nè il nobilissimo nostro latino Guido Montefeltrano. Bene questi nobili calarono le vele delle mondane operazioni. Nessuno storico appone a Guido l'iniquo consiglio. Certo è che il Papa, fingendo perdonare ai Colonna, li trasse a sè, fece spianare il temuto castello, e riedificare Preneste in piano; certo è che fu tempo in cui Guido si riconcilio a Bonifazio. Ma colui non avea bisogno de' consigli del frate. Forse Dante su qualche rumore di fama o sulla possibilità della cosa fondo l'invenzione poetica. Nel Convivio d'altra parte ei loda con magnifiche parole gli ultimi anni di Guido, e il Convivio pare scritto nel 1308. O questo Canto era già composto, ed egli lo volle nel Convivio espiare; o piuttosto già scritto il Convivio, nuove voci e le

(1) Inf., XXI.—(2) De Off., I, 13. — (5) La Cronaca estense (Murat., XV, 377) chiama volpe quell' Uguccione, ch' altri vuole tanto ammirato da Dante.

ire nuove gli avranno consigliata la poetica dannazione,

Questo è il Canto delle contraddizioni o vere o apparenti che sieno. Detto che il cuore de' tiranni di Romagna è sempre in guerra fraterna, nomina i Polentani. Quand'e' scriveva, non aveva con Guido legame alcuno; nè il Poeta era uomo da perdonargli quella sua politica incerta e cupida, nè la cacciata ch'e' fecero degli Anastagi e de' Traversari lodati da Dante (1). Ma i Polentani anch'essi per opera di Martino IV perdettero la signoria, e nel 1290 la riebbero, e un arcivescovo dopo cinque anni li ricacciava, poi nel 1300 e' tenevano Cervia, non che Ravenna. L'arme loro era un'aquila mezzo bianca in campo azzurro, mezzo rossa in campo d'oro: avevano il nome da Polenta, piccolo castello prossimo a Brettinoro. Del resto, guardando ai modi la si cova e ricuopre co' suoi vanni (2), si vede che Dante li voleva distinti da que' delle branche verdi, da' Mastini che facevano de' denti succhio, e dal leoncello incostante. Poi tiranno non ha sempre mal senso; e il Villani chiama tiranno Castruccio da lui pur lodato. Con un Bernardino da Polenta, guelfo, combatte contr' Arezzo in Campaldino il Poeta nel 1289, e avrà da lui forse sentita più per minuto la storia di Francesca.

In questi due Canti, oltre alla similitudine lunga, ma elegantemente intrecciata d'imagini varie e belle, dico quella delle lucciole, ne abbiamo due più lunghe del solito, e ambedue accennanti a vendetta; che così pare la girasse allora al Poeta, L'una d'Eliseo che si vengiò cogli orsi; e poteva quella narrazione essere riguardata non come vendetta fatta di se dal Profeta sopra ragazzi insolenti, ma come una voce della giustizia che insegna a' giovani non deridere la vecchiaia, a' forti non accanirsi sui deboli, ai meglio dotati da natura non menare trionfo de' difetti altrui, a' destri a scendere non insultare a chi sale, agli umanamente furbi non dispregiare i divinamente ispirati. L'altra è del bue nel qual fu cacciato a rosolare chi primo lo fuse: e ciò fu dritto, dice il Poeta per far piacere a Falaride, e rammentando quel d'Ovidio: Neque enim lex æquior ulla, Quam necis artifices arte perire sua (3). Un'altra similitudine mezzo storica è quella di Silvestro chiamato da Costantino a guarir della lebbra che Fazio degli Uberti chiama vermo, quasi vaticinando, o piuttosto da tradizione antica deducendo l'origine della scabbia e d'altri simili mali.,Giovava notare nel verseggiatore geografo questa scoperta dell' acarus fatta senza microscopio nel microcosmo.

Mano mano che avanza, il poema arricchisce di allusioni erudite. Di geografia sino ad ora non abbiam trovato che cenni; nel Purgatorio vedremo pompa di geografiche notizie e di fisiche; il Para

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diso sarà quasi tutto teologico: ciò non solo perchè così richiedeva l'argomento, ma perchè con gli studii dell'esilio cresceva la dottrina, e l'amor di mostrarla a rimprovero insieme e ad onore della patria nemica. Se non che la geografia, qui come nel Purgatorio, era quasi inevitabile per dar a conoscere le diversità delle circostanze e la divisione del tempo nel quale finge il Poeta di ritrovarsi là giù negli antipodi. E a disporre a quella nuova scena l'imaginazione del lettore, mira forse il Poeta con questa parlata d'Ulisse. L'altra parlata inchiusa in questa d'Ulisse stesso a' compagni, che vuole imitare quella con che Enea inanima i suoi a sostenere l'esilio e l'incerto avvenire (che è più arduo viaggio e più feconda scoperta che quella di mondi nuovi), stentata dello stile e però del concetto tanto più alta della virgiliana, quanto portava il lume della verità rivelatasi a Dante. In bocca ad Ulisse gli è un anacronismo che fa a calci con la storia, ma un anacronismo nel meglio, non nel peggio, siccome tanti di quelli che noi facciamo, e che vorremmo fare se Dio ci lasciasse. Non era d'Ulisse il chiamare i compagni suoi fratelli ne frati, nè la vita picciola vigilia de'sensi (1), nè distinguere i sensi dal rimanente della vita, nè raccomandare che ad essa vita non si nieghi, quasi debito, l'esperienza del vero, e che si consideri la semenza umana come titolo di dignità comune e all'eroe semideo e a'suoi marinari, distinguere cosa per que' tempi più difficile ancora che il senso dal sentimento, la coscienza dalla virtù: distinzione tra l'intendere ed il volere, che, così netta come noi la veggiamo, è rivelazione cristiana, e spiega tanti misteri dell'umana natura, e che nel poema dantesco perciò appunto ritorna frequente. Confessiamo però che nella parlata virgiliana d'Enea a' suoi compagni, l'indeterminato per varios casus, per tot discrimina rerum (2), è più poetico nel modo e più artifiziosamente oratorio di cento milia perigli; e il dabit Deus, il fata ostentant, e il fas resurgere (che pure ha qui senso di fato, cioè nondi cosa soltanto che sia lecito credere ed operare, ma che religiosamente è da sperare e da compiere), sono bellezze più che pagane rivelate all'anima di Virgilio, e da meritargli quasi la lode datagli nella Commedia, che seppe tutto. Bellezze men alte ma moralmente profonde e d'arte più che oratoria sono in que' pochi versi di Virgilio altresì le seguenti: il non dissimulare la gravità de' mali passati, e farne argomento a speranza; e richiamando il coraggio de' primi tempi con la pietà e con la lode meritata, rinfrescare gli spiriti: Neque enim ignari sumus ante malorum, O passi graviora (3); il trasportare nell' avvenire più lieto i pensieri stanchi,

(4) Picciola vigilia - orazion pi cciola - compagna picciola; tre piccoli in si piccolo spazio. Non nella fuga di tali minuzic pongono la bellezza gli scrittori grandi. (2) En., I. — (3) E n., 1.

e consolarli colla speranza della memoria del male passato, il quale se sostenuto fortemente si muta in piacere, meminisse juvabit: il temperare con un forsan le troppo audaci speranze, acciocchè non inebriino l'anima e non tolgano il merito della fede e della pazienza, e acciocchè, se deluse, non si convertano in rimproveri al vano confortatore, e agli afflitti in dolore più acuto: lo scusare quasi il senso del timore con quello del dolore chiamandolo mesto con aggiunto potente: il rappresentare la costanza di chi patisce come un risparmio ch'e' fa delle forze proprie e del proprio destino a tempi migliori e a consumazione di doveri più alti: vosmet rebus servate secundis (1); finalmente il proporre in lontananza la futura prosperità, non tanto come un riposo da' mali proprii, quanto come un adempimento dell' eterno destino, un nuovo esercizio di rassegnazione alla legge superna. Le quali cose se tutte non erano ad una ad una chiaramente distinte nel pensiero del Poeta meditante que' versi, sono però ne' suoi versi espresse ed impresse lucidamente.

I due Canti che dannano l'abuso dell'ingegno, incominciano da una delle solite note inserte nel testo, ma nota potente: E più lo ingegno affreno ch'i' non soglio. Questo verso c'è indizio della natura di Dante, ingegno ardito ma frenato dal senso del dovere: caldo talvolta di febbre superba, ma sdegnoso di volpini accorgimenti: si compiace nell'ira, nell'odio, nella vendetta: ma le villane significazioni della rabbia impotente non loda. Breve ed arguto nel dire, non bugiardo; nemico degl'ipocriti, aperto a' sapienti, come specchio che rende le imagini delle cose di fuori. Sorride dignitoso alle umane follie, ama talvolta dipingere le bassezze de' tristi; ma ben presto s'innalza e piange fin sui meritati dolori. Docile all'autorità de' grandi, riverente all'autorità della Chiesa; si scusa fin d'atti apparentemente audaci, ma osati a fin di bene; l'adulazione gli è in odio; la costanza nelle avversità gli desta maraviglia fin ne' malvagi, quardo provocatrice non sia. Ogni vero che ha faccia di menzogna egli evita: egli negli studii s'affanna e suda; quasi scultore, modella e intaglia e pulisce le opere sue. Negli amori invescato; da ogni avarizia aborrente, e ancor più da ogni invidia. Amante della lode, si loda da sẻ; ma i proprii falli confessa e degli amici suoi. Sdegna i beni della sorte e al dolore di lunga mano s'apparecchia. Ama conoscere nuovi uomini e nuove cose, ma le prime consuetudini gli son care, e le prime amicizie. Tutto ciò che è alto e gentile nella umana natura, riconosce, e lo venera dove che sia, e ad uomini tali ubbidisce e teme i rimproveri loro. Ama la gravità nella voce, negli sguardi, negli atti: teme che il tempo non gli passi perduto.

(1) Æn., I. wwww

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Soltentra a parlar co' Poeti il conte Guido di Montefeltro: Dante gli espone lo stato della Romagna, al principio del secolo: e Guido, non si credendo di parlare ad un vivo, gli confessa il consiglio che ha dannato. Il Canto è pieno di memorie coetanee, e bellissimo. Quanto sia giusta la domanda di Guido se i Romagnuoli avessero pace o guerra, sel vede chi rammenta le discordie che agilarono Romagna per tutta la vita di Guido, delle quali fu egli stesso gran parte.

1

Nota le terzine 1, 4, 6, 9, 13, 15, 18, 20, 22, 27, 29, 32, 33, 36, 37, 41, 42, 44.

1. Già

era dritta in su la fiamma, e queta, Per non dir più, e già da noi sen gia Con la licenzia del dolce poeta:

2. Quando un'altra, che dietro a lei venia, Ne fece volger gli occhi alla sua cima Per un confuso suon che fuor n'uscia.

3. Come 'l bue cicilian, che mugghiỏ prima
Col pianto di colui (e ciò fu dritto)
Che l'avea temperato con sua lima,

4. Mugghiava con la voce dell'afflitto,
Si che, con tutto ch'e' fosse di rame,
Pure el pareva dal dolor trafitto;

5. Così, per non aver via nè forame,
Dal principio del fuoco, in suo linguaggio
Si convertivan le parole grame.

6. Ma poscia ch' ebber colto lor viaggio Su per la punta, dandole quel guizzo Che dato avea la lingua in lor passaggio; 7. Udimmo dire: - O tu a cui io drizzo La voce, che parlavi mo lombardo, Dicendo: Issa ten va: più non t'aizzo • 8. Perch' i' sia giunto forse alquanto tardo, Non t'incresca ristare a parlar meco. Vedi che non incresce a me e ardo. 9. Se tu pur mo in questo mondo cieco Caduto se' di quella dolce terra Latina, onde mia colpa tutta reco; 10. Dimmi se i Romagnoli han pace o guerra; Ch'i' fui de' monti là intra Urbino E' giogo di che Tever si disserra.

1. (L) DRITTA. Parlando si dimenava.

(SL) QUETA. Æn., VI: Flamma quievit. — LICENZIA. V. terz. 7.

3. (L) CICILIAN: siciliano. - COLUI: Perillo. -DRitto: giusto. LIMA per ogni strumento fabbrile.

(SL) BUE. Perillo costrusse un toro di rame e ne fece dono a Falaride, vi facesse morire i condannati sottoponendovi fiamma viva. Falaride vi cacciò Perillo per primo. Dante lesse questo fatto in Valerio Massimo, in Orosio, ne' Tristi (III, 11), in Plinio (XXXIV, 8). TEMPERATO. Petr.: L'armi... temprate in Mongibello. LIMA. Petr.: Nè ovra da polir con la mia lima.

4. (L) AFFLITTO: messovi a ardere.-EL: egli, il toro. (SL) MUGGHIAVA. Claud. In Eutr. I: Primus inexpertum, Siculo cogente tyranno, Sensit opus, docuitque suum mugire juvencum. Come Perillo nell' abuso dell'arte propria trovò sua pena, così è de' consiglieri di frode. EL. Bocc.: Perch'el passasse.

---

Som. Igne affligi.

5. (L) PRINCIPIO: lingua, cima.

AFFLITTO.

(SL) FORAME. Lucan., IX: Quæcumque foramina

PRINCIPIO.

novit Humor, ab his largus manat cruor. — Nel Purgatorio chiama principio la cima d'un monte. 6. (L) VIAGGIO: via. AVEA in vita. (SL) VIAGGIO. Æn., VII: Vocis iter.

7. (L) Tu: Virgilio.

Mo: ora. - ISSA TEN VA: PIÙ NON T'AIZZO: or va va; più non ti stimolo a dire.

(SL) DRIZZO. Dante, Canz.: Il parlar della vita ch'io provo, Par che si drizzi degnamente a vui. — Issa. Inf., XXIII, t. 3. Modi lombardi. Or come Virgilio parlava lombardo ai Greci ? Non perchè i suoi genitori lombardi (Inf., I), ma per lombardo intendesi forse italiano (Purg., XVI, t. 16 e 42).

8. (L) PERCH': ancorchè.

(SL) [VEDI. Preghiera piena di passione e d'affetto.] 9. (SL) DOLCE. Æn., IV: Dulces....... relinquere terras. X: Dulces moriens reminiscitur Argos.

10. (L) LÀ INTRA URBINO E 'L GIOGO...: Montefeltro, città tra Urbino e le sorgenti del Tevere.

(SL) DISSERRA. Acios., XXXI: Guicciardo al corso si disserra. - Disserrarsi dice il Sacchetti (Nov. XXI ) degli asini.

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