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Sovra tutto 'l sabbion d' un cader lento

Piovean di fuoco dilatate falde,
Come di neve in alpe senza vento.
Quali Alessandro in quelle parti calde
D' India vide sovra lo suo stuolo
Fiamme cadere infino a terra salde,
Perch' ei provvide a scalpitar lo suolo

Con le sue schiere, perciocchè 'l vapore
Me' si stingueva, mentre ch' era solo;
Tale scendeva l' eternale ardore,

Onde la rena s' accendea, com' escal
Sotto 'l focile, a doppiar lo dolore.
Senza riposo mai era la tresca

Delle misere mani, or quindi or quinci
Iscotendo da sè l' arsura fresca.

istituir le ragioni in ordine inverso: pe- e il secondo:
rochè sembra che di bestemmiatori sia
grandissima greggia, e di usurai ben più
che di sodomiti.

29. Piovean di fuoco ec. Nell'ORRIBIL SABBIONE Sono i sodomiti: agli empi e agli usurari non si può dare minor pena che il fuoco. Questo è fatto ministro della divina Giustizia. Salm. CIII, 4: Qui facis angelos tuos spiritus: et ministros tuos ignem urentem. L'ira di Dio ha per istromenti di sua vendetta tutti gli elementi, la grandine, il vento, le procelle ec. e con ispezialità la folgore e il fuoco, come il favoloso Giove. Salm. CIV, 32. Posuit pluvias eorum grandinem: ignem comburentem in terra ipsorum. ČV, 18... Flamma combussit peccatores. CXXXIV, 7. Fulgura in pluviam fecit. X, 6. Ignis el sulphur et spiritus procellarum pars calicis eorum. Ezech. XXXVIII, 22. Ignem et sulphur pluam super eum. E così in moltissimi luoghi delle scritture sante.

30. Concetto tratto da Guido Cavalcanti, o dal suo contemporaneo Francesco Ismera; il primo avendo detto: Aere sereno, quando appar l'albore

E bianca neve scender senza venti, Rivera d'acqua, e prato d'ogni fiore, Oro e argento, azzurro in ornamenti Passa la gran beltade e la piacenza Della mia donna.

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Veder fioccar la neve senza venti ec. Neiente è ver mia donna al mio parere. 40. TRESCA; veloce movimento. Barg. Ballo antico intrecciato con veloce movimento di persone: qui per molo frequente, e inquieto. Venturi. Il Mazzoni deriva la voce dal Basco Trisca, romo

re. In un antico dizion. dell'Ouden Lion. 1675: TRISCA, ballement de main, gestes de main que l'on fait en se jouant. Nel Sobrino si legge spiegato il vocabolo per fracasso o strepito che si farebbe da chi camminasse su per gusci d'uova, di noci o di nocciuole; su nicchi di conchiglie o di lumache; su de' cocci, o frantumi di vetro ec. S' inferisce che Tresca significasse dapprima romore e battimento di mani; indi gesti e battimento di mani per allegrezza; poscia battimento di piedi e danza. L'aggiunto di misere, che il Poeta dà a mani, dimostra chiaro che il loro battimento si faceva per tutt'altra cagione, che di allegrezza: quindi la voce vi è adoperata in senso ironico, come il misero modo, di che altrove dicemmo (Inf. III, 34 not.).

42. ARSURA FRESCA. Arsura che successivamente pioveva sempre senza mai cessare, come se di fresco pure allora cominciasse. Barg. Fresca vale qui il recens de' latini.

Io cominciai: Maestro, tu che vinci
Tutte le cose, fuor che i Dimon duri,
Ch' all' entrar della porta incontro uscinci,
Chi è quel grande, che non par che curi

Lo 'ncendio, e giace dispettoso e torto
Si, che la pioggia non par che 'l maturi?
E quel medesmo, che si fue accorto

Ch' io dimandava 'l mio Duca di lui, Gridò: qual io fui vivo, tal son morto.

45. Nel Parad. XXVIII, 103,notammo, sulla voce terminonno, che gli antichi formarono la terza persona plurale del perfetto dalla terza singolare aggiungendovi no. Così qui uscinci è lo stesso che usci-no-ci, dove uscino vale uscirono. Vero è che poi raddoppiatasi l'n si disse uscinno; ma questa forma non avrebbe patita la sincope; epperò uscinci è propriamente uscinoci, lasciatovi l'o fuori. E così, per altro esempio, là dove nel Quadriregio, Lib. II, Cap. IX, il Frezzi dice:

Allor li vizi preson le corone

Delli reami, e leggi inique e rie Tesen per lacci, e levòn via le buone. quel levòn è da levò che, messovi no, fece levòno e levonno; ma delle due la prima forma può sincoparsi non già la seconda.

46 seg. CHI È QUEL GRANDE.......? Lo dice Virgilio ne' vv. seguenti 68-70. Tra la domanda di Dante e la risposta del suo Duca interviene la smargiassata di Capaneo. Tratto che dipinge con divina poesia il carattere di quel superbo sprczzator di Giove. (V. Inf. VI, 48 not.).

GIACE: perchè si levò contro la divinità ed omnis qui se exaltat humiliabitur. Può esser anche il Poeta abbia voluto riferirsi al non resurgent impii in judicio (Salm. I, 5): poichè più secoli dopo Dante venne il nostro Saverio Mattei a dimostrare qual fosse la vera sentenza che, secondo la forza della locuzione ebraica, sta chiusa in queste parole (a). DISPETTOSO E TORTO. Vedi come

(a) Non resurgent ec.vale non stabunt in iudicio; cioè perderanno la causa, subito saran condannati...; non potranno opporsi, causa cadent..., non potranno più risorgere; non potranno appellarne, non avranno più speranza di

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canta Lapo Gianni amico del nostro poeta:

Con si fieri sembianti mi disdegna
Che par che 'l mondo e me aggia a niente (b).

48. MARTURI, da marturiare per martoriare leggono il Bargigi, il Bartolinia

no ed altri 21 testi riscontrati dal Viviani. Molti han ritenuta questa lezione per la quale la feroce impassibilità di Capaneo è meglio dipinta. G. Zacheroni. Ma l'altra variante MATURI, ch'è della 2a Rovilliana, Lione 1551, dell'ediz. di Jacopo del Burgofranco, Ven. 1529 e di moltissime altre antiche; seguita eziandio da G. B. Niccolini, dal Borghi, dal Capponi ec. dal Venturi, dal Volpi, dal Lombardi, e da molti altri, non manca nè di forza, nè di autorità. Il Tommaseo chiosa: MATURI. Acerbi diconsi gli orgogliosi: ACERBO è contrario di MATURo, e la pioggia ammollisce le frutte cadendo. Può anche notarsi che la pioggia di grandine acqua tinta e neve fiacca Ciacco e i crapuloni anche giacenti per terra: quest'altra piaggia,tuttochè di fuoco, non ammorza la superbia (v.63) di Capaneo, e nol malura. Non la pioggia ma la rabbia gli è martirio e dolor compito (v. 65).

nuove difese. Libri poetici della Ribb. vol. I, pag. 21. Nap. stamp. Simoniana 1767.

(b) L'idea del non curare i martiri, eccola nello stesso rimatore.Canz. Donna, se'l prego ec. lo posso dir ched ei (i sospiri) sian poderosi In ciascuna battaglia voi vincendo, Per lo durar ch'anno fatto soffrendo, Si che per uso non curan tormento, Nè son di ciò tementi e paurosi. Donna, voi li gabbate sorridendo, E vedete la lor vita morendo Con sofferenza far riparamento; E tanto soffriranno nel penare Che vi rincrescerà il martoriare.

Se Giove stanchi il suo fabbro, da cui
Crucciato prese la folgore acuta,
Onde l'ultimo di percosso fui;

E s'egli stanchi gli altri a muta a muta
In Mongibello alla fucina negra,
Gridando: buon Vulcano, aiuta aiuta,
Si come el fece alla pugna di Flegra,
E me saetti di tutta sua forza;
Non ne potrebbe aver vendetta allegra.
Allora 'l Duca mio parlò di forza

Tanto, ch' io non l' avea si forte udito:
O Capaneo, in ciò che non s'ammorza

52. SE GIOVE STANCHI ec. Vuol dire in sentenza che tutte le folgori scagliate da quel Nume ad atterrare i Giganti, che soprapponendo monte a monte si fecero scala per montare all'Olimpo e detronizzarlo, non basterebbero a fare ch'egli si tenesse vinto da lui.

59. DI TUTTA SUA FORZA, intendiam noi: con la sua onnipolenza. Giove è detto Pater onnipotens (V. Inf. VI, 96). Vi disfido, dice il Sacchetti, di tutta mia forza; ma la forza d' un uomo non è quella d'un Nume (V. v. 61 not.). Meritamente la Ragione s'infiamma, in vedere la superbia mortale levarsi matta contra Dio.

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61. Nota lo stesso vocabolo in rima. Qui la forza è di voce; più su di violenza e celerità, onde si scagliano le folgori. Ed anche l'eloquenza ha i suoi fulmini. Ad intender bene questo parlar di forza, che fa Virgilio, s'attenda al seguente passo di Frate Guidotto da Bologna. Il dicitore, che vuole la sua boce conservare ferma quando favella, dee nel suo favellare quattro cose osservare. La prima, che cominci il detto suo pianamente é soave (a), perchè si percuo

(a) Vedi quanto bene di Beatrice Virgilio narra (Inf. II, 56 seg.):

E cominciommi a dir soave e piana
Con angelica voce in sua favella.
La frase risponde a un precetto di declama-
zione.

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te l'organo e guastasi la boce se, anzi che ausi la boce consolata e piana, colui, che favella, comincia DI FORZA ɑ favellare o gridare ec. Ma Virgilio vi pose tutta quanta la voce sua, perchè breve il sermone; e levolla acuta come a ferire l'empietà, che non ode, nè cura argomenti di Ragione.

62. NON L'AVEA SÌ FORTE UDITO. Tal convenivasi, poichè l'empietà e l'ostinarsi in essa e il menarne vanto è il maggior peccato; epperò degno di più grave rimprovero. Men forte parlò alla superba labbia di Pluto: Perchè, dice il Tommaseo, l'empietà è peggior cosa dell' avarizia, e Virgilio è il poeta de'pii.

63-64. La superbia, ch'è in te qual fiamma viva che non s'ammorza, fa la tua maggior punizione. Quel superbo sprezzator di Giove non meglio può venir punito che lasciandolo in preda del proprio furore, effetto della vana superbia che fecelo stoltamente levare al di sopra della propria natura, ed arrabbiare poi quando per forza fu messo in istato di riconoscersi inferiore al Nume. La superbia si leva alto come la fiamma: ecco perchè usata la voce ammorzare; ed ecco perchè va punita per altre fiamme, che in opposta direzione fioccano Omnis qui se exaltat humiliabitur. Oracome falde di neve sul capo di Capaneo:

zio (Lib. IV, Od. 5): Culpam poena premit comes; perchè non solo l'è sempre dappresso, ma anche perchè la opprime e la schiaccia.

IN CIÒ CHE ec. Questa locuzione re

La tua superbia, se' tu più punito:

Nullo martirio, fuor che la tua rabbia, Sarebbe al tuo furor dolor compito. Poi si rivolse a me con miglior labbia, Dicendo: quel fu un de' sette regi,

Ch' assiser Tebe; ed ebbe, e par ch' egli abbia Dio in disdegno, e poco par che 'l pregi: Ma, com' io dissi lui, gli suoi dispetti

dammo noi dal Latino. Cicer. (Off. I, cap. XXI, 71): In eo quod gloriam contemnant et pro nihilo putent, difficile factu est non probare. In ciò che spregiano ed han la gloria a vile ec. cioè: Nel disprezzo e non curanza della gloria ec. Or così il costrutto: In ciò che non s'ammorza la tua superbia ec. equivale all'altro: Nella tua sempre viva, o indomita superbia ec. Virgilio parla per tal guisa, usando un modo tutto proprio della sua favella, e che trasfuso alla nostra hassi a tenere in conto.

66. COMPITO, perfetto, cioè di nulla mancante per quel ch'esser debbe.Tommaso Buzzola, che fiorì verso il 1280, e fu lodato anche dal nostro Poeta nel volgare Eloquio (Lib. I, cap. XIV), invece che dolor compito, avea detto, in una

sua canzone:

Ben mi credetti aver gioia compita. 67. CON MIGLIOR LABBIA, con più mansuete parole, e con più sereno viso. V. Inf. VII, 7 not.

68. Fu l'un de' sette REGI ec. Capanèo, Adrasto re degli Argivi, suo suocero, Tiddeo, Ippomedonte, Anfirao, Partenopeo e Polinice. In favore di quest'ultimo tutti posero assedio a Tebe per rivendicargli il dritto di regnare che aveva tenuto per sè solo il fratello Eteocle (V. Stazio). Capanèo nobilissimo di sangue e quanto della persona valoroso, tanto superbo di cuore, montato sulle mura della città e nella vittoria, superum contemptor et aequi, venne fulminato da Giove.

70. DISDEGNO. Avere in disdegno val dispregiare ec. Bono Giamb., Giard. di Consol. cap. I. Ogni peccato è superbia imperò che facendo le cose vietate, hae in disdegno le comandamenta vietate

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da Dio... La superbia... de levamento mortale della mente, la quale suo pari e suo minore hae a dispregio, e vuole ai suoi maggiori signoreggiare. Vedi adunque quanto ben detto par ch' egli abbia Dio in disdegno e poco par che il pregi; perciocchè la superbia della creatura non può propriamente levarsi contro l'Altissimo. Lucifero disse similis ero e precipitò nelle tenebre. Capanèo non isdegna Giove, dice solo che tutt' i suoi fulmini non farebbero ch'ei si chiamasse vinto; è il sentimento della propria libertà e del proprio volere, l' individualità che, fin quando non sia annientata, può dire: io voglio che volli; io sono la mia volontà: ciò può esser contro l'ordine, quindi grave colpa; ma non contro la natura dell'umana spontaneità. Anche di Messer Farinata (Inf. X, 35) è detto, ch'egli:

s'ergea col petto e colla fronte Com'avesse lo Inferno in gran dispitto. 71. COME DISSI LUI. LUI, taciuto il segnacaso a. Vedi Inf.1, 81, not. DISPETTI, dispregi (Inf.X,36). È il partic. pass. del lat. Despicere ch'è despectus preso come sustantivo (V.Parad.V,49). Addiettiv. il nostro (Inf. IX, 91):

O cacciati del ciel gente dispetta. cioè dispregiata, avuta a vile ec. Inf. X, 36:

Come avesse l'inferno in gran dispitto. Nulla per forza di rima. Eccone esempi in prosa. Brun. Latini, Rettor. Lib. I: Da esse cose (s'acquista benevolenza) se noi per lode innalzeremo la nostra caus sa e per dispetto abbasseremo quella degli avversari. Egid. Colonn., Govern. de' princ. Lib. I, part. IV, cap. VI: I ricchi uomini si vantano ed hanno gli altri in dispetto; e la ragione si è, che i ricchi perciò ch'ellino veggono che gli

Sono al suo petto assai debiti fregi. Or mi vien dietro, e guarda che non metti Ancor li piedi nella rena arsiccia;

Ma sempre al bosco gli ritieni stretti. Tacendo divenimmo là 've spiccia

Fuor della selva un picciol fiumicello, Lo cui rossore ancor mi raccapriccia. Quale del Bulicame esce 'l ruscello,

Che parton poi tra lor le peccatrici; Tal per la rena giù sen giva quello. Lo fondo suo ed ambo le pendici

Fatt eran pietra, e i margini da lato; Perch' io m' accorsi che il passo era lici.

allri uomini hanno necessità de' beni, i quali ellino hanno, sì n'hanno 'l cuore più orgoglioso, e credono essere signori, e perciò hanno gli altri in dispetto quasi come fossero neuna cosa. Bon. Giamb., Form. on. vit.: Dunque se tempo è di giucare, portati secondo tua dignità saviamente, sì che nullo ti riprenda che tu sii aspro, che nullo ti dispregi e tenga a vile, dispettandoli per troppo fare. Contin. X: Tu credera' che tutti gli uomini sieno pari di te, se tu non dispetti li più poveri per orgoglio, e se tu non dotti (temi) li più grandi per dirittura di vita. Ivi XII: Non avere in dispetto lo poco senno d'alcun uomo. Dunque nonchè despitto, dispilto o dispetto per dispregio; ma e dispettare per dispregiare ec. fu adoperato da' padri di nostra favella.

72. Questo verso riassume la sentenza compresa nelle parole dette a Capaneo; poichè (v. 70) ciò esprime il motto: COM'IO DISSI LUI; cioè, la superbia che non si ammorza è degno tormento di sè medesima. Dice: AL SUO PETTO come altrove è detto a Pluto (Inf. VII, 9):

Consuma dentro te colla tua rabbia.

Epperò la interpunzione del Tom

maseo:

Sono, al suo petto assai debiti, fregi non è che un contro senso: -perocchè dispregi di Capaneo tornano sopra lui stesso, e non son onori che ad altri si facciano, ma di cui è degno egli solo.

74. ANCOR: si dia al verbo GUARDA, e

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la sentenza sarà: seguimi e bada pure che tu non metla i piedi nella rena arsiccia. Così l'intende il Torelli. Altri prende ancora in sentimento di per adesso, ma sull'arena infuocata Dante non lasciò suo vestigio, nè prima, nè poi.

Macrobio spiega per ardor irarum et 77. UN FIUMICELLO. Flegetonte, che cupiditatum.

78. ANCOR MI RACCAPRICCIA è frase non dissimile di quell'altra (Inf. I):

Che nel pensier rinnova la paura. Il Bargigi: Ancor ricordandomi, mi raccapriccia, mi fa il capo riccio facendomi per orrore i capelli arricciare in capo.

79. BULICAME è laghetto d'acqua rossiccia e bollente, a due miglia da Viterbo. Questo stesso nome danno i Toscani ai Lagoni, che con solterraneo gorgoglio e bulicamento balzano a scatti dal suolo fangoso, e levano un fumo che par da lontano una nuvola bianca. Tommaseo. Il Poeta chiama bulicame (Inf. XII, 28, 47).

La riviera del sangue, in la qual bolle
Qual che per violenza in altrui noccia.

82-83. LE PENDICI, cioè le sponde delle rive che pendevano sopra il rudallato delle rive, quel che si suol passcello... I MARGINI DALLATO, il piano seggiare. Bargigi. FATT'ERAN PIETRA:cioè dapprima arena, come quella del sabbione, divenuta era pietra, impietrita, petrificata. Facta erant, da fieri; quindi lo

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