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meno felici di lei si pensava. E lasciando ben volentieri di parlar di me, ritorno a Dante, e grido secolui:

O voi che avete gl' intelletti sani
Mirate la dottrina che s'asconde
Sotto il velame delli versi strani.

"Fanno queste parole direttamente contro ad alcuni, li quali, non intendendo le cose nascoste sotto il velame di questi versi (del poema), non vogliono che Dante abbia altra cosa intesa se non quello che semplicemente suona il senso letterale; li quali per queste parole possono manifestamente comprendere l'autore aver inteso altro che quello che per la corteccia si comprende."-(Boccaccio, comento al citato passaggio.)

CAPITOLO V.

PRINCIPALE ALLEGORIA DELL' INFERNO DI DANTE.

L'ALIGHIERI nel mandare il poema a Can Grande della Scala, suo protettore e capitano della Lega Ghibellina in Italia, così glie ne indicava la natura: "E` da sapere che il senso di quest' opera non è già semplice, che anzi essa può dirsi di più sensi: dappoichè, altro è il senso che si ha dalla lettera, altro è quello che si ha dalle cose per la lettera significate: il primo si chiama letterale, il secondo allegorico.-Ciò scorto, è manifesto che DUPLICE dev' essere IL SOGGETTO circa il quale i due sensi alternamente procedono. E però è da vedere prima del soggetto di quest' opera, preso giusta la lettera, e poi del soggetto stesso, preso giusta la sentenza allegorica. Adunque, il soggetto di tutta l'opera, secondo la semplice lettera, è lo stato delle anime dopo la morte. Ma, se ben notasti le espresse parole, puoi ben raccorre che, secondo il senso allegorico, il poeta tratta di QUESTO INFERNO, nel quale, pellegrinando come viatori, possiamo meritare e demeritare. Allegoricamente il soggetto è l'uomo, a misura che, meritando o demeritando per la libertà del suo arbitrio, divien degno di premio o punizione "a.

Nel Convito poi, sua opera dottrinale in prosa volgare, ei considera gli uomini viziosi come tanti morti, giusta quella sentenza dell' Apocalisse al vizioso pastore di Sardi: "Hai nome di vivo e pur sei morto.”

* Vedi le parole originali di Dante nella nota (E), alla fine del volume. b Nomen habes quod vivas et mortuus es.—Apoc. iii. 1.

Egli, nell' esporre ivi con raziocinio scolastico quel suo verso,

"Ch' ei tocca un tal ch'è morto e va per terra,"

così si esprime: "A maggiore addottrinamento dico questo cotale vilissimo (il vizioso) essere morto, parendo vivo. Dov'è da sapere che veramente morto il malvagio uomo dir si può. Vivere nell' uomo è ragione usare; dunque se il vivere è l'esser dell' uomo (cioè ragione usare), così da questo uso partire è partir da essere, e così esser morto." (Tratt. IV.) Ben dicono i sommi critici che il Convito di Dante vale ad illustrare molte cose della Commedia sua. Secondo la teoria da lui qui esposta, colui dal quale tutti i vizj di quel tempo procedeano, era il capo de' morti. E udimmo da quel trovator provenzale che dipinse la sede di Roma au fond de l' Abime, aggiungersi, "Celui-là est mort qui se soumet à sa domination."

Una delle molte industrie per le quali il nostro cantore enigmatico è giunto a nascondere l' interna essenza del suo poema, questa: Allontanare per posizione le parti correlative, e raccostarle insieme, per mezzo d' indizj e legami quasi impercettibili; di che cominceremo a dar pruove.

Ci si concederà che in queste due espressioni, "il Mondo presente "-"il Tempo presente," le due parole Mondo e Tempo si equivalgono nel senso, e posson dirsi sinonimi. Ciò posto: Dante nel Purgatorio domanda ad uno spirito, onde derivasse che il mondo fosse così privo di virtù e gravido di malizia . E fa rispondersi da quello spirito: Ben puoi vedere che la mala condotta è la cagione che ha fatto REO IL MONDO. Quando Roma avea due luminari (l' Imperadore e'l Papa), che mostravano le due vie, quella del Mondo e quella di Dio, Roma produsse il BUON TEMPO: ma poichè l' uno ha spento l'altro (il Papa ha ecclissato l'Imperadore) è accaduto il contrario; poichè la gente che vede il suo guidatore spirituale

"Un libro sì necessario all' intelligenza di molti luoghi della Commedia,"-così il Ch. Monti chiamò il Convito, nella lettera premessa al saggio della correzione a quel libro.

Lo mondo è ben così tutto diserto

Ma

D'ogni virtute, come tu mi suone,
E di malizia gravido e coperto;

prego che m' additi la cagione.—Purg. xvi.

* Ben puoi veder che la mala condotta

E la cagion che il Mondo ha fatto reo.-ivi.

d Soleva Roma che'l buon Tempo feo

Due Soli aver, che l'una e l'altra strada
Facean vedere, e del Mondo e di Deo.
L'un l'altro ha spento, ed è giunta la spada
Col pasturale; e l'una e l'altro insieme
Per viva forza mal convien che vada.-ivi.

intento solo a predare quel bene temporale, ond' ella medesima è ghiotta, di quello si pasce, e non chiede più oltre, negligendo così gli spirituali beni, per mal esempio ricevuto dal suo capo. La Chiesa di Roma è dunque la cagione di tanta depravazione 2. Ella, per aver confuso i due reggimenti, e quel ch'è suo e quel ch'è usurpato, cade nel fango de' vizj, e ne brutta sè stessa e quanto in lei si appoggia.—Ë nel Purgatorio stesso più chiaramente dice che IL CAPO REO torceva IL MONDO dalla via dritta. Quindi è chiaro il concetto di Dante, e risulta spiccato dalle sue parole: Roma buona avea prodotto il TEMPO BUONO; Roma rea ha prodotto il TEMPO REO; perchè il CAPO REO, nel quale il Tempo si specchia, gli dà l'esempio della depravazione.

Or tutto l'Inferno dantesco ha per principale elemento IL TEMPO REO, quello che il Boccaccio notò come origine di tutti i fiumi tartarei dal poeta descritti. Il vate Ghibellino lo presenta nel Canto XIV sotto l'aspetto d' un gran colosso.composto di varj metalli, corrispondenti alle varie età, dette d'oro, d'argento, di rame, di ferro. Ma dove guarda quel TEMPO REO che versa tutto il suo prodotto nell' Inferno? In qual luogo si specchia egli come suo esemplare?

E' Roma guarda sì come suo speglio.-Inf. xiv.

Dante nell' Inferno stesso dice che il Vangelista, scrittor dell' Apocalisse, nel mirar Colei che siede sopra l'acque, vide una figura de' papi pervertiti. (Inf. xix.) Colei è la meretrice magna quæ sedet super aquas multas, e quelle acque son figure di genti: Aquæ quas vidisti, ubi Meretrix sedet, populi sunt et gentes (xvii. 15); dunque le acque che il Tempo reo produce, nello specchiarsi in Roma corrotta, son figure di genti corrotte, "la gente che sua guida vede." Seguiamo il corso di quelle acque, e vediamo dove vanno a far capo. Esse vanno a ristagnarsi in fondo al pozzo d' Abisso, ove siede Satanno "in su che Dite siede." (Inf. ix.) Questo pozzo è cinto da un gran muro, e il muro da una vasta fossata; questa fossata è di ventidue miglia di circuito, e quel muro di undici miglia. Or la fossata esterna delle mura di Roma (vera o immaginaria che

a Perchè la gente che sua guida vede

Pure a quel ben ferire, ond' ella è ghiotta,

Di quel si pasce, e più oltre non chiede.—

Di' oggimai che la Chiesa di Roma,

Per confondere in se due reggimenti,

Cade nel fango, e sè brutta e la soma.-Purg. xvi.

Parla d'una famiglia virtuosa, in mezzo alla general depravazione, e dice:
Che benchè 'I CAPO REO lo Mondo torca,

Sola va dritta, e'l mal cammin dispregia.-ivi. viii.

fosse) è detta dai contemporanei di Dante essere di ventidue miglia, precisamente; e le mura di Roma erano e sono di undici miglia, all' incirca 2. Quindi è chiaro che il Tempo reo guarda come suo specchio quel luogo reo ch'è meta alle sue acque o genti, cioè quella figurata Roma "in su che Dite siede." Le acque tornano al gran fonte, fisica teoria; e le genti corrotte alla sorgente della loro corruzione, allegorica immagine: vanno, cioè, colà dove la infernal potestà siede sopra l' acque.

Il vizio caratteristico della corte papale era l'avarizia; ben mille lo scrissero, e Dante con gli altri. E il demonio dell' avarizia nel vedere scender Dante nell' Inferno gli gridò:

PAP' è SATAN, PAP'è SATAN Aleppe.—Inf. vii. ".

Tutti spiegano che Aleppe, nato dall' ebraico Aleph (come Gioseppe da Joseph), suona principe; onde quel demonio grida, Pap' è Satan, Pap' è Satan, principe di questo Inferno.

Prima d' incalzare la dimostrazione, faremo qualche osservazione. Questo verso, che ha fatto impazzire tutti gl' interpreti, fu finalmente dichiarato inintelligibile: ora capiamo che significa. Quelle due misure furono sempre credute poste a capriccio: ora ne vediamo l'allusione. E si noti che sono le due sole misure che s' incontrano in tutto l'Inferno dantesco, e che non derivano nè da dimensione geografica, nè da dottrina scritturale; ora può scorgersi da che derivano. E ora può intendersi l'origine di altre allusioni a Roma, e al suo Gerarca.

Il pozzo d' Abisso, punto centrale della region delle frodi preseduta dal demonio Gerione, è cinto da fossate, e una catena di ponti successivi mena al gran muro di quel pozzo; e Dante rassomiglia le dette fossate a quelle che cingono una città fortificata; i detti ponti a quelli che menano alla città medesima; e i dannati che varcano sotto il primo ponte gli assimila a coloro che varcano il ponte di Castel Santangelo in Roma, e vanno

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Il primo verso è di Dante, il secondo di Fazio degli Uberti suo imitatore; il primo segna l'estensione della vallata d' Abisso (Inf. xxix); il secondo segna l'estensione della fossata di Roma (Dittam. lib. ii. cap. 31.)

Con tutto ch' ella volge undici miglia

Così Dante della muraglia del pozzo d' Abisso (xxx).

Le mura di Roma sono da undici a dodici miglia.

Così il Nibbi delle "Mura di Roma," pag. 235; e prova che una tal dimensione risulta dalla loro costruzione, che vanta una data precedente di molti secoli a quello di Dante. "Le mura odierne...sono le stesse che quelle di Onorio.”—ivi, ediz. di Roma, 1820.

Pape si legge nelle moderne, Papè in varie antiche edizioni; e l'interprete ha mostrato, con molti esempj di parole simili, che dev' essere scritto Pap' è.-Vedi il Comento Analitico.

a Santo Pietro 2. Noi non possiamo qui mostrare chi figuri quel demonio delle frodi, detto GERIONE, qui tribus unus erat (Ovid.); ricordiamo solo che anche il suo Satanno tribus unus est. Nè possiamo indicare a che alludono que' ponti a cui presiede quel demonio; ricordiamo solo un' etimologia assai nota, Pontifex a pontibus faciundis.

Famose erano le 734 torri della mura di Roma di cui parla Plinio, e al tempo di Dante più che la metà ne rimanea in piedi. Queste torri fecero fare varie allusioni a quelle di Babilonia, e Dante pur ne fece. Il muro che cinge l' Abisso si corona di visibili torri, come

Montereggion di torri si corona.

Quindi, fra quella caligine,

A lui parve veder molte alte torri;

e domandò, che città è questa? Che terra è questa ?' Il suo duca allor gli rispose:

Sappi che non son torri, ma giganti;

i quali "Torreggiavan di mezza la persona," in su quel muro che ha circuito di undici miglia. Dante in fatti riconosce il primo gigante, e la sua testa gli parve

Come la pina di San Pietro a Roma. --Inf. xxxi.

Raccostiamo sei punti che sono in relazione fra loro, e collimano ad uno scopo solo. La fossata che cinge il pozzo d'Abisso ha l'estensione della fossata di Roma. Il muro che cinge l'Abisso, ov'è Satanno, ha il circuito delle mura di Roma, ov3 è il Papa, e il demonio dell' Avarizia grida, Pap' è Satan, Pap' è Satan Aleppe. Il Tempo corrotto che manda all' Abisso le genti viziose, da lui prodotte, Roma guarda sì come suo speglio. I dannati che varcano sotto al primo ponte che mena all' Abisso son comparati a que' che vanno a Santo Pietro in Roma; sul muro d' Abisso, ove quel ponte mena, vi son giganti che sembran torri, e la testa del primo parve a Dante come la pina di San Pietro a Roma.

Ma chi è quel gigante che Dante riconobbe il primo sul muro d' Abisso, dove credette veder molte alte torri? Chi è quello la cui testa gli parve la pina di San Pietro a Roma?

a

Qual i Roman, per l'esercito molto,

L'anno del Giubbileo su per lo ponte
Hanno, a passar la gente, modo tolto;
Che d' una parte tutti hanno la fronte

Verso il castello, e vanno a Santo Pietro.—Inf. xviii.

In appresso sarà scorto che Gerione e Lucifero adombrano lo stesso oggetto. Un poeta moderno (Gianni) sentì forse il chiuso concetto dantesco, quando ne' suoi versi chiamò il Papa triplice Gerion.

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