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AL SIGNOR MAINI DI VENEZIA

CHE VUOLE FIGURATO NEL VELTRO UN PAPA

DE' TEMPI AVVENIRE.

Ingegnosa e ornata di parca dottrina, e chiaramente esposta, mi pare l'interpretazione di Lei. I dubbi che mi rimangono Glieli esporrò schiettamente. Che Dante, sincero cattolico, non volesse depressa l'autorità pontificia, anzi col liberarsi dalle mondane sollecitudini rilevata; è cosa evidente: ma che il Veltro sognato da lui avesse a essere un Papa, non apparisce dalle parole del vaticinio, che lo fanno salute dell'umile Italia. Vero è che la salute d'Italia non solo non toglie quella dell'altre genti, ma nel concetto di Dante e nella ragione storica può e deve esserne causa, distendendosi a tutto il mondo civile gl'influssi della religione; e cotesto verrebbe confermato dalle parole che rappresentano la lupa cacciata per ogni villa non d'Italia soltanto, e nell'inferno rimessa. Ma se ponghiamo che il Veltro nel primo dell'Inferno e il Messo di Dio nell'ultimo del Purgatorio siano la stessa persona; quand'anco la lupa dell'uno non sia la fuia, la rea donna, dell'altro, quella ricacciata in inferno, questa uccisa; non veggo come costei che delinque col gigante, e rappresenta la potestà ecclesiastica avvilita con la secolare in tresca profana, Dante la volesse uccisa da un Papa, potendo scegliere imagine più acconcia a denotare la purificazione dello spirituale potere desiderata. Nè, se Dante mirava a un futuro pontefice, direbbe che tosto i fatti scioglieranno l'enimma della sua visione. Il leggere ch' Ella fa, nel cinquecento dieci e cinque (DXV) di Cristo vicario, è trovato ingegnoso, come non poche altre parti dello scritto di Lei; ma intendere quella sigla per Duce, spostando un numero, non potevano i comentatori più prossimi a Dante, se non l'avessero per tradizione attinto da lui: e se tradizione correva della interpre tazione da Lei, signore, proposta, non l'avrebbero i Guelfi taciuta.

Ella si ferma sulle parole messo di Dio, leggendovi un altro significato che se dicessero messo da Dio; ma nel nono dell' Inferno del ciel messo è colui che scende ad aprire la porta di Dite: e anche l'altra forma al concetto di Lei potrebbesi accomodare. Che nel cibarsi di sapienza

e amore e virtù sia accennato alle Persone Divine, pare anco a me; essendochè, Virgilio, il quale nel ventunesimo dell'Inferno si dice venuto compagno a Dante per volere divino, nel dodicesimo accenna al medesimo rammentando quella virtù per la quale egli muove i suoi passi; e nel primo e nel settimo del Purgatorio ripete la voce virtù in questo senso, e intende appunto la Divina potestà, della quale nel terzo dell' Inferno e nel quinto: Vuolsi così colà dove si puote Ciò che si vuole. Ma da cotesto non segue che l'uomo nutrito di virtù e di sapienza e d'amore non potesse essere altro che Papa. Il Peltro, nominato qui stesso, non direi tanto che accenni all'imagine biblica dello stagno, quanto a metallo in genere; e la rima gli consiglia, più che sforzarlo, a sceglierne uno de' men preziosi, e fragile, e misto, quasi per contrapposto alle qualità nel quattordicesimo accennate: ferro eletto, puro argento, fino oro.

Ma, ritornando al Veltro, da tutto il contesto e del Poema e della storia appare a me che Dante in quello adombrasse un uomo generoso e guerriero. Nel ventesimo del Purgatorio è espressamente chiamata Lupa l'avarizia, antica lupa, perchè sin da' primordii del genere umano uscita d'inferno per quell' invidia che nel nono del Paradiso è appunto attribuita a Lucifero, fondatore della città la qual conia il maladetto fiorino che de pastori fa lupi. E nel ventesimo della seconda Cantica è maledetta la lupa, nel ventiduesimo rammentata la sacra fame dell'oro che ci riconduce all'imagine del cibarsi di peltro, come l'invidia diabolica tanto pianta nel nono della terza, ci riconduce al primo della Cantica prima, dove la lupa molte genti fa vivere grame. E quando ripenso che dello Scaligero esaltasi la virtù in non curar d'argento nè ďaffanni, e che di lui promettonsi cose incredibili a quei che fia presente; non posso credere che di questo Cane Dante non facesse a' proprii usi poetici e politici un Veltro, se non sempre, in qualche stagione della sua misera vita. In qualche stagione, dicevo; e questo mi pare importante

a notarsi nella storia del Poema. Io non credo a quelle edizioni irrevocabili che taluni ne spacciarono fatte, affermando che, dopo inviato a Uguccione una copia dell' Inferno, altre copie ne corressero per le mani di molti, e che il Poeta in quella Cantica non potesse più mutare parola; non credo che gli accenni i quali rincontransi via via nel Poema, siano prova indubitabile del quando e del dove Dante li scrisse, e traccie sicure alla carta geografica de' suoi viaggi. Nè mi pare illecito imaginare che nel primo canto segnatamente, il quale riman fuori del numero segnato a quelli delle tre Cantiche, e' non potesse fare a suo agio varianti. Questo mi pare lecito sinatanto che non si trovi la copia mandata con le postille di frate Ilario a Uguccione. E credo insieme non pur possibile ma quasi certo, che il cacciatore della lupa, l'uccisore della fuia, non sia stato sempre nelle speranze di Dante il medesimo; forse Benedetto undecimo per breve ora, forse per breve ora (se così piace) Uguccione, ma poi Arrigo, e poi lo Scaligero per più lungo tempo di tutti. Scrivendo nel ventesimo del Purgatorio: Quando verrà per cui questa disceda?, pare gli venisse meno la speranza in persona determinata; ma nella fine della medesima Cantica vede certamente stelle propinque sicure d'ogni intoppo; e tanto propinque che i fatti dovevano tosto seguire. Nel vensettesimo del Paradiso altre speranze gli fanno vedere un nuovo Scipione che soccorrà tosto; e il primo vicario di Cristo prenunzia (troppo romanamente per vero) questo Scipione nell'atto stesso del deplorare il luogo suo vacante Nella presenza del Figliuol di Dio. Se non fosse ardita congettura, direi che, se non da quel canto, certo dal trentesimo (dove sono le lodi soprabbondanti d'Arrigo morto, lodi che dimostrano quanto più fosse Dante poeta che uomo di Stato) dal trentesimo ai seguenti corse non breve intervallo; nel quale, sgannata delle umane speranze, l'anima dell'esule cerca rifugio volando più alto, e, lasciato alla terra il peso delle ire, si fa degna di sciogliere quel cantico affettuoso alla

Vergine madre del Re mansueto, a quel fiore che mattina e sera egli sempre invocava.

E chi sa che allora, come già forse da Benedetto undecimo, egli non abbia sperata la salute d'Italia da un Papa avvenire? Non poteva per certo disconoscere la potenza di quella autorità, se esercitata non per armi o altri mezzi materiali, ma con la dottrina e con la parola, con la virtù e con l'amore; non la poteva disconoscere Dante che ricordava come i primi pontefici, rendendo testimonianza alla legge di libertà, facessero del proprio sangue cemento alle pietre del più grande edifizio ch'abbia mai visto la terra, e gli dessero concetto e forma di comoda e ampia unità; come Leone salvasse l'Italia; come Gregorio primo dall' umile letticello del dolor suo fosse più sublime che imperatore sul trono, e più possente che altro mai duce sul campo. E se gli sdegni di parte non gli hanno consentito d'intendere quanto grande benefizio alla libertà degli spiriti e alla dignità delle italiane repubbliche Gregorio settimo rendesse contrastando all'oltramontana barbarica prepotenza; e come la Lega lombarda dimostri il pontificato poter aiutare anco all'unità civile de' popoli, quando un principio d'unità morale sia in essi, quand' essi cioè facciano sè e lui degni di porre in atto la verità cristiana; noi che più piena esperienza abbiamo e degli inganni e dei disinganni, noi che ricordiamo dovuta in gran parte a Pio quinto la battaglia delle Curzolari, e a una parola di Pio nono il riapparire dell'Italia tra le nazioni, non più dispregiata siccome l'avevan fatta l'imitazione dello straniero e le cospirazioni e le congiure impotenti, noi, discernendo le colpe degli uomini dalla necessità de' principii, e dal riconoscimento delle colpe nostre apprendendo a non giudicare spietatamente le altrui, non adoprando la forza a sradicare que' mali che la forza ha portati, sappiamo, migliorando noi stessi, costituire una pura e forte società degli spiriti; e, resi che ce ne saremo noi membra degne, degni capi di questa società sorgeranno.

DELLA EPISTOLA DI DANTE A CANE DELLA SCALA.

Lettera a G. B. Giuliani.

.... Sententia votiva mi suona strano; ma non saprei interpretare altrimenti da Lei. Se un qualche codice avesse un qualche scarabocchio da poter leggere cantica o simile, me ne contenterei. Potrebbe essere stato scritto cantia, e altri avere scambiato la c maiuscola con una s, e, non ne cavando senso, aver letto e trascritto sententia: ma l'oraziano voti sententia compos (1), che viene a proposito della elegia, può aver fatto intendere a Dante che questo genere dalla semplice querela trapassò a denotare altri affetti, cioè essere lirico più veramente; e di li può egli aver torte le due parole a adombrare la lirica; che non sarebbe mal definita: espressione del desiderio più o men pienamente appagato. E però forse non ripetè con Orazio voti compos; perchè così il desiderio soddisfatto come il deluso non fanno giuoco ai voli lirici; nell' uno riposandosi il cuore acquetato, nell' altro giacendosi afflitto e stanco. La lirica vuole amore e speranza con fede; e però, chiamandola votiva, egli viene a volerla quasi religiosa: un'orazione che muove tra contemplare e adorare. Chiaro è che in Orazio sententia significa sentimento; e così l'avrà inteso Dante, che nel sedicesimo del Purgatorio l'usa per proposizione; e nel nono dell' Inferno, per senso delle parole; e nel settimo, per intera dottrina; ma nel decimo per opinione mista di sentimento: Solve temi quel nodo Che qui ha inviluppata mia sentenza.

Del polisemus invece di polisensus, non saprei che mi dire. L'accozzamento di voce greca con voce latina non sarebbe ragione, di per sè, a rigettare il secondo; che nè Dante era dotto di greco, e sin nelle lingue e ne' tempi più colti di tali accozzamenti ce n'è: ma il trovarsi polisemus citato dal Ducange, e poi nel Boccaccio (sebbene all' età del Boccaccio lo studio del greco avesse già fatto qualche passo), mi piega a far onore di questa più cor

retta erudizione al Poeta. Sarebbe tuttavia da badare all'età dei codici tutti; e. se quello del Boccaccio non sia stato corretto da chi sapeva di greco.

Non leggerei allegoricus sive misticus, per non mi distaccare dai codici senza necessità, e perchè veramente il mistico anch'esso non è che una parte dell' allegorico, sebben paia che poi Dante stesso li venga a confondere: ma giacchè i codici hanno sive moralis, meglio è supporre che i copisti abbiano tralasciato sive anagogicus, e soggiungervelo, intendendo che il sive non dichiari l'allegorico, ma ne distingua le due specie, secondo l'esempio da Lei opportunamente recato della Volgare Eloquenza. In genere confesserò che le varianti di capo nostro, senza veruno appiglio che trovino in qualche rabesco di codice, le amerei proposte con più o meno asseveranza, ma non ammesse nel testo.

Transuntivo, non lo intenderei per una semplice figura rettorica; ma, potendo, è da dargli senso più ampio, meglio conforme al fare di Dante. Il quale sovente, per vero, dall'una idea coglie il destro non a trascorrere, ma a deliberatamente varcare, in un' altra, con l'accorto passo che nell'ultimo dell' Inferno egli dà al suo Virgilio; e signoreggia la velocità della mente, a cui scoppia l'un dall'altro pensiero (1), acciocchè non gli accada quel che accade all'uomo in cui pensiero rampolla sopra pensiero; che non solamente allontana sè dal suo intento, ma l'intento di sè; e l'impeto dell'una imagine, cozzando con quel dell' altra, si allentano (2), e i nuovi pensieri che gli si mettono dentro, ne fanno nascere più altri e diversi, e tanto d'uno in altro lo fanno vaneggiare, che il pensamento trasmutasi in sogno (3). Ma non è questo de' pregi principali di Dante o dell' arte; anzi appartiene piuttosto al mestiere: e i retori lo sanno, che delle transizioni e in grande e in piccolo

(1) Ai Pisoni.

(4) Inf., XXIII, t. 4.

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(2) Purg., V. - (3) Purg., XVIII, t. 47-48.

magnitudinis mi suona meglio, sebben mi sovvenga che nel verso Non mi parèn meno ampii nè maggiori (1), le due dimensioni distinguonsi; ma mi sovviene altresi che dopo aver detto: La sua circonferenza Sarebbe al sol troppo larga cintura, soggiunge: E se l'infimo grado in sè raccoglie Si grande lume, qual fia la larghezza Di questa rosa nell'estreme foglie! La vista mia nell'ampio e nell'altezza Non si smarriva (2); di dove apparisce che grande a lui tiene luogo di largo e d'ampio.

menano tanto vanto. Transuntivo io dunque lo prenderei | lando, ha detto larghezza. Confesserò che in latino qui nel senso più proprio e più comune; comune tanto, che nel paese ov'io nacqui, transunto dicesi tuttavia quello che gli scrittori sunto; e intendesi compendio ragionato. Or qui sta il vigore di tutti i grandi ingegni, e l'essenza della poesia: Summa sequi fastigia 'rerum (1); raccorre in un concetto, vestito per lo più di parole che rendano imagine, il germe di molte idee, da svolgere in fatti e in affetti. La potenza del condensare, senza costringere, il molto in poco, è data a pochissimi cosi come a Dante; il quale, educato dalla Bibbia, alla narrazione e al dialogo dona talvolta comprensione lirica e lirica mossa. E di questo e' si faceva fin legge, ponendo a sè stesso confini quasi matematici, e scusandosi che il lungo tema lo cacci (2), ch'altra spesa lo stringa tanto da non potere esser largo nel dire (3), che non lo lasci più ire il freno dell'arte (4). E però contrappone qui il transuntivo al digressivo e al descrittivo; la qual distinzione, interpretata altrimenti, non avrebbe senso. Quel ch' e' soggiunge del definire e del dividere, lo comprova; perchè riguarda le idee, non le forme: e definizione corrisponde, in certa guisa, a transunzione, che ambedue sono sintesi; divisione a digressione, che ambedue sono analisi. Triplice senso ha dunque il vocabolo: metafora, cioè semplice trapasso da una a altra imagine; transizione, cioè passaggio artifizioso da soggetto a soggetto; riassunzione, cioè volo di pensiero in pensiero, anzi trasvolare per le sommità delle idee. E questa è delle tante parole che con gli anni perdettero del vigore natio; il che accadde a compendio altresì. Ovidio, descrivendo i veltri inseguenti Atteone, de' più tardi mossi a rincorrerlo dice: Sed per compendia montis Præcipitata via est: e la Chiesa in un Inno de' Martiri: Mortis sacræ compendio Vitam beatam possident.

Quanto all' amplitudine del sole, se i codici hanno mcgnitudinis, potendosene avere un senso, io non lo muterei per la sola ragione che Dante in italiano, del sole par

A ogni modo, ripeto che io starei sempre ai codici. E per questo, consentendo con Lei a leggere per mio u30 justitiæ præmianti et punienti, amerei confessato che ha pure un senso, in latino rozzo quale questo è, anco il leggere, alla giustizia del premiare e del punire. Nè l'et, senza autorità di lezione, muterei in aut; dacchè anco la particella congiuntiva sovente significa disgiunzione con tutta evidenza, e talvolta forse con proprietà e non senza grazia. Anco radius influens a prima causa dà senso, senza ricorrere a profluens; chè influenza è parola scientifica comunissima, non solo delle cagioni corporee ma eziandio delle cause spirituali, operanti specialmente per quelli che Dante chiama corpi grandi (3), ministri (4) della provvidenza divina; e influens, innoltre, dice più, denotando non solo la derivazione e il corso della virtù suprema e della gloria di Chi tutto muove (5), ma il penetrare di lei più e meno Per l'universo secondo ch'è degno (6). Ed ecco qui la congiunzione invece della disgiunzione; che riviene anco altrove: Intra sé qui più e meno eccellente (7). Che se in un luogo della lettera egli usa ut non possit, non è però da giurare ch'e' non potesse li presso barbaramente dire Quod non potest; che mi pare difficile ce l'abbiano messo i copisti di suo. Se avessimo a rifargli il latino al modo di Cicerone o di Cesare, troppe sarebbero le varianti.

Ma queste sono sofisticherie mie, e ardiri perdonabili appena dalla sua molta indulgenza verso di me.

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DEL VELTRO.

Frammento di discorso.

Lo studio che del Poeta italiano venne facendosi, segue l'andamento della storia italiana. Dalla metà del dugento alla metà del trecento, religione e civiltà, vita morale e politica, vita domestica e pubblica, arte e scienza, congiunte: le forze poi si dividono, si oppugnano; la nazione languisce avvilita. Nel concetto di Dante quelle forze, conciliate, si aiutano; ma i lettori delle generazioni seguenti osservano nel poema di lui chi gl'intenti religiosi soltanto o i morali, chi gli affetti dell' uomo singolo, chi i moti dell'orgoglio e dell'odio, chi gli accorgimenti dell'arte e le tracce della imitazione, chi le bellezze di stile e di lingua, e queste non sempre le meglio scelte e maggiori: agl'intenti civili, alle ragioni storiche, al culto delle tradizioni scientifiche, al dignitoso rispetto dell'autorità, alla pensata consonanza del suo col sentire e col linguaggio dell'intera nazione, al conserto di tutti insieme questi pregi dell'ingegno e dell'animo, pochi degli ammiratori suoi badano; e ciò dimostra falsato il concetto dell'arte vera. A tutte insieme queste cose cominciasi a por mente adesso: ed è buon segno; e n'era tempo oggimai. Con questo intendimento ci giovi trattare anco la piccola questione propostaci; e la vedremo dichiarata insieme e ampliata.

Alla valle in cui Dante cade con malvagia compagnia (1), corrisponde l'imagine della valle dov'egli si smarrisce e passa in terrore la notte: alla trista selva in cui simboleggiasi la gran villa bagnata dal bel fiume d'Arno, fiero fiume da non si poter nominare come orribile cosa, corrisponde la selva di cui dire qual era è cosa dura, e la paura in pensandoci si rinnovella a lui, come a Ugolino il dolore in

(4) In ciascun capoverso, per non fare il testo fitto di note che dissipino l'attenzione, ponghiamo tutti assieme gli accenni a'luoghi del poema, nell'ordine in cui vengono mano mano a cadere. Parad., XVII. Inf., I. Purg., XIV. Inf., XXIII, 1, XXXIII, I. Purg., XXVIII, XXXIII, XXVII. Inf., I. Purg., XXVII, XXVIII, XI. Inf., I. Purg., XXVIII. Inf., 1. Purg., XXVIII, XXIX. Iof., I, IX, III. Purg., IX. Inf., XIII, XIII, XIV, XXXII, XXXIV, IV, XIV, XXXIV. Parad., XXXIII. Inf., I. Purg., XXIX, XXX, XXXI.

pensando alla propria morte atroce. Ma a questa selva amara poco meno che morte, fa contrapposto la divina foresta spessa e viva, sulla cima del monte ove la memoria del male si perde e il libero arbitrio riprendesi: e siccome dell' una egli esce all'aurora, così nell'altra e' s'avanza rilucendogli in fronte il sole novello. Aspro deserto è la vita mortale agli uomini tutti; gran diserto è quell' aspra selva di morte, alla quale e' tenta togliersi affannosamente, ma è a poco a poco respinto in giù: soletto, egli prende lento lento la campagna che olezza d'erbe gemmanti e di fiori; nel deserto da lui misurato con tanta pieta, gli si fa incontro Virgilio, fioco per lungo silenzio; nella beata foresta gli si fa incontro Matelda, la pia, e canta come donna innamorata. Alle tre fiere che gli impediscono il passo, corrispondono le tre Furie che gridano per vietargli l'entrata di Dite; corrispondono i tre fiumi infernali, de' quali il primo e' varcherà rapito nel sonno, come nel sonno lo porterà sull'entrata del Purgatorio Lucia, l'altro sulla barca di Flegias, il terzo sulle spalle di Nesso: giacchè il quarto, dico Cocito, e' lo passerà come terra dura, non altrimenti che il bel fumicello scorrente a difesa delle mura entro cui stanno le anime non meritevoli dell'inferno e non degnate del cielo. I fiumi infernali son lagrime nascenti dalla persona del gran vecchio rappresentante il genere umano; così come rappresentansi le tre parti del mondo nelle tre teste di Lucifero, che con sei occhi piange. A questa triade di mostruosa unità nell' ultimo dell' Inferno, contrapponesi la Triade divina che lo fa beato di sè nell' ultimo del Paradiso; così come alle tre fiere della selva oscura (una d'esse il leone di cui par che l'aer tema la rabbia e la fame), si contrappongono le tre Virtù della selva in cui sentesi una melodia dolce correre per l'aere luminoso. Ognuno intende che, in tale congegno d'ampii concetti, non si può ammiserire il simbolo delle fiere, vedendoci Firenze e Francia e Roma, non altro; non si può dal politico il senso morale dividere senza fare torto al poema e abbuiarlo giacchè la divisione riesce a confusione da ultimo, e questa a quella. L'invidia di Lucifero che fa uscire

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