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DELLA CONTESSA MATILDE,

PERCHÈ COLLOCATA DA DANTE ACCANTO ALLA SUA BEATRICE.

La vita di Matilde è soggetto degno di storia, e, qua e là, di poema. Non credo che il Parmigianino traesse da❜libri antichi l'imagine a cui diede il nome dell'alta donna: e a me giova imaginarla, quale Donizone l'accenna, dotata di forme belle. La vera forza e rettitudine della mente e dell'animo più sovente si trova ne' corpi ben fatti che ne' deformi. Che Matilde, a quindici anni guerriera, non fosse di tempera forte, ma soggetta a frequenti infermità, questo è contrapposto non rado, che la rende più amabile a me. Nè dee parer cosa maravigliosa, che donna usal all' armi, fosse pure umana di sensi e ne' modi piacevole. Cesare e Napoleone, e il Catinat e Clemente de' Paoli, e tanti altri, fuori della battaglia erano ben altro che fieri. Non robusta di corpo, e occupata alle cure del governare e del combattere, e circondata da gravi pericoli, e pia nell'anima, e altera, e congiunta con mariti disavvenenti o superbi, stranieri all'Italia, stranieri alle ardenti credenze di lei; non è punto maraviglia che in tempi corrotti e non molli, in mezzo a esempi famosi di castità difficile, e di più difficile continenza, ella sia potuta vivere, quasi vergine nel fatto, se non vergine, come vuole il Fiorentini, per voto. Il primo marito doveva, non tanto con la bruttezza svogliarla di sè, quanto con le sue pertinaci ire contro papa Gregorio, da Matilde venerato, e come pontefice e come grand'uomo, e con le arti abiette da esso marito usate per vincerlo. N'era svogliata; non l'odiava però, come forse egli lei; che a marito e straniero e meno autorevole non poteva non dispiacer forte la ferma volontà di Matilde; e la coscienza ch'ell' aveva e dimostrava d'avere della sua grandezza esteriore e della sua propria dignità. Mortole quel marito, Matilde raccomandava l'anima di lui alle preghiere di papa Gregorio, e quello spirito severo, dimenticando i torti gravi di lui, non disperava della sua eterna salute, e ne ragionava con pacate parole. Chi raffronta quest'onesto linguaggio con le infami imprecazioni che scaglia nella Stuarda l'Alfieri contro il marito della sua donna; da questo solo indizio, lasciando stare ogni altro, s'avvede che tra il vecchio papa e Matilde non era tresca d'amore, siccome i preti scismatici andavano piamente

spacciando; i quali dalle loro simonie e dalle loro concubine avevano l'imaginazione così viziata, che non sapevano dar fede alle pure e nobili cose. Nè, se tresca vi fosse, Matilde si sarebbe mai allontanata da' luoghi dove dimorava Gregorio, nè egli avrebbe avuto coraggio o cura di tanto dire e far tanto contro i preti conviventi con femmine. Quando si offrono due maniere di giudicare un fatto, un'intenzione, un' anima umana, ell' è cosa onesta e pia, ed onorevole ancora più al giudice che al giudicato, attenersi alla parte più pura e più generosa, massime dove trattisi d'anime singolari. Del resto, Matilde s'è dimostrata non meno fervente difenditrice de' papi che vennero dopo Gregorio; e nessuno ha pensato che di tutti cotesti papi ella fosse l'amica nel turpe senso odierno.

Ma non servilmente devota alla sede pontificia era Matilde: e quando Rangerio vescovo di Lucca, intrinseco di lei, riprese liberamente nel pubblico Concilio il pontefice, che non reggesse abbastanza Anselmo, l'illustre Italiano, contro il re d'Inghilterra, Matilde non cessò dall' avere a consigliero fidato esso vescovo, il cui zelo fu, come nota il Fiorentini cautamente, per avventura indiscreto. E chi sa quanti schietti consigli e arditi ella avrà dati a Gregorio stesso; ed egli da lei (nobilmente affezionatagli, ed esperta delle arti del governare e del resistere e del vincere, esperta delle nature italiane e delle straniere), senza rossore accettati? Queste cose la storia non narra, perchè la storia non penetra oltre alla corteccia de' fatti; e quand'entra a toccare le intenzioni, dà sovente in congetture fantastiche e in giudizi temerarii. Pur tuttavia dalla storia sappiamo che Matilde intercesse per Enrico IV imperatore presso lo sdegnato pontefice. Nè cotesta era commedia preparata; chè quelli non erano tempi di politica rappresentativa, e di diplomazia tragicomica: nè Gregorio era uomo da lasciare a Matilde la lode e il merito della clemenza, tenendo per sè l'odiosità di crudele rifiuto, se egli avesse voluto essere sin dalle prime indulgente di suo proprio movimento. Ma a Gregorio pareva, e forse era vero, che non minore fermezza, non minore durezza si richiedesse a rompere quelle che il buon Fiorentini chiama

insolenze d'Alemagna: e quattro o cinque volte ripete questa parola insolenze. Coloro che condannano gli atti di Gregorio VII come stranamente arroganti, non pensano con che strane e dure teste egli avesse a combattere; non pensano che senz' esso l'Italia diventava otto secoli prima una provincia dell'impero; non pensano che a quella resistenza violenta essa deve le sue repubbliche ajutatrici di civiltà a tutta Europa. Fatto è che Matilde con l'armi, con l'oro, col cuore, col senno, fu di quella resistenza gran parte. Onde Enrico V, nel venire in Italia, disprezzò gli altri potentati; ma lei con rispetto onorò; nè poco valse a conciliarle stima negli occhi di lui il parlare ch' ella faceva il tedesco come un Tedesco. Ella sapeva il francese altresi; e al suo servigio aveva Francesi, Inglesi, Sassoni, Russi; che poi tennero uomini italiani a meno onorato servigio. Era più dotta de' vescovi (dice un uomo del suo tempo), e combatteva co' vescovi, e quel di Parma fece prigione; e ruppe ai marchesi lombardi le corna. Notabile che i più acri nemici a Gregorio fossero i vescovi di Lombardia della terra che portò il Tamburini, e che aveva preti un po' giansenisti. Venezia le era amica, Venezia, potentato e ne' difetti e nelle virtù, intimamente italiano, il più italiano di tutti; che seppe essere altamente credente e franco insieme dalle soverchierie della corte di Roma, prima che le insegnasse le sue fratesche impertinenze il troppo lodato Servita. Se l'Italia contava parecchi reggitori della mente e dell'animo di Matilde, non sorgevano forse le guerre civili che la deturparono e fiaccarono; guerre aizzate da' signorotti vilmente ambiziosi, e mantenute come strumento di sminuzzata miserabile potestà. I coetanei di Matilde avevano un senso confuso, ma, forte di questo, se nella morte di lei fu scritto: Adesso le sette cominceranno. Nessuna donna regnante, ch' io sappia, ebbe lode più desiderabile nè più meritata. Perchè Matilde veramente era l'arra e come il preludio dell' italiana unità; di quell'unità che non soffocasse le libere forze de' popoli, che li tenesse sottomessi ad un' autorità suprema, ma non soggiogati; di quella unità, che i Ghibellini due secoli dopo dovevano malauguratamente chiedere altrui, come elemosina, sempre promessa e sempre negata, parte per

noncuranza, parte per provvida impotenza. E per questo non è maraviglia che Dante, non ghibellino pretto, ma Bianco, e nato guelfo: e guelfo sempre nell' anima, collocasse Matilde al sommo del monte, onde gli spiriti umani volano al cielo. Dante, leale e generoso com'era, non poteva nou amare il leale e generoso coraggio di questa donna amata e tremenda; nemico com' era dell' avarizia principesca, della benefica ed elegante liberalità lodatore, non poteva non ammirare quant' ella fece a pro e degli studi e delle leggi, del culto sacro, e delle arti più nobili e più sontuose. Quell' imparzialità che l'indusse a mettere Costantino, l'autore della favoleggiata donazione, su in cielo, molto più volonteroso doveva farlo a dipingere con si freschi colori la donna soletta, al cui guelfo zelo dovette Firenze la sua popolana grandezza, e senza la quale egli, Dante, non avrebbe forse su quasi tutti i poeti d' Europa levato il suo canto.

Chiamare tal donna, come altri fece, l'Elisabetta dei secoli di mezzo, è ingiuria immeritata: chè Elisabetta non ebbe di Matilde nè il guerriero coraggio, nè il senno civile, sereno ne' pericoli e proprio suo; nè la fede umilmente salda, nè l'anima ardente, nè il nome puro; fu invidiosa, rabbiosa, vana, falsa, crudele, ipocrita, tradita, infelice. Piuttosto, con un uomo del suo tempo, vorrei assomigliare Matilde a Debora; senonchè i meriti di Matilde furono nella storia dell' umanità più difficili ad acquistare e più grandi. E più degna di poesia e di pittura mi par questa donna, o ch' io l' imagini, tutta armata, levarsi l'elmo di capo, e inginocchiarsi agli altari; o arrestare la lancia contro il petto di un vescovo fellone; o accogliere, modestamente dignitosa e severamente leggiadra, i ricchi presenti dell' imperatore Comneno; o, romita in sè, meditare gli anni della giovanezza fuggiti senza gioia d'amore; richiamare alla mente l'imagine lontana, e pur viva e luminosa, di qualche povero ma animoso guerriero, che piacque agli occhi di lei vergine combattente; più degna, dico, che non la regina di Saba, la quale viene a cavallo di un dromedario via per il deserto, a far la pedante col re Salomone, e proporgli Dio sa che indovinelli da giornale, o che domande spropositate sul cedro e l'isopo.

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CANTO XXXII.

Argomento.

Si move il carro e la santa schiera a man destra. Vengono ad un albero altissimo, ignudo: il Grifone lega all'albero il carro; onde quello rinverde e s'infiora. Cantano: il Poeta s'addormenta: si desta: vede Beatrice seduta appiè dell' albero, e le sette donne co' candelabri, intorno di lei. Scende un' aquila dall' albero al carro, e lo ferisce: viene una volpe, e Beatrice la scaccia: riscende l'aquila, e dona al carro delle sue penne: esce un drago, e strappa del fondo del carro; le penne coprono esso carro, che mette fuori sette teste cornute: sovr' esso una meretrice e un gigante.

Nota le terzine 1, 2; 4 alla 11; 14; 18 alla 23; 26, 28, 30, 31, 37 alla fine.

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4. E la disposizion ch' a veder ée
Negli occhi pur testè dal sol percossi,
Sanza la vista alquanto esser mi fee.
5. Ma poi ch'al poco il viso riformossi
(Io dico, al poco, per rispetto al molto
Sensibile, onde a forza mi rimossi);

4. (L) VEDER: come chi è abbagliato dal sole, non vedev' altro. ÉE: è. FEE: fece.

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(SL) DISPOSIZION. Som.: La disposizione dell' organo. Se l'aria ha a ricevere la forma del fuoco, dev'essere a ciò disposta per qualche disposizione. SOL. Vita Nuova: Nostro intelletto s'abbia a quelle benedette anime, come l'occhio nostro debole al sole. PERCOSSI. Galil.: Percossi dal sole ardentissimo. VISTA. Par., XXVI, t. 2. — ALQUANTO. [Ant.] Per darci un'idea di quanto splendessero gli occhi di Beatrice, il Poeta dice. che quando fu tolto dalla contemplazione di quelli si volse a sinistra, si accorse che gli occhi suoi erano come se li avesse sin allora tenuti rivolti al sole, perchè in sulle prime non vide niente, siccome accade allorchè da quella vivissima luce si passa a rimirare oggetti men chiari. E sì che da quella parte si trovavano le tre Dive, il glorioso esercito, dove taluni portavan corone che facevano i corpi loro parere ardenti; le sette fiamme dei candelabri, e più in alto anche il sole!

5. (L) Poco...: avvezzatomi a vedere il minor lume, grande in sè, ma poco a paragone di Beatrice. SEN

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6. Vidi, in sul braccio destro esser rivolto Lo glorioso esercito, e tornarsi

Col sole e con le sette fiamme al volto. 7. Come sotto gli scudi, per salvarsi,

Volgesi schiera, e sè gira col segno, Prima che possa tutta in sè mutarsi; 8. Quella milizia del celeste regno,

Che procedeva, tutta trapassonne, Pria che piegasse 'l carro il primo legno. 9. Indi alle ruote si tornâr le donne; E'l Grifon mosse il benedetto ċarco, Si che però nulla penna crollonne. 10. La bella donna che mi trasse al varco, E Stazio ed io, seguitavam la ruota Che fe' l'orbita sua con minore arco.

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11. Si passeggiando l'alta selva, vôta (Colpa di quella ch'al serpente crese), Temprava i passi un'angelica nota. 12. Forse in tre voli tanto spazio prese Disfrenata saetta, quanto erámo Rimossi, quando Beätrice scese. 13. Io sentii mormorare a tutti: « Adamo!»> Poi cerchiaro una pianta, dispogliata Di fiori e d'altra fronda in ciascun ramo. 14. La chioma sua, che tanto si dilata Più, quanto più è su, fora dagl' Indi Ne'boschi lor, per altezza, ammirata.

svolge il carro; dunque l'orbita della destra dev'esser minore.

(SL) ORBITA. Stat., Achill., I. Orbita del carro tratto da delfini. MINORE. [Ant.] Essendosi volta la MI RIMOSSI per le parole processione sul destro lato, la ruota del carro, che dovette fare più lungo giro, fu la sinistra; onde l'altra ne fece uno minore; e quindi il Poeta rimase dalla parte delle tre Virtù teologali, tra il carro e la ripa del fiume.

(SL) Dico. Virgilio (En., II), più snello: Ad celum tendens ardentia lumina frustra: Lumina, nam teneras arcebant vincula palmas. Il Caro fa: Io dico gli occhi. 6. (L) TORNARSI: volgersi. FIAMME: candelabri. (SL) TORNARSI. Purg., XXVIII, t. 50. Il carro veniva finora verso ponente. Dante camminò verso oriente (Purg., XXVII, t. 45): ora il carro si volge, e verso oriente s'indirizzano tutti.

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(F) DESTRO. Prima si muove la ruota del Nuovo Testamento. SOLE. [Ant.] Se pongasi mente ai fatti narrati in questa giornata, dal salire della scala sin qui, ne indurremo che in questo punto dovevano ivi essere circa le ore dieci della mattina. Nel voltarsi dunque la maestosa processione in sul braccio destro, faceva un semicerchio da ponente a levante per tramontana, e quindi i personaggi che la componevano erano feriti al volto dai raggi solari, sebbene un poco in disparte sulla sinistra quando il cambiamento di direzione fu compiuto, e ripresero la via sulla destra del rio, a ritroso della corrente.

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(SL) DISPOGLIATA. Ambr.: Cupressus... nulli venti eam crinis sui honore despolient.

(F) PIANTA. Simbolo dell'ubbidienza dovuta alla verità rivelata. Altri la intende per l'Impero romano, spettante di diritto, dice l'Allighieri, al popolo romano (Mon., II; Conv., IV, 5); e stabilito per sede della cattolica Chiesa (Inf., II). E lo fa altissimo a questo fine, e nella voluta da Dio unità ed universalità d'esso impero a pro della Chiesa, colloca la misteriosa cagione del divieto ad Adamo fatto di non cogliere da quest' albero frutto (Purg., XXXIII, t. 24). Ecco perchè da quell'albero venga l'aquila a stracciare il carro e ad impiumarlo, e perchè il carro sia quivi legato, e il gigante ne lo stacchi traendo la sede in Francia. L'idea del doppio simbolo forse gli venne dall'albero che Nabucco sognò figurante il suo regno (Dan., IV). 14. (L) FORA: sarebbe.

(SL) CHIOMA. En., VII: Laurus... sacra comam. -DILATA. Ezech., XXXI, 7-9: Erat pulcherrimus... in

15. «Beato se', Grifon, che non discindi » Col becco d'esto legno dolce al gusto; >> Poscia che mal si torse il ventre quindi. » 16. Così d'intorno all' arbore robusto

Gridaron gli altri; e l'animal binato: «Sì si conserva il seme d'ogni Giusto. >> 17. E, volto al têmo ch'egli avea tirato, Trasselo al piè della vedova frasca; E quel, di lei, a lei lasciò legato.

18. Come le nostre piante, quando casca Giù la gran luce mischiata con quella Che raggia dietro alla celeste Lasca, 19. Turgide fansi; e poi si rinnovella

Di suo color ciascuna, pria che 'l sole Giunga li suoi corsier sott'altra stella; 20. Men che di rose e più che di vïole Colore aprendo, s' innovò la pianta, Che prima avea le ramora si sole.

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(F) BEATO. Ad Philip., II, 8: Fatto obbediente infino a morte. Altri intende: Beato Gesù che non toccò l'impero; ma dice: Reddite... quæ sunt Cæsaris, Cœsari (Matth., XXII, 21). Altri: Beato che non fai come i tuoi successori che rompono di quest'albero dell'impero. Gioacchino calabrese, rammentato da Dante come profeta (Par., XII), dice che per il legno della scienza del bene e del male adombrasi il patrimonio temporale: Nunc necesse est ut summus pontifex ex eorum manibus spoliatus effugiat.

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16. (L) BINATO: Gesù Cristo. Sì: così. GIUSTO: giustizia; o piuttosto, uomo giusto.

(SL) ROBUSTO. Dan., IV, 8: Albero sublime e robusto, la cui altezza arriva al cielo, e la vista di lui per tutta la terra.

(F) BINATO. Purg., XXIX, t. 36. Ott.: Una ante sæcula, l'altra quando prese carne. Psal., CIX, 3: Ante luciferum genui te. - SEME. Non toccando il poter sacro il profano, giustizia si conserva. L'ubbidienza che gli antichi espositori nell'albero simboleggiano debita a Dio, e l' ubbidienza all' impero ordinato da Dio. Si congiungono i due simboli in uno.

17. (L) TÊMO: timone. FRASCA: albero ignudo. - LEGATO: Co'suoi rami stessi più teneri avvoltigli intorno.

(SL) VEDOVA. Hor. Carm., II, 9:... Foliis vi

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(F) LEGATO. Cristo lega la Chiesa militante all'albero dell' ubbidienza, ch'è quel della scienza. Congiunge la Chiesa all'impero, non li confonde. Letteralmente lasciò legato alla pianta quel carro ch' era di lei, la Chiesa, ch' era figlia d' ubbidienza. Ovvero: lo legò a lei co' rami di lei: legò la Chiesa all' ubbidienza de' divini decreti. Il Costa: legò a Roma imperatrice del mondo quel ch' era di lei, destinato per lei, la Chiesa novella. Può anco intendersi: alla pianta (all' ubbidienza spirituale e temporale; ubbidienza a Dio ed all'impero) legò il carro, in quanto era di lei, in quanto la potestà spirituale dev' essere legata all'impero. Quel di lei tradurrebbe il quæ sunt Cæsaris... quæ sunt Dei (Matth., XXII, 21). Dan., IV, 11-12: Succidite arborem....: Verumtamen germen radicum ejus in terra sinite: et alligetur vinculo ferreo et æreo.

18. (L) NOSTRE: di questa terra. LUCE solare. L'Ariete segue a' Pesci; e quand' il sole è in Ariete abbiam primavera. LASCA: pesce lucente.

(SL) LASCA. Semint. (Met. d'Ovidio): Quante volte la primavera caccia il verno, ed il montone succede all' acquidoso pesce. I Toscani: Sano come una lasca, quel che altrove come un pesce. [Ant.] Nel moto apparente delle spere celesti la costellazione de' Pesci prece del'Ariete. La gran luce pertanto, cioè la solare, si troverà mischiata con quella che raggia dall' Ariete, quando il sole appariva in questa costellazione, cioè quando per noi sarà primavera, quando le piante si fanno turgide per il dilatarsi delle loro gemme, e poi ciascuna si riveste di fronde e di fiori, prima che il sole attacchi al Carro del dì i suoi corsieri sotto altra costellazione, cioè avanti di aver percorso tutta quella dell' Ariete e così prima che passi un mese di tempo. (F) LUCE. Cristo redentore fece rifiorire l'albero della scienza. 19. (L) TURGIDE d'umore. segno.

GIUNGA: passi a altro

(SL) TURGIDE. Georg., I: Frumenta in viridi stipula lactentia turgent. GIUNGA. Æn., I: Nec tam aversus equos Tyria sol jungit ab urbe. Ovid. Met., II: Jungere equos Titan velocibus imperat Horis. Semint.: Comanda alle veloci ore che giungano i cavalli. 20. (L) RAMORA: rami.

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