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IL PRODIGO -- I DUE ECCESSI.

In questi due Canti non è solamente dato luogo all' affetto letterario del Poeta verso Stazio, cioè verso Virgilio modello di lui, e verso quella poesia morale e religiosa di cui Dante non ritrovava più compiuto esemplare, dopo la Bibbia, nè in poeti pagani nè in cristiani (e dopo tanti secoli di cristianesimo e di civiltà, tuttavia pochi se ne ritrovano meno incompiuti); ma è messa in luce una di quelle verità cardinali che la filosofia umana sentiva e che il Cristianesimo pose in atto, cioè che la virtù vera è temperanza da' due eccessi contrarii, e che i due eccessi contrarii, siccome sovente si toccano negli effetti e nelle cagioni, cosi sovente confondonsi nella pena. Stazio, prodigo, si ravvede leggendo quel di Virgilio ov'è esclamato in biasimo degli avari; egli prodigo è purgato insieme con le anime degli avari dalla pena medesima che li tiene col viso confitto alla terra e con le persone avvinte alla terra, a sentire esempii che biasimano la cupidigia vile delle ricchezze, e altri che lodano la magnanima noncuranza di quelle così come nell' Inferno gli avari si scontrano al punto del semicerchio co' prodighi, voltando e gli uni e gli altri gran pesi per terra a forza di petto, e non di braccia, come se avessero anch'essi le braccia legate, e i petti loro dovessero portare pena dell' essere stati tratti in contrario male dalla fame dell' oro maledetta.

Or le dottrine intorno al termine della virtù sono queste: Virtù è abito elettivo stante nel mezzo (1): e questo mezzo ha luogo si nelle operazioni e si negli affetti (2). La qual seconda condizione non era così fermamente posta innanzi il Cristianesimo, che è lo scopritore vero del mondo immenso interiore (3). Virtù è mezzo tra il soverchio e il manco (4). In ogni cosa il bene consiste nella misura debita; il male viene dall' eccesso o dallo scemo di

| quella misura (1). A ciascuna virtù morale si oppone un vizio per eccesso e uno per difetto (2). Il peccato è contrario non solo alla virtù, ma si anche al vizio opposto (3). Possono a un bene di mezzo opporsi più eccessi, come alla magnanimità la presunzione e l'ambizione (4). A tutte le virtù sono contrarii (5) non solo que' vizii che direttamente a esse si oppongono, come la temerità alla prudenza; si anche i vizii vicini alla virtù e che le somigliano, non in verità, ma per qualche apparenza ingannevole, come l'astuzia alla prudenza. E questo dice il Filosofo (6): che ciascuna virtù pare ch'abbia maggiore convenienza con uno de'vizii opposti che coll' altro, siccome la temperanza con l' insensibilità, e la fortezza con l'audacia (7).

Il bene morale è pareggiamento alla regola di ragione si che non s'ecceda o si manchi (8). È dunque ideale la norma del bene, tantochè nelle intellettuali cose stesse Tommaso riguarda l'affermazione falsa come un eccesso, e come un difetto la falsa negazione: ma all'ideale corrisponde un reale di fuori, e la realtà è misura del nostro intelletto (9). Onde, siccome delle cose pratiche il modello è ideale, così nell' ideale è sempre un non so che di pratico; e anco di qui segue che il bello dell'arte, così come della virtù, sta nel mezzo (10). Dice Tommaso che delle altre virtù il punto di mezzo, cioè la perfezione, è ideale, reale nella giustizia solamente (11). Pare a me che, se la giustizia ha nella sua applicazione qualcosa di più pratico, nel suo principio la non sia però meno ideale delle altre; e che tutte le altre virtù devano avere del pratico più o meno. Dice Tommaso ivi stesso che nella fede, in quanto virtù soprannaturale, non ci ha, come nelle altre virtù, a essere mezzo, inquantochè l'infinità dell'oggetto non ammette limiti: ma, dicasi con la riverenza debita a tanta au

(4) Arist. Eth., II. (2) Som., 2, 1, 64. (3) Hor. Epist., 1, 18: Hæc satis est orare Jovem, qui donat et aufert, Det vitam, det opes; æquum mi animum ipse parabo. Il primo rammenta il sovrano detto di Giobbe, ma l'altro concede all' uomo la facoltà di donare e conservare a sè stesso beni troppo più grandi che le ricchezze e la vita. Al primo consuona in bellezza quell'altro delle Satire, che pur contradice al secondo: Jupiter, ingentes qui das adimisque dolores (Sat., II, 3). · (4) Arist.

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(1) Somma. Prol., 2, 2: la medesima materia è intorno alla quale e la virtù opera rettamente e i vizii opposti a quella s'allontanano da rettitudine. (2) Som., 2, 2, 10. (3) Som., 2, 2, 162; Arist. Eth., II. (4) Som., 2, 2, 131. (5) Contrarii circa idem sunt (Som., 1, 2, 73). (6) Arist. Eth., II. (8) Som., 2, 1, 64. X. (9) Arist. Met., (11) Som., 2, 1, 64.

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(7) Aug. contra Jul. II.

(10) Arist. Eth.,

torità, questo argomento varrebbe di tutte le virtù in quanto riguardano Dio come fine supremo: e a tutte, alla fede stessa, è debito porre la norma che è dichiarazione a quell'idea del mezzo: che il bene non è bene se non quando sia fatto e voluto dove e quanto e perchè si conviene (1). E qui cade la sovrana sentenza del medesimo pensatore: Può la virtù essere grande, e massime nell' intensità dell'intenzione o dell' atto; ma può in quell' altezza ed ampiezza non eccedere nè venir meno alla norma del conveniente; anzi deve (2). La quale sentenza concilia l'apparente contradizione che gl'ingegni men retti pongono tra questa regola, dura a loro, del non eccedere i limiti, e la libertà del pensiero e dell'azione, che è condizione a grandezza. Indefinita è la materia del bello e del bene, determinata la forma; indefinita la linea del salire, segnati dall'uno e dall' altro lato i limiti della via. Questo intendeva dimostrare in più orazioni latine e in un' opera morale, e questa e quelle scritte con facondia dignitosa, Sebastiano Melan, mio desiderato maestro ed amico, fratello e padre.

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Orazio e nelle Epistole e nelle Satire è pieno di questo principio, e, quanto può Pagano, lo svolge con senno raro e faconda varietà. Nil medium est (3). Dum vitant stulti vitia, in contraria currunt (4). Frustra vitium vitaveris illud, Si te alio pravum detorseris (5). Est genus unum Stultitia... Alterum et huic varium, et nihilo sapientius (6). -Non est cardiacus (Craterum dixisse putato) hic ager. Recte est igitur, surgetque? Negabit: Quod latus aut renes morbo tententur acuto (7). E degli opposti eccessi, segnatamente di prodigalità e d'avarizia: Est modus in rebus; sunt certi denique fines, Quos ultra citraque nequit consistere rectum (8). Cui non conveniet sua res, ut calceus olim, Si pede major erit, subvertet; si minor, uret (9). Scire volam quantum simplex hilarisque nepoti Discrepet, et quantum discordet parcus avaro (10).

A diversi mali dell'anima diverse medicine (11). Ma qui è sapiente assoggettare alla pena medesima prodighi e avari, perchè e gli uni e gli altri mal desiderano i beni materiali, e male n' usano, e per mal amore di quelli diventano ingiusti. E notisi che la parola prodigo non è mai usata da Dante, sebbene l'usi e il Giamboni traduttore del Tesoro, e il Passavanti quasi coetaneo di Dante: o che, adoprandola i Latini talvolta in buon senso, e' non volesse con essa significare il vizio per assoluto, o che la non gli paresse tanto comune nell'uso d'allora, da poterla egli usare nella Commedia dove si studia d' adoprare vocaboli noti nell'uso noto, e i Latini stessi che a noi paiono strani, sian tutti o quasi tutti usati almeno nel linguaggio delle scuole, allora comunissimo, e ciò segnatamente nelle due prime Cantiche più accomodate in gran parte alla intelligenza

dei più. Onde invece di prodighi, e' dice mal dare; - con misura nullo spendio férci. Aprir l'ali... le mani a spendere. Lo contrario dell' avarizia. Avarizia.... partita troppo da mẹ. Dismisura in amare e usare ricchezza (1).

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Il prodigo non apprezza giustamente il valore delle ricchezze, e dà più del debito (2). Nella prima condizione è il male ideale, il reale nella seconda; onde Dante dice che molti saranno puniti per la ignoranza che toglie il pentimento di questo peccato, ignoranza colpevole, dacchè fanno le viste di credere che basti l'orrore dell' avarizia a scusare l'eccesso opposto. I prodighi non danno per bene nè quanto conviene, ma a chi non dovrebbero; più agli adulatori che a' buoni (3). Il prodigo nuoce a sè in altro modo che l'avaro, nuoce anco quando sia prodigo per cagion di piacere a sè o ad altri: ma più spesso egli tende a piacere ad altri che a soddisfare direttamente sè. Il prodigo intemperante però è più colpevole; in quanto congiunge due mali, e fa l'uno ministro dell' altro male; ed è ingiusto non solamente perchè da ultimo trista necessità lo spinge a togliere l' altrui, ma perchè il mal usare anco quel che dicesi proprio, è già un togliere ad altri. Il prodigo pecca contr' altri, consumando i beni de' quali dovrebbe provvedere agli altrui bisogni. E ciò appare principalmente ne' chierici che sono dispensatori de' beni della Chiesa, i quali sono de' poveri, e essi defraudano i poveri con le loro prodigalità (4). Ma grave usura tanto non si tolle Contra 'l piacer di Dio, quanto quel frutto Che fa il cuor de' monaci si folle. Chè quantunque la Chiesa guarda, tutto È della gente che per Dio dimanda, Non di parente, ne d'altro più brutto (5).

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Avarizia s'oppone a liberalità come a virtù media, a prodigalità come a vizio estremo (6). Taluni sono prodighi insieme e acari. C'è degli avari che tengono senza prendere; e de' prodighi che danno e prendono (7). Da avarizia non escono sempre i muli tutti, ma possono nascere più sovente che da altro vizio. - Prodigalità nasce da avarizia, quando si dà per pigliare (8).

Non è già che i prodighi o dannati o purganti, abbiano, quelli in intensità, questi in intensità e in durata, la pena medesima che gli avari; e quanto alla durata: Può avvenire che altri più lungamente dimori in Purgatorio, il qual è meno afflitto di quelle pene, e viceversa (9).

Prodigalità è, di per sè, quando non sia da altre condizioni aggravata, vizio minore, per tre ragioni: e perchè l'avarizia è più lontana dalla opposta virtù, giacchè il prodigo più s' approssima al liberale che non l'avaro; e perchè il prodigo può giovare dando a dimolti, ancorchè non lo faccia col fine di davvero giovare; e perchè la prodiga lità è male meno difficilmente sanabile. Lo risana per lo

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più la vecchiaia, che naturalmente dal troppo spendere si ritira; e lo risana la indigenza, alla quale esso leggiermente conduce, che rende impossibili le spese vane: ma, meglio d'ogni altro, gli è medicina il poter meno malagevolmente ravviarsi a virtù, da cui, ripetiamo, la prodigalità è men remota. Quand' anco l'avaro non pigli da altri, può essere più reo nella crudeltà del non dare, o nel falso valore ideale che egli alla ricchezza sua attribuisce; dal che il soprapporla a ogni valore è più falsità che il non le concedere valore veruno. E se l'avaro non riceve dell' altrui, neppur di cotesto sovente egli ha merito, dacchè teme di ricevere per paura di dare (1). - Il prodigo è reputato anzi vano che malvagio (2): e forse nel motto dell' Inferno (3), che gli avari dicono a' prodighi, perchè burli? s'ha a intendere non solo perchè butti tu via?, ma perchè col buttare deridi tu il mio tenere?, dandosi alla parola doppio senso, quasi come al berner de' Francesi, e all'italiano sbertucciare, che vale e deridere e sgualcire maneggiando. Tutti

i vizii si oppongono a prudenza, e tutte le virtù sono dirette da lei: onde, appunto perchè la prodigalità si oppone a sola la prudenza, per questo stesso è vizio meno grave (1). E però contro gli avari sono nel Vangelo parole si forti, e il figliuol prodigo nella parabola di Gesù si ripente.

Ma non nella quantità nè del dare nè del tenere consiste il male del prodigo o dell'avaro; si nella intenzione: e l'intenzione è più o meno prava, secondo che più o meno si diparte dalla misura ideale. Si può dar poco, e essère prodigo; mollissimo, e illiberale (2). E la norma vera è nelle sapienti parole dell' Apostolo: Facile tribuant et communicent sua, secundum quod oportet: dare senza gravezza o noia nè propria nè altrui; dare secondo che bisogna, cioè nel modo e nel tempo e nella quantità che bisogna e conviene; dare coll' intendimento di far comune ad altrui il bene proprio, cioè di ristabilire, quant'è da noi, sulla terra anco la materiale, ma in servigio della morale, uguaglianza.

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CANTO XXIII.

Argomento.

Rincontra anime dimagrate per fame, che penano alla vista d'un albero con belle frutte, annaffiato da un' acqua pura. Riconosce Forese, che parla della sua moglie buona, e riprende i fiorentini costumi. Ovunque egli ricorda i conoscenti suoi, la poesia gli sgorga dal cuore più viva: Brunetto, Guido, Casella, Buonconte, Forese, Nino. Il tocco contro le donne di Firenze, i' non credo ferisca Gemma la moglie di Dante. Essere Nella soletta in ben fare, non suona già che fosse unica. Anzi codesta poteva essere preghiera alla moglie, pregasse anch' ella per il Poeta allorchè sarà morto. Virgilio in questo colloquio non parla; siccome nè al Capeto nè al papa.

Nota le terzine 1, 4, 6, 7, 8, 10, 11, 12, 14, 15, 16, 18, 19, 25, 29, 30, 31, 34, 36, 38, 39, 40,

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8. Negli occhi era ciascuna oscura e cava,
Pallida nella faccia, e tanto scema
Che dall' ossa la pelle s' informava.
9. Non credo che così a buccia strema
Erisittón si fusse fatto secco

Per digiunar, quando più n' ebbe tema. 10. Io dicea, fra me stesso pensando: « Ecco >> La Gente che perdè Gerusalemme,

» Quando Maria nel figlio diè di becco. » 11. Parén le occhiaie anella senza gemme: Chi nel viso degli uomini legge Omo, Bene avria quivi conosciuto l'emme.

8. (L) SCEMA: magra, che la pelle era attaccata all'ossa.

(SL) CAVA. Pittura della Fame in Ovid. Met., VIII: Cava lumina: pallor in ore: Labra incana situ: scabri rubigine dentes: Dura cutis, per quam spectari viscera possent: Ossa sub incurvis exstabant arida lumbis. Hor. Epod., 17: Ossa, pelle amicta lurida. Buc., III: Vix ossibus hærent. Psal., CI, 6: Adhesit os meum carni meæ. Jer. Thr., IV, 8: Annerata è più che carbone la faccia loro, nè c'era da riconoscerli:... la pelle s'impronta delle ossa: e fatta è quasi legno. - V, 10: Pellis nostra quasi clibanus exusta est a facie tempestatum famis. Ovid. Met., VIII: Auxerat articulos macies, genuumque rigebat Orbis, et immodico prodibant tubere tali. [C.] Job., XIX, 20: Pelli meæ, consumptis carnibus, adhæsit os meum.

9. (L) STREMA: pelle si arida. Più: sentiva più paurosa la fame.

(SL) STREMA. Æn., III: Macie confecta suprema... ERISITTON. Per voracità che gli mandò Cerere, dispregiata da lui, vendette la figlia:... Ipse suos artus lacero divellere morsu Cœpit (Ovid. Met., VIII). DIGIUNAR. La Fame a lui Seque viro inspirat, faucesque et pectus et hora Adflat; et in vacuis spargit jejunia venis... Adpositis queritur jejunia mensis (Ovid. Met., VIII). Anco questi versi avrà forse Dante avuti alla mente scrivendo della trasformazione de' serpi, Inf., XXV, e dell'infondersi nell'uomo lo spirito della bestia.

10. (L) Ecco...: tali erano gli Ebrei assediati. BECCO, quasi fiera.

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12. Chi crederebbe che l' odor d'un pomo Sì governasse, generando brama, E quel d' un' acqua; non sappiendo como? 13. Già era in ammirar che sì gli affama, Per la cagione, ancor non manifesta, Di lor magrezza e di lor trista squama: 14. Ed ecco, dal profondo della testa

Volse a me gli occhi un'Ombra, e guardò fiso; Poi gridò forte: — Qual grazia m'è questa?15. Mai non l'avrei riconosciuto al viso; Ma nella voce sua mi fu palese

Ciò che l'aspetto in sè avea conquiso. 16. Questa favilla, tutta mi raccese

Mia conoscenza alla cambiata labbia, E ravvisai la faccia di Forese. 17. Deh! non contendere all' asciutta scabbia Che mi scolora (pregava) la pelle, Nè a difetto di carne, ch'i' abbia;

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(SL) IN. Hor. Sat., I, 9: Nescio quid meditans nugarum; et totus in illis. Ovid. Met., XIII: Pœnæque in imagine tota est. - AFFAMA. Pallad.: Il cavallo affamisi. -SQUAMA. Georg., IV: Horrida vultum Deformat macies.

15. (L) Ciò le prime sembianze guaste.

(SL) VOCE. Quanto affetto in cotesto riconoscer la voce! Æn., VIII: Ut verba parentis Et vocem Anchisa magni vultumque recordor! VI: Notis compellat vocibus ultro.

16. (L) FAVILLA: la voce. LABBIA viso.

e

(SL) RACCESE. Anche altrove dalla luce toglie imagini a denotare la memoria e 'l pensiero. FORESE. Fratello di Corso Donati, dunque affine di Dante, anche amico. 17. (L) NON: non negare tal grazia; o: non contender la mente.

(SL) DEH! Simil preghiera nel XVI dell'Inferno. CONTENDERE. Forse vale: tendere l'attenzione, nel senso della terz. 43, Canto XVII del Purgatorio. Forse: Non negare a me, così tramutato, il mio desiderio. Meglio il primo.

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