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Leggiamogli parte del suo secreto nel volto. Miriamo quella fronte alta, pronta a contrarsi alla meditazione, ad aggrottarsi allo sdegno; quelle guance alquanto incavate, quel mento sporgente, che dicono vigore e accensibilità: dall'aria sdegnosa della fisonomia non so che di posato, di raccolto, e (in profilo riguardandola) di malinconico e di pietoso. Non un pensiero solo, un affetto, da quel volto traspare: que' lineamenti che, leggermente considerati, o infedelmente ritratti, non spirano che la ferocia e la rabbia; la gravità, la sicurezza, il dolore, li modellano ad espressione più varia e più profonda. Tu vi leggi un animo altero e ardente; ma signore del proprio pensiero, ma rinchiuso in sè tanto da non lasciar prorompere invano scintilla del fuoco che lo divora; ma disposto a sentire in mezzo all'ira e all'orgoglio i più miti, i più nobili affetti; accessibile alla compassione che ama, al dolore ch' esalta l'anima, e la fa migliore. Ognuno avrà conosciuto fisonomie somiglianti a questa di Dante, e non che impresse de’segni del rancore, informate a indulgenza e a pictà. Tale era l'amante di Beatrice negli anni più belli, quando il dolore di un affetto solitario e le cure della repubblica sole gli agitavano il cuore: nè prima delle umiliazioni che avvelenarono lo scorato suo esilio, si svolse in lui quello sdegno feroce che poi pullulò si robusto. E quando io riguardo attentamente que' lineamenti che mi si offrivano alterati dall'ira, riconosco in essi il cantore di Francesca, di Matilde, di Beatrice, tanto chiaramente quanto il nemico di Filippo e di Bonifazio. Questa quasi commistione di due contrari elementi, la sensibilità dell'ira e la sensibilità dell'amore, è come il fondo della natura di lui; le sono due corde dalle quali esce, or alterna, ora unita, la doppia armonia.

E l'attitudine che domina in quell'aspetto che dà rilievo a tutte le qualità dell'uomo e del poeta, si è la fermezza: quella fermezza che accoppiata all'amore, gl'ispirava nella grave età un lungo inno trionfale di gloria alla giovanetta del suo cuore, perduta negli anni più spensierati; quella fermezza che accoppiata alla giustizia, lo costituiva giudice de' nemici e degli amici; che accoppiata al dolore, gli faceva sotto alle mutate opinioni tenere nel fondo dell' anima i sensi stessi; che accoppiata all'orgoglio, lo rispingeva dalle mura desiderate della terra natale, la qual egli sdegnava racquistare a prezzo di viltà; quella fermezza che accoppiata all'amore di patria e di vendetta, non gli permise porre mai giù la speranza, lo spinse di provincia in provincia, di corte in corte; e ributtatone, ve lo ricondusse non tanto per mendicarne un ricetto, quanto per arrotare la più possente delle armi, la parola armoniosa, che doveva echeggiare per tanta via di spazi e di tempi; quella fermezza infine che diede forme giganti all' edifizio della sua immaginazione, e tutte le parti fin dal primo ne predispose, e le architettò forti, inmmutabili; e avventò rigido, intero, diritto, quasi saetta, quel verso variissimo, e nell'apparente negligenza sempre ponderato e sicuro.

Da questa dote un'altra gliene derivava, ch'è l'essenza dell'uomo onesto cosi, come del grande poeta, la sincerità: e gliela leggi scolpita nel viso, e ne' suoi scritti la trovi: o sia ch'esalti sè stesso, o sia che i proprii difetti confessi; o ragioni freddo de' suoi, e caldo degli estranei; o taccia di coloro che gli sarebbe

giovato lodare, e parli altamente di quelli de' quali il pur bisbigliare in secreto era pericolo. Per dare a conoscere l'animo suo senza sotterfugi, egli trasceglie un soggetto ove dar luogo a fatti coetanei, ne crea sè medesimo attore, rigetta la lingua dei dotti, come impotente a sfogare tutto quant'egli sentiva; e dove più fervono gli sdegni, quivi egli alza più chiara la voce, le parole più schiette quivi fa risonare; ansioso di trasfondere sè negli spiriti tutti, e in quelli più ove l'odio e l'amore ardono più veemente. Certamente non temeva che il suo secreto si divulgasse, l'uomo che addita le bestie fiesolane, e la p......... sciolta trescante co❜re, e l' Italia non donna di provincie ma bordello, e la cloaca di sangue e di puzzo, e la rogna delle umane viltà. Queste voci esalate dall'ira, accanto all'espressioni di un amore gentilissimo, d'un alto sdegno, d' una religione severa e composta, dimostrano che la sua propria grandezza appunto gli rendeva intollerabile l'ipocrisia. Egli si confessa superbo, lascivo, traviato dall'alto sentiero della virtù: e come mai un grande ingegno sopprimere nulla de' proprii sentimenti della cui mistione era quasi conflato il suo genio? Lui felice se i tempi men duri avessero temperato il suo sentire in tranquilla armonia con le cose di fuori, tanto che il dolore e l'orgoglio inaspriti non fossero diventati rabbia divoratrice, superba febbre d' immortale vendetta! Lui felice, s'egli avesse potuto mostrare sè stesso, e nulla manifestare che puro non fosse! Ma poichè le vicende del secolo, e quella debolezza che viene dalla molta forza, gliel tolse, apprezziamo almeno la sua animosa sincerità; e compiangiamolo!

Un'osservazione ancora innanzi di partirci dall'immagine del poeta. Chi punto conosce la razza toscana vivente, ne ravvisa in Dante (altri già l'osservò) quasi il generale modello: quella fronte, quel profilo, quel mento, ad ogni rivolger d'occhi rincontransi in tutta Toscana; e nelle terre venete altresì che portano una delle più antiche e più gentili schiatte d'Italia. Lo direste nato a rappresentare così la sua nazione, come l'intero suo secolo. Quella forza mista di soavità che distingue il genio toscano dall'attico, e lo rende men vivido, ma più fermo; nell' Allighieri chi non la riconosce eminente, come in una di quelle creature in cui la natura si compiace di raccogliere e di congegnare i disparati suoi doni?

Or dalla vita sua quali conseguenze possiam noi dedurre a meglio conoscere l'uomo? Nato d'un padre già dalle civili discordie cacciato in esilio, e' comincia nelle domestiche tradizioni a succiare fin da' primi anni l'ira e il dolore: al sentimento degli odii fraterni congiungesi la salutare esperienza della sventura, e la sventura rattempra quanto è in quelli di soverchiamente selvaggio; la sventura maestra d'amore e di mansuetudine. Si pensi da quale famiglia e' nascesse e s'avrà in mano una chiave, a dir così, del suo cuore.

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Disposto dalla natura e dalla fortuna all'amore, egli ama nella puerizia e l'affetto gl'insegna la forza di tacere, di soffrire, di perfezionare sè stesso; gl'insegna i più intimi e più soavi fra i terreni dolori. La guerra di quest'amore ideale coi doveri di padre di famiglia, e con altre passioni, non turpi (io vo' sperarlo) ma meno gentili, è una di quelle contraddizioni che la sua natura ci spiega: dall'un lato, ingegno che ha bisogno del grande; cuore ardente dall'altro, al quale una passione più prossima, più irrequieta appar come necessità prepotente.

Educato nelle massime e nelle pratiche di religione severa e profondamente sentita, l'umana corruzione lo indusse a distinguere la religione dai ministri di lei; a onorare quella, e questi sprezzare; a congiungere con l'umiltà di credente devoto l'irreverenza d'incredulo audace. Gli uomini che d'ordinario amano le distinzioni, e si compiaciono, per fuggire fatica, di guardare le cose da un lato solo, si trovano impacciati a giudicar quest' ingegni a' quali apparisce si netto il limite tenuissimo che separa il vero dal falso; imparziali, talvolta almeno, nella stessa parzialità, e nell'ardore della passione presenti a sè stessi. Io non dico che Dante nell'ira non abbia varcato mai quel tenuissimo limite: dico che in mente si retta non solo non s'hanno a chiamare contraddizione ma logica necessità questi due elementi contrarii: riverenza alla religione, e dispetto di chi ne prostituisce l'amabile dignità.

E pare che la fortuna (quella ch'egli imaginava ministra degli splendori mondani, e regnatrice beata nel volgere della sua spera) abbia voluto per tanti casi agitare la sua vita, e quasi per tanti stadii d'educazione condurre, e in contrarie posture atteggiare quell'anima, acciocchè più intero riuscisse il suo svolgimento. Egli, insieme con le gioie e le inquietudini dell'amore, avvezzo a provare i conforti e ad esercitare i rigidi uffizi della vera amicizia, vedersi a un tratto trasportato in una regione d'odio e di rancore, e quivi per forza di sempre sopravvegnenti sventure confitto e compresso. Prima non timido guerriero, poi cittadino autorevole, poscia in tempi difficili magistrato infelice, quindi esule e nemico impotente: l'onore e il dispregio, la ricchezza e la povertà, gli affetti di famiglia e di patria, la vita meditativa e l'attiva, il vizio e la virtù: tutto egli ha sentito in sè stesso. E le lettere e le arti, e le divine scienze e le umane, e quelle che la materia riguardano e quelle che lo spirito, e l'antichità lontana e il mondo vivente, e la propria e le straniere provincie, e i vicini popoli ed i remoti, e gli orrori della selvaggia e le bellezze della coltivata natura, e i principeschi e i popolari costumi, e i tirannici stati e gli anarchici e i liberi, egli ha visitati, dipinti, com'uomo che serba nella contem-plazione la sicurezza e l'agilità della vita attiva, con un'esclamazione, con un'immagine, con un cenno. Talchè si potrebbe affermare che quella mirabile varietà che corre tra il suo Paradiso e l'Inferno, indichi la varietà delle sue proprie esperienze e la guerra d'opposti principii che commoveva il suo secolo.

Nessuna maraviglia dunque se l'odio in quel canto segga allato all'amore, se gli uomini stessi, per opposte qualità, sono qui rammentati con lode, altrove segnati d'infamia; se il sentimento della pietà viene a spargere una stilla di refrigerio sulle fiamme dell'ira, un po' di dolcezza sul fiele del crudele disprezzo. Nessuna maraviglia se il ghibellino Federico, l'uomo si degno d'onore, è rammentato come precursore dell'Inquisizione, cacciato tra gli atei; se la cara buona paterna imagine del vecchio, che gl'insegnò come l'uomo s'eterna, è da lui incontrata sotto le fiamme punitrici di Sodoma; se Bonifazio, il nemico suo, crudelmente vessato dal coronato suo complice, gli trae di bocca accenti di compassione sinceramente addolorata, accenti che onorano non tanto la poesia e l'animo suo, quanto l'umana natura, la qual vi si mostra capace d' equità tanto degna del cielo.

E' non cessa però d'esser uomo: l'equità sua a quando a quando traluce magnanima; ma poi le ire la offuscano, e il provocato dolore la irrita. Ardente nelle lodi, ardentissimo ne' vituperii; or vantatore della propria grandezza, ora dimesso, e conoscente (al modo che i vili non la conosconó) la fiacchezza propria, il proprio nulla; nemico d'ogni simulazione, ma non padrone di sè tanto da non adoperare la forza della mente nel dare alla passione stessa aspetto di generosa virtù; pronto insomma a mostrarsi altrui non pur quale egli è, ma quale e' sente, qual crede d'essere; e in ciò non mai ingannatore, ma tal volta ingannato egli stesso. E ben disse che al suo poema avevano posto mano e cielo e terra; perchè in esso s'alterna quant'ha la parola ispirata di più austero, e la virtù di più candido, e l'amore umano di più profondo, e l'ira di più meditato, e il disprezzo di più amaro, e l'amicizia di più cordiale, e la riverenza di più modesto, e i bassi affetti di più difficile a indovinare a chi non li abbia sperimentati, e i nobili di più generoso. Semplice e forte, ardente e grave, conciso e abbondante, immaginoso e esatto, severo ed umano, tragico e comico, dotto e poeta, Fiorentino e Italiano, simbolo delle contraddizioni che rendono glorioso e infelice questa nazione l'umana natura. Chi cerca in esso non altro che il poeta, non saprà mai degnamente apprezzarlo, giungerà forse a deriderlo; chi lo considera come un infelice mal conosciuto dal suo secolo, e che anela darsi a conoscere mostrandosi intero, facendo pompa dell'ira sua, come della scienza, sdegnando e nei concetti e nei sentimenti e nello stile e nel linguaggio ogni raffinatezza dell'arte; quegli saprà doppiamente ammirarlo nelle bellezze, degnamente scusarlo nei difetti, indovinare gl'intendimenti ch'egli ama talvolta nascondere sotto il velo dei versi strani.

I destini di Firenze erano a que'tempi si collegati ai destini della nazione intera, e l'Italia, allora più che mai, aveva tal parte nelle ambizioni e ne' timori e ne' raggiri di tutti i potentati europei, che Dante non poteva cantare della gran Villa, senza stendere la sua voce al di là dell'Alpi e de' mari. Quella missione che ai di nostri è affidata ai negoziati politici o alla libera voce de' giornali, o a gravi trattati scientifici, Dante, l'esule e quasi mendico cittadino, esercitava, unico tra gli uomini di stato d'allora, unico tra i poeti di tutti i secoli, in mezzo all'intera nazione; la esercitava in quei canti, che i rozzi artigiani ripetevano nelle officine, che i grandi temevano e ambivano; che poi sonavano interpretati dalle cattedre, nelle chiese; che trasvolarono i secoli, ed ora risonano sino in quel mondo ch'egli diceva senza gente, eternando coi dolori e coi rancori di un uomo, le glorie e le sventure di un popolo. Nella mente di Dante le miserie e le vergogne della discordia che agitava Firenze non erano che un anello di quella grande catena che si avvolgeva intorno al bel corpo d'Italia. Egli piange sul suo nido natio, ma dopo avere esecrato i tiranni di cui le terre d'Italia eran tutte piene. Gli Svevi da Federico a Corradino, gli Angioini da Carlo a Roberto, gli Aragonesi da Pietro a Federico, i Tedeschi da Alberto ad Arrigo, i Francesi da Carlo Magno a quel Valois, e i Re di Spagna, di Navarra, di Portogallo, d'Inghilterra, di Scozia, d'Ungheria, di Boemia, di Norvegia, di Cipro, passan tutti a

rassegna, o lodati con parole miste d'esortazione, di rampogna, o maledetti con la potenza che dà l'ira, l'ingegno, il dolore. Non provincia in Italia, non città ragguardevole quasi ch'egli non tocchi nel volo della concitata passione, dond'egli non tragga un idolo di speranza o di vendetta. Gli uomini di tre secoli gli passano dinanzi quasi paurosi di essere marchiati d'infamia; ed egli, come il suo Minosse, conoscitor de' peccati, segna a ciascuno il suo grado dell'inferno, in quell'inferno il cui modello la vendetta gli stampa rovente nell'anima.

Dal vero gli venne il suggello del genio. Quel vasto disegno de' tre mondi è ordinato alle civili intenzioni dell'esule. La descrizione delle bolge ghiacciate ed ardenti, de' cerchi della solitaria montagna, e delle sfere armonizzanti di luce, sono paese lontano, posto ad aggiungere alle figure storiche più evidente rilievo. E le pitture stesse della natura corporea, le stesse visioni del mondo della fede, in tanto nel poema di Dante son vive, in quanto vi scorre per entro, quasi sangue, la storica verità. Gli altri poeti, ai fatti che cantano cercano una similitudine nel mondo de'corpi: Dante agli oggetti del mondo corporeo cerca quasi un'illustrazione ne' fatti della storia; e il suo tremore alla vista dei diavoli è paragonato al sospetto di que' che uscivano patteggiati di Caprona, e le figure dei giganti alle torri di Montereggione, e le tombe degli eresiarchi a quelle d'Arli e di Pola, e il borro infernale alle rovine del Trentino, e la selva dei suicidi agli sterpi tra Cecina e Corneto, e gli argini del nero ruscello a que' de' Fiamminghi e de' Padovani, e le cappe degl'ipocriti alle cappe degli eretici arsi, e le piaghe de' falsarii al marciume di Valdichiana, e il ghiaccio de' traditori al Danubio in Austerich, e l'atteggiamento della frode al giacersi del bevero là tra' lurchi. Le storiche allusioni ora prorompono dalla poesia dantesca come incendio dilatato, ora come lampo sfuggevole, ora scendono quasi fiume pieno, ora serpeggiano quasi per vie sotterranee. Gli è un cenno talvolta, che significa una serie di fatti, di passioni; gli è talvolta un simbolo, che la rabbia assume per trasparir più potente dal velo della profezia e del mistero.

Quindi la difficoltà di penetrare certi intendimenti di Dante; difficoltà la quale talvolta i commentatori confessano o col tacere, o col poco dire, o col contraddirsi. Inutili dichiarazioni grammaticali, ed ingiurie a' precedenti commentatori, e dubbi accumulati a dubbi, e allegorie ad allegorie; tali i più de' commenti. Ma quello che più deve recar maraviglia si è l'abbattersi in uomini ai quali lo studio di Dante fu professione prediletta, e quasi unico vanto, e trovarli non curanti de' fatti più importanti che commettono la poesia dantesca alla storia. Eccovi un autore di fama raccontare che i Guelfi ajutati da Manfredi sconfissero i Ghibellini: eccovi il Perticari creare Giangiotto signore di Rimini, e chiamar degno amico di Dante l'uomo che cent' anni innanzi amò la sorella di Ezzelino beatificata da Dante.

Non accade fermarsi a confutare l'idea strana del Foscolo, della missione apostolica che Dante riceveva lassù in Paradiso per riformare la Chiesa; egli che, gridando con ira passionata l'enormità degli abusi, professava ad un tempo La

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