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MONUMENTO A DANTE IN FIRENZE

Se quando, in sul primo salire del sa- | cro monte, l'infelice Poeta ascoltava da re Manfredi quelle dolenti parole dove al pastor di Cosenza è rinfacciato che, più rigido della divina giustizia, trasportasse di fuori del regno le ossa del vinto nemico e le sperdesse alla pioggia ed al vento; se il cuore in quel punto avesse predetto all'esule che al suo proprio cadavere si sarebbe, dopo solennemente sepolto, minacciata uguale onoranza! Se quando impaziente del lungo irritato dolore, egli invocava sulla patria sua le armi d'Alberto e imprecava a colui la vendetta di Dio per aver lasciato in abbandono il giardino dell'imperio, lo spirito del Poeta avesse potuto vedere l'Italia del secolo decimonono, e vedere sovra il bel fiume d'Arno nel seno della gran villa onorato il suo nome con più splendida pompa che non avrebbe ardito egli medesimo desiderare! Ben gli diceva una voce, che non per merito del grande amore che lo legava alla patria, non per mercè di durati travagli e di nobili uffici, ma per la gloria del sacro suo canto egli sarebbe con altra voce ritornato poeta. Ma se in uno di quegli istanti terribili, quando il grande ingegno abbandonato dalla sua forza par che rimanga men ch'uomo, quando l'in tensità del sentimento infaticabile si pròfonda nella contemplazione delle miserie presenti e dell'avvenire; quando l'ingiustizia degli uomini e la veemenza delle proprie passioni, quasi congiurando insieme, strascinano l'anima a tale stato al cui paragone la disperazione parrebbe un sollievo; se in uno di quegli istanti la voce del suo genio gli avesse gridato: Tu ri

tornerai, ma non quando nè come tu speri; e dal sepolcro uscirà più potente e più sacra per antichità la tua voce; e n'echeggerà tutta Europa; e i tuoi dolori, cittadino derelitto e mendico, saranno dell' intera nazione il compianto e la gloria!

Un monumento è egli forse la più eloquente significazione della gratitudine e dell' ammirazione de' popoli? Il Boccaccio che cinquant'anni dopo la morte dell'esule ne comenta in una chiesa di Firenze il poema e con i proprii rischiara i rimproveri di Dante dinnanzi ai cittadini che non temono d'ascoltarli; il Boccaccio, che per commissione solenne della repubblica reca a Ravenna un sussidio alla figliuola di Dante; il Boccaccio, che la Divina Commedia manda al Petrarca, trascritta di sua mano, come il più caro de' doni; e Michelangelo, che in nome della patria, chiedendo a Leone X le ceneri del Poeta, si offre fare la sepoltura sua condecente in loco onorevole in questa città; Michelangelo, che con le sue pitture comenta le visioni della Cantica; Michelangelo, che afferma proporrebbe le sventure di Dante al più felice stato del mondo: ecco testimonianze d'onore più desiderabili d'ogni splendido mausoleo. Ma il monumento dell'esule era debito di Firenze. Solennemente conveniva riaprire le sue porte a colui al quale il Cielo, come Michelangelo canta, le sue non contese. Ch'ella di quel nome andasse superba, ce'l dicono le sue memorie, i libri de' suoi scrittori, i suoi palagi, i suoi templi. Ove si trattasse d'altr' uomo sarebbe lecito affermare che un busto, un ritratto, una

lapida, una edizione delle opere, un'annua commemorazione, e sopra tutto l'imitarne gli esempi, é de' monumenti il migliore; giacchè questa tanta prodigalità che si pone in un masso, quest' ammirazione fredda ed immobile come il marmo che n'è unico indizio, sembra quasi ludibrio in tanta degenerazione della gloria, in tanto bisogno d'incuorare con segni efficaci di riverenza la timida e negletta e invidiata industria dei vivi. Ma qui di Dante si tratta: e il monumento di lui è quasi il decreto solenne di sua rivocazione, è atto di politica ammenda. In un tempio egli profetava a sè stesso di dover essere incoronato poeta, e il suo monumento fu collocato in un tempio. Qui cominciano le censuré. Non è nostro pensiero nè approvarle, nè ribatterle, nè tutte ridirle. Ognun sa che a raccogliere insieme i pareri i quali all'esporsi d'un nuovo lavoro dell' arte gli si affollano d'intorno, e cozzano tra loro, ne risulterebbe soggetto di dolorose considerazioni sulla scarsità di giudici atti a formarsi un'opinione indipendente dall' altrui detto e dalle proprie passioni. Ognun sa che negli onori offerti alla gloria dei sommi l'ammirazione e la riconoscenza tacciono sovente soffocate dalla smania di riprovare, di deridere; o danno luogo a certo entusiasmo fattizio, sacrilega cosa. C'era chi non in un tempio ma in un portico, dal Poeta denominato il portico di Dante, avrebbe desiderato rizzare il simulacro; c'era chi a ciò destinava la loggia dell'Orcagna, ringhiera un tempo delle civili solennità, e degna nicchia alla statua del libero cittadino. Chi voleva nella piazza di Santa Croce collocata l'effigie colossale del Poeta, sopra un gran masso, da cui, quasi Ippocrene, spicciasse la fonte. A chi dispiaceva per monumento una tomba, quando Firenze non ha le ceneri, indarno desiderate, dell' uomo al quale un cardinale minacciava di togliere la sepoltura, e un cardinale poi più magnifica la rifece. Havvi chi la Poesia al suo sepolcro avrebbe amato non piangente, ma lieta: havvi chi il portamento dell'Italia stima composto a troppa maestà: e chi non vorrebbe il Poeta ignudo: e chi non vorrebbe che il gomito gli stesse appoggiato sull'aperto volume. Alle quali cose altri potrebbe rispondere, che all'autore del poema sacro, degno luogo di monumento era un tempio;

che a Dante un cenotafio in Firenze doveva sorgere quasi indizio del desiderio inesaudito della patria; che la Poesia mezzo prostesa sul monumento, per Dante non piange, ma piange le sventure, retaggio dei disprezzati e perseguitati annunziatori d'austere verità; che l'Italia spira gravità virile e religione imperiosa, perché tale spirava ne' suoi pensieri; che ignudo siede il Poeta, quasi imagine delle anime altere e forti, viventi in tempi di calunnia e di discordia; che il gomito gli posa sull'opera che l'ha fatto per più anni macro, per denotare che le avversità della vita e la smania di legittime speranze miseramente deluse, tanto possono sul cuore de' più sofferenti, da far loro dimenticare ogni idea di conforto e fino il sentimento della propria grandezza. Insomma, mi si mostri lavoro al quale non si possa con un po' d'ingegno e di buon volere apporre censura, o censura da cui non si possa trar soggetto di lode. La passione è ingegnosa quasi come l'affetto. Basta talvolta un'idea del meglio perchè paia deforme anche il bello; e la fantasia preoccupata arriva a scoprire molte più bellezze in un'opera, che non eran forse nella fantasia dell'autore.

Nel giorno che la patria, lieta insieme e dolente, celebrava l'espiazione di un'antichissima e dolorosa memoria, ai canti d'espiazione religiosa era forse conveniente soggiungere inni di civica gioia e pubblico festeggiamento; e una voce poteva innalzarsi, e con più efficaci parole che io non saprei dire alla gioventù fiorentina: « Educatore dell'ingegno, cote alle anime forti è il dolore ». Oh se sapessero coloro i quali la propria viltà condanna a tormentare una grandezza ch'e' non possono comprendere; se sapessero di quanta gloria è ministra, di quanti fecondi affetti nutrice la loro incauta vendetta! Oh chi l'avesse detto a quel Baldo d'Aguglione, che il cittadino da lui tante volte condannato, calunniato, ridotto nel dispregio che segue anco all'immeritata indigenza, a fremere di dolore e ad arrossir di dispetto, avrebbe dalla sventura dedotto nuove forze all'ingegno, e anch'egli alla sua volta giudicati, ma di ben altro giudizio, i suoi nemici, e alla lontana posterità tramandato il puzzo della lor villana superbia e della codarda arroganza! Ma Baldo d'Aguglione si credeva

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Ne tra' suoi sprezzatori e nemici eran tutti villani e vili: v'eran uomini provati anch'essi dalla sventura, educati a gentilezza, atti ad indovinare se non comprendere il pensiero e il cuore di Dante;

di percotere un più vano e più inesperto | propria impotenza, e tanto più intolledi sè; reduce lo temeva, non esule; e il rante ed altero; acre, severo, talor anco titolo di poeta, di dotto, non sarà stato crudele contro la fama di chi lo aveva nella sua mente che un nuovo titolo di oltraggiato. disprezzo. E que' potenti d'Italia a cui la fama del nome metteva riverenza dapprima, poi la povertà ben presto destava irriverente confidenza, e la severità de' modi o sdegno o sospetto; que' potenti d'Italia che con sguardo di pietà insul-e i coetanei li onoravan costoro, e di loro tatrice l'avranno veduto sedere alla mensa loro e mangiare il loro pane; come ne avranno in ogni atto spiati i pensieri, e frantesi, e interpretati al peggio, e preso ad onta il suo dolore, a noja la sua presenza, a scherno il suo senno? Quante volte assetato di libertà, dalla stolta magnificenza di custoditi palagi, dallo schiamazzare di giocolari e di parassiti, dalla pressa de' vili tumultuanti per adulazione, ed ebbri di servitù, l'infelice sarà uscito quasi anelante con l'animo prostrato, non ritrovando più sẻ in sè medesimo, sarà corso a sfogare il dolore nella solitudine fida de' campi inabitati; e quivi riavutosi, avrà ripigliati, quasi scoltura intermessa, i suoi versi, e con accento disperato fattigli risuonare per quelle stesse campagne che, ricreate dalla civiltà, dovevano ancora dopo cinquecent'anni echeggiarne! Quante volte nelle lunghe e povere peregrinazioni che lo facevano esperto de' costumi avviliti, e delle irreparabili sventure d'Italia, incontratosi in uno sconosciuto viandante, e accompagnatoglisi, egli avrà riconosciuto un concittadino, e con l'ansia dell'amore non corrisposto, l'avrà interrogato della divisa repubblica, della moglie, de' figli, degli amici, di quanto egli ignorava, e di quanto da gran tempo sapeva; e l'irà, il dolore, assai più che l'accento, l'avran dato a conoscere per Fiorentino, per Dante Allighieri! Nè la fama grande, nè la riverenza sincera, e le ospitali accoglienze de' pochi degni di lui bastavano a temperare l'inesausta amarezza de' suoi rancori: sospettoso, diffidente, torbido lo rendea la sventura; nauseato e pur avido degli onori; mortificato dalla esperienza lunga della

parlava la fama, e nella boria di loro dot-
trina si tenevano ben più grandi, si spe-,
ravano ben meglio immortali di lui. Ma
di costoro non resta che una smorta ri-
cordanza nelle memorie di qualche eru-
dito; e tanto ne suona il nome, in quanto
amareggiarono la vita di Dante Allighieri.
E però voi che potete, rispettate nel ge-
nio voi stessi, e la vostra fama avvenire.
Troppo già della grandezza sua lo puni-
scono, e l'inerzia de' molti, più ingegnosa
ad offendere e meno evitabile dell'invi-
dia, e il dolore del non essere compreso,
e la tormentosa ricerca del meglio ch'anco
in mezzo all'orgoglio lo riduce sovente a
tremare e a disperar di sè stesso, é le
smanie che dentro gli suscita il soprab-
bondare della fervida vita. E voi che
per la via de' grandi, mossi da irresistibi-
le impulso, v'incamminate, apprendetene
da Dante gli uffizii, i pericoli, i tardi ma
incommutabili compensi: pensate che il
vero può e deve omai dimostrarsi non
più minaccioso tra le fiamme dell'ira e
della vendetta, ma limpido ne' raggi vi-
vifici dell'amore. Non confondete col de-
siderio del meglio la torbida passione del-
l'orgoglio sdegnoso: siate coraggiosi, ma
a tempo, ma per affetto del bene: parlate
a' coetanei un linguaggio che consuoni
alle più nobili parole del passato, e pre-
parateli ad intendere altre più nobili an-
cora nel tempo avvenire. Non isperate
però risanare i rancori, e sperdere la ca-
lunnia; ma potrete innanzi a lei levare
sicuri la voce e la fronte, vivrete re di
voi stessi: e avranno luce i pensieri, e le
parole autorità, dalla pace generosa del-
l'anima vostra.

i

TRIONFO DI DANTE

Il Poeta ritto sulla cima di un colle guarda verso oriente a Beatrice che in mezzo a luce modesta gli appare dal cielo qual egli la dipinge sull'alto del monte. Non intera appar la figura, ma parte celata di lucide nuvolette, e perché l'occhio. del riguardante più fosse chiamato verso la bellezza del viso, e perchè all'amore son fomite i veli, e all'immaginazione il limite talvolta aggiunge grandezza. La luce della donna si spande di lontano sulla fronte al Poeta per mostrare che dall'affetto gli venne l'ispirazione all'ingegno. E quella luce, non ramo d'allorò, gli è corona, si perchè veramente la corona desiderata mancò all'esule sulla terra, si perchè non c'è premio più vero di quello che viene dalla degnamente amata bellezza. Il lume della donna e del cielo si spande d'intorno perchè le imagini d'alto amore che la giovane fiorentina raggiò nella mente all' infelice, si diffussero feconde in altri intelletti per lo spazio de' secoli. La cima del colle è scoperta, ma dietrogli selva amena, e fiori e arbusti all'intorno, con qua e là qualche pianta robusta ed antica. Egli appoggia la manca ad un tronco scapezzato e sfrondato, ma forte, il qual mette dalla radice polloni novelli. Il che significa e il vecchio mondo sul quale egli per meditazione e per ammirazione s'appoggia, e la sventura che tempestosa scrollò e disfrondò la sua vita. La destra mano non tesa in atto di declamatore o di saltimbanco, ma lungo la persona, allentata, non cascante, siccome d'uomo che non ha timori oramai nè speranze. Il viso non di vecchio accipigliato, ma quale nel palazzo del Comune l'hanno scoperto

or ora dipinto di mano di Giotto. Egli guarda all'angelo suo, senza rovesciare il capo all'indietro, senza furore nè stupore, ma in atto umile e consolato. Lo sdegno dà luogo all' affetto sommesso, alla pietà mansueta. Appiedi, due libri, l'uno della scienza divina, dell'umanà l'altro; un compasso a simbolo del suo sapere di cose naturali e della misura mirabile ordinata a' suoi pensieri ed imaginamenti; una spada spuntata, per rammentare le giovanili battaglie e l'inutilmente bellicoso esilio; uno scudo che copre una croce, non sai se a proteggerla od a celarla; sopra lo scudo e vicino alla spada úna penna nera, e da cima, non in punta, un po' macchiata di sangue; sotto, e accosto alla croce, una penna bianca e più grande.

Sul colle, ma men alto di Dante, Giotto, Casella, Guido da Polenta, e Dino Compagni. Giotto riceve dall'alto più luce, e con in mano la matita ed un foglio guarda al cielo, non a Beatrice però. Casella ha sulle ginocchia un liuto e guarda a Dante con amorevole domestichezza. Dino, concittadino di lui, e narratore onesto e piamente sdegnoso della reità della patria, tien gli occhi a terra. I tre son seduti. Guido sta ritto e s'inchina all' esule venerato; Guido che diede l'ultimo e tollerato ospizio ai sempre più intolleranti dolori dell'esule stanco; Guido che con onore regio onorò la sepoltura del povero maledetto dalla patria sua. I tre seggono a dimostrare la famigliarità con cui sono trattati da' coetanei, que' che le generazioni avvenire non senza religioso pudore da lontano ameranno. Giotto e Guido alla destra di Dante, Casella e Dino a manca.

A man manca, alquanto lontano e un po' più giù (a significare la distanza e del l'età e dell'ingegno), stanno e il Petrarca e il Boccaccio; quegli coronato d'alloro riguarda non Dante, ma fra settentrione e occidente non so che in aria, e si tiene con la manca la corona sul capo: il Boccaccio, men prossimo a Dante, lo rimira fisso con amore, ed accenna con mano al Petrarca che riguardi a lui. Sul pendío del colle, ma non si che la vista del Poeta ad essi sia tolta, stanno a diritta Michelangelo e Leonardo da Vinci, a manca l'Ariosto ed il Tasso. A diritta i due artisti, perchè Leonardo con l'ingegno meditante e inventore abbracciò più grande spazio del senno umano e della intellettuale bellezza che non l'Ariosto ed il Tasso; e perchè Michelangelo fu di que' due cittadino più vero e più devoto alla memo'ria di Dante. Il da Vinci è seduto, a dimostrare la pace interiore di quell'ampio e sereno intelletto, con appiede un liuto e la sesta, e in mano il pennello; e'guarda non Beatrice, ma in alto, come se vedesse un'imagine di donna amata. Michelangelo ritto mostra a Dante con pietà disdegnosa i mali del pendío e della valle. 11 Tasso guarda a Beatrice, e volge quasi a Dante le spalle: l'Ariosto le volge alla donna, s'affisa in Dante. Perché l'uno reca del vecchio Poeta in alcuna parte lo spirito intimo, l'altro in alcuna parte l'estrinseca forma. L'Ariosto è seduto, a dimostrare la sbadata tranquillità di quel l'anima che poco conobbe le ispirazioni terribili del dolore: il Tasso è ritto, per dire gli errori della volontariamente inquieta vita sua.

In cima del colle, alla destra di Dante, e più su, sorge un tempio gotico; a manca, pari di lui, un castello. Dalla parte del castello comincia la selva, che si distende per lo scosceso pendio: selva forte in sul primo di grandi alberi, e alquanto luminosa, poi sempre più buja e fitta e selvaggia. Tra la selva appariscono bastite e armature; lontano, un tempio in fiamme, e una rocca assaltata. Scendendo pel colle, due schiere in battaglia, più giù ca

valieri alla spicciolata duellanti con lance, più giù fanti con daghe, più giù con pugnali; e uomini appostati tra 'I folto delle piante col fucile spianato: nel fondo della valle gente che s'accapiglia, corridori al pallio che si danno il gambetto, e spettatori che fischiano e urlano, e fanno atti sconci. Sulle alture del colle aquile, da capo della selva leoni e tigri, poi lupi, poi volpi e gufi. Più scende, e più la selva si fa stenta, e di piante basse e spinose qua e là qualche giardino, ma tra l'oro degli arangi gialleggiano gli occhi d'una tigre: rusignuoli tra gli allori, e appiè dell'alloro vipere e gallinacci.

Nel fondo della valle gente che dorme, e dormendo si stira e dà de' pugni al vicino; gente che sbadiglia, e sdrajata mangia e trinca. Altri ballano, e ballando calpestano capi umani. Chi raccatta monete nel fango, chi soffia nel fuoco e fa fumo, chi ginocchioni dinanzi a un Mercurio;

chi arde incenso a un torso di Venere smozzicato. Più si scende e più la nebbia s'addensa; qua e là qualche spera di luce che sfavilla da uomini solinghi, seduti in un rialzo, e ritti in una colonna come il paziente Stilita. Dall' altro lato la valle lenta lenta alza in costa, e la costa in poggio; la costa ed il poggio coperti di macchie e di spine, sempre salendo più rade, e miste di giovane bosco, e distinte di fiori. Il Parini tra le spine penosamente col bastone s'apre un sentiero; l'Alfieri, da manca, con la spada; il Byron sdrajato tra i fiori e le spine in abito di pari d'Inghilterra, con un berretto greco alla mano e con un velo di donna. Più su il Manzoni seduto, guardando dalla parte di Dante, ma con lo sguardo più alto del capo di quello; e Beatrice a Dante lo accenna, e della luce di Beatrice piove più su lui che sugli altri di sotto. In cima del poggio di contro a Dante un altare ed un globo; e il Vico, a manca, posa la mano sul globo e quasi tutto lo prende: perchè quest'uomo i tempi prevenne, e fu come in visione trasportato nei mondi dell'umanità passati e negli avvenire.

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