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anime incerte o indugianti. Così Virgilio accanto a magnifiche lodi del nuovo imperio, pone le lodi di Fabrizio e di Curio e di Catone, la morte del quale ad uomo cristiano doveva parere men bella. Ma checchè di ciò sia, non resta che non paia irriverente ed atroce il consiglio dato ad Arrigo dall' esule di portar diritto la guerra contro la sconoscente sua patria, ch'egli chiamava insieme e volpe e vipera e pecora scabbiosa, e Mirra e Amata e Golia, contro lei l'ira e l'arme dell' imperatore imprecando. E se tale era il ghi

sue mani trattavano i piedi d'Arrigo: « ed esultò in me lo spirito mio quando dissi fra me: Ecco l'agnello di Dio, ecco chi toglie i peccati del mondo ». Ed egli medesimo quell' Allighieri che in inferno cacciavă, stranamente sbigottito e con la lingua tagliata, Carione, il qual vinse i dubbi di Cesare consigliandolo in Rimini alla guerra civile, egli medesimo il consiglio di Carione ripete ad Arrigo col verso del suo Lucano. E si noti che Cesare alla guerra da Carione consigliata dovette la fondazione dell'imperio tanto esaltato da Dante. Ma Dante e gl'istiga-bellinesimo in Dante, or qual sarà stato tori e gli uccisori di Cesare fa degni di pena; e se al pensiero di lui venerabil cosa era l'impero, non meno venerabili gli apparivano le virtù dell'antica repubblica; e Catone, il nemico di Cesare, era da lui collocato alle falde del santo monte a guidare o a sospingere a purgazione le

in uomini men retti e men alti! Ma Dante nell'atto stesso di vituperare Fiorenza, la loda come la città più potente d'Italia, e conferma il testimonio del Villani, del Compagni, e d'altri, che Firenze dicono delle lombarde sommosse efficacissima istigatrice.

DOTTRINE POLITICHE DI DANTE

Il Pocta che con Lucano afferma le ciyili discordie mosse dalla ricchezza, ch'è la vilissima delle cose, non poteva nè commendar nè soffrire la nobiltà derivata da ricchezza sola. E però loda i tempi quando Firenze viveva sobria e pudica. Quella era nel pensiero di Dante la stagione dell'ideale felicità, quando alle donne leggiadre e agli agi si mescevano i cavalieri valenti e i bellici affanni. Spenta piuttosto che degenerata voleva egli l'antica nobiltà: e della nuova non a tutti i rampolli malediceva, ma a quelli che reputavano potersi l'onore della stirpe da virtù scompagnare; a quelli che in ricchezza ponevano studio soverchio, ch'è d'ogni nobiltà corruttore. E rammentava con lode grande la liberalità del Saladino, cui solo vide sedere in disparte tra gl'illustri del limbo, come se la liberalità l'avesse salvato dalle fiamme infernali. Tra' liberali annovera egli anco quel Galasso da Montefeltro che nel MCCXC andava podestà in Arezzo, domata dalla sconfittà di Campaldino, e s'interponeva tra Guelfi e Ghibellini conciliatore di pace. Dante nel MCCXC nemico d'Arezzo, nel MCCCVIII loda il podestà d'Arezzo ghibellina, già Ghibellino anch'egli: nè questa è la sola volta che a lui cada di commendare la virtù de'nemici. Più circa le persone che circa le cose (avvertimento importante ad intendere l'opere dell'Allighieri), più circa le persone che circa le cose rinvengonsi mutabili e contraddittorii i giudizii di Dante. E circa le persone stesse assai retta ne' centrarii giudizii è serbata la norma d'una leale giustizia. Bertrando d' Hautefort è cacciato in inferno come reo consigliere, ma lodato al

trove come scrittore valente e com' uom liberale. Carlo II in tanti luoghi e per tanti versi vituperato come vile tiranno, è due volte lodato siccome liberale uomo: tanto in questa virtù del dare, che allora chiamavano cortesia, trova di commendevole l'Allighieri; si perchè contraria all' avarizia de' nobili nuovi e dei preti malvagi e de' re tristi; si perchè l'animo non alieno dal donare sembra altresì non alieno dalla generosa compassione, dalla socievole affabilità, dall' ambizione di perdonare e di essere benedetto, e di creare la gioia de' suoi fratelli. Poi questa virtù della larghezza, oltre all' essere direttamente opposta all'angustia degli uomini chiusi d'affetto, d'imaginazione, d'in-` gegno, era virtù nobile veramente, che poneva tra grandi e popolo una perpetua e, secondo il Poeta, desiderabile ineguaglianza; che gli ordini sociali congiungeva senza confondere; che i pericoli e i mali della strabocchevole ricchezza e della cupida povertà temperava. Queste cose dich'io, interpretando i principii di Dante; non già ch'io creda potersi tale stadio di società tra patriarcale e feudale, quando la stagione ne sia già passata, rinnovare a talento. Possono bene i ricchi, almeno in parte, rappresentarne un'immagine, anco nelle società mature, anco nelle decrepite: possono la liberalità proporre a sè stessi non come fine ma come passaggio ad un ordine nuovo di cose, ad una non materiale uguaglianza d'averi, ma virtuale armonia di doveri e d'affetti.

Contro le ricchezze autrici d'ignobile aristocrazia spesso tuona il Poeta e le chiama false meretrici, e piene di tutti i

difetti. Or ecco la lupa carica di tutte brame: ecco colei che pecca co' re, la impudicamente abbracciata al gigante e da lui flagellata; ecco in somma le ricchezze meretrici per sè, e in chi lé onora infon'ditrici d'animo meretricio. Nell' àvarizia era dunque, al parer di Dante, la piaga d'Italia; nell' avarizia come toglitrice di beni e come apportatrice di mali; e nella Jupa non era figurata soltanto l'avarizia d'una corte, ma di tutte le corti, di tutti i nobili guasti, degli uomini tutti.

E però nel luogo dove stanno raccolti, fitti, tanti travagli, dove gli avari co'prodighi si riscontrano come l' onde che si frangon con l'onde, quivi non tutti gli avari son chierici, sebbene in molti chierici e papi e cardinali l'avarizia dimostri il soperchio suo. E sebbene Nicolò III papa sia per tal cupidigia capovolto tra simoniaci ne' fori infiammati; sebbene tra gli avari sia legato il pontefice Adriano V de' Fieschi, tra gli avari purganti è anche posto un re famoso, Ugo Capeto, radice della mala pianta, che, al dire di Dante, «aduggia la terra cristiana tutta". Coloro che nella lupa non videro altro che l'avarizia di Dante stesso, falsarono al certo o restrinsero il concetto di lui; ma coloro ch'altro non vi conoscono se non l'avarizia d'una corte, lo restringono anch'essi. Dante, siccome poeta dell'universale giustizia, rappresenta in sè quasi la natura dell' uomo cristiano, combattuto da' vizii del suo secolo; tra' quali il più dannoso era la cupidità dell'avere. Bestia senza pace la chiama; siccome nel Convivio le ricchezze dimostra essere d'inquietudine perpetua cagione: e soggiunge che a molti animali s'ammoglia, cioè a molti vizi, e ad uomini molti. S'accoppia l'avarizia all'abusata religione e a' sacerdoti perversi; s'accoppia all'orgoglio regio e a principi tristi; s'accoppia alla sete de' piaceri, e alle corrotte donne, e agli effeminati e prodighi cittadini.

Siccome pertanto la lonza rappresenta forse, con la sensualità del Poeta, i vizii de' Brunetti e la lussuria delle Cianghelle e d'altre sfacciate donne del tempo suo, e la frode crudele de' corruttori di giovanette, e il soverchio lusso delle ammollite repubbliche, e la gola de' Giacchi e de' Martini e de' Buonaggiunta; e siccome il leone rappresenta, insieme col non ingiusto orgoglio di Dante stesso e di Odo

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rico da Gubbio, l'orgoglio iracondo di Filippo Argenti, o invidioso di Sapía, o incredulo di Cavalcanti, o impostore di Michele Scotto, o suicida di Pier delle Vigne, o torbido del villan d'Aguglione, o ambizioso del Salvani e di tutti gli occupatori di libere città, od invasore de're stranieri e italiani, o barbarico de' tiranni, o falso de' perfidi consiglieri e seminatori di scandali; così la lupa simboleggia quanti mai cittadini e principi e popoli peccano d'avarizia; e nell'avarizia è compreso ogni smodato desiderio, ogni violento o frodolento acquisto d'averi.

La lupa sono i tiranni che diedero nell'avere di piglio, la lupa son gli assassini da strada, la lupa gli usurai collocati da Dante co' sodomiti e co' bestemmiatori di Dio. Nella lupa son figurati quelli che per danaro mercanteggiano l'onor delle donne, gli adulatori avidi e vili che giacciono nello sterco, i simoniaci che adulterano per oro e per argento le cose di Dio. La lupa sono i barattieri che vendono la giustizia, e con moneta o con lucro qual sia la barattano. La lupa sono i ladri, la lupa i folli, che da ogni cosa si studiano di trarre oro; la lupa i falsarii, la lupa i traditori per vil cupidigia; ed ultimo, in bocca a Lucifero stesso, Giuda il traditore avarissimo. Quante mai dunque ha generazioni l'avarizia, sia privata, sia pubblica, sia violenta, sia vile, di tutte è simbolo la trista lupa. Questo tra' vizii il peggiore, fece già vivere misere molte genti, anche prima che in corte romana, secondo Dante, annidasse; e, unico perchè principale, tolse a Dante l' andar del bel monte. Il qual simbolo ben risponde alle dottrine nel Convivio toccate circa la ricchezza e il pericoloso godimento di quella. E però restringere ad una corte il concetto sarebbe un renderlo e men filosofico e men poetico di quel ch'egli era nella mente dell'esule. Al modo ch' io dico, le due opinioni si conciliano, non si distruggono: non è dal simbolo esclusa nemmen l'avarizia della tracotante schiatta che s'indraga contro chi fugge, e si placa a chi mostra il dente o la borsa; la schiatta degli Adimari, un de' quali occupò i confiscati beni dell'Allighieri sbandito, e sempre per vil cupidigia stette avverso al suo

nome.

Se ne volete altra prova, ascoltate quei canti che nel Purgatorio gli avari fanno

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sentire a correzione del passato lor vizio: e udrete in essi rammentare e la modesta povertà di Maria, e la severa povertà di Fabrizio, e la generosità di Nicolò nel dotare le fanciulle pericolanti; e poi dell' avarizia gli esempi contrarii che cantano nella notte (perchè nella luce del giorno si celebra la gioja del bene, e alle tenebre meglio s'addice il pentimento del male); gli esempi contrarii sono il tradimento e il latrocinio di Pigmalione, la ridevole miseria di Mida, il furto d'Acamo, la morte d'Ananía e di Saffira, le busse di Eliodoro, e Polinestore e Crasso. Ed è cosa notabile che questa commemerazione de' danni dall'avarizia portati, è, al dir di Dante, l'amarissima tra le pene del purgatorio; col qual verso è mirabilmente significata si la turpitudine di quel vizio e sì la potenza che ha al pentimento pure il pensiero del male sull'anima dal terreno carcere liberata. Ora siccome gli esempi del bene sono dedotti dalla madre di Gesù, da un vescovo, da un cittadino romano; e gli esempi del male da tre principi, da un cittadino di repubblica, da un ministro di principi rubatore di cose sacre, da un guerriero, da una donna; così nella lupa è figurata l'avarizia e di preti e di laici, e di ricchi e di poveri, e di guerrieri e di donne. E siccome tra gli esempi della virtù contraria sono rammentati e poveri continenti e poveri liberali con virtù; similmente col vizio dell' avarizia è insieme punita la prodigalità tra purganti, non meno che tra dannati. Sapiente accoppiamento, perchè tanto il prodigo quanto l'avaro oltraggiano la giustizia e la umanità: l' uno e l'altro raccoglie, quegli per isperdere, questi per nascondere; l'uno e l'altro defrauda i meritevoli; l'uno e l'altro conduce a rovina gli Stati. Così nelle cose morali serbava il Poeta quella imparzialità che sovente nelle politiche lo fa singolare. E notate che nessuno altro vizio Dante accoppiò al suo contrario come fece la prodigalità e l'avarizia; perchè nessuno altro è così chiaramente e così dannosamente cagione del suo contrario, ed effetto. Il prodigo è costretto patire le cupide angherie dell' avaro per pascere le voraci suc voglie: l'avaro accumula materia e tentazione agli stravizii del prodigo. In bene ordinata repubblica non si conosce nè prodigalità nè avarizia,

ma gli animi, contenti del poco, ogni soverchio consacrano ad utile e onor del comune; ne' popoli depravati sorgono insieme, e insieme si tormentano, e si divorano, e si corrompono prodighi e avari. E nella medesima persona i due vizii talvolta miserabilmente s'alternano, ridevolmente s'accoppiano. E però le parole di Virgilio: « A che non traggi, o maledetta fame dell' oro, l'appetito degli uomini?», parole dette dell'avarizia, Dante le stende alla prodigalità: tanto a lui parevano questi due vizi gemelli; e di qui meglio intendesi come Dante chiami i più tristi de' concittadini suoi, gente avara; e poi le disoneste magnificenze ne pianga, e le squisite lussurie. Gli era a' suoi occhi un medesimo male sotto faccia diversa. Così alla smodata cupidigia d'avere i danni d'Italia imputando, e alle ricchezze negando potere di crear libertà, e dimostrando questo essere delle preminenze sociali infedel fondamento, l' Allighieri traeva dal seno delle morali le sue civili dottrine, e la morale verità con le sentenze d'Orazio, di Giovenale, di Seneca e della Bibbia convalidava.

Maledette chiama nel Convivio il Poeta

le ricchezze, e nella Commedia maledetta lupa l'avarizia, e con Virgilio sacra, cioè maledetta, la fame dell'oro, e Pluto lupo maledetto, e maledetto il fiorino coniato dalla sua patria; e alle ricchezze egli imputa fare gli uomini odiosi o per invidia ch'altri porta al ricco, o per desiderio di quei beni miseri. Or se la ricchezza partorisce odio, da essa è sciolto il vincolo delle repubbliche, dico l'amore; ed è tolto delle repubbliche il sostegno, vo' dire il coraggio; perchè fa gli uomini vili e ad ogni movere di foglia tremanti. E qui cita i

tre versi di Lucano che spirano la sapienza delle cristiane dottrine circa la sicurezza beata e libera della innocente povertà:

O vitæ tula facultas. Pauperis, angustique lares, et munera nondum Intellecta Deum!

A' quali versi mirabili accenna nel Paradiso, laddove gli accade di esaltare la povertà di Francesco d'Assisi. Francesco egli riguarda come inviato dalla Provvidenza che governa il mondo, con quel consiglio che è inscrutabile ad occhio di creatura, inviato acciocchè la sposa ritor

nasse al suo Diletto che l'ha sposata col | sangue. E raccontate le geste dell'ammirabile uomo (che insieme con una istituzione altamente religiosa fondava una società altamente civile, c, chi ben pensa, tutrice della popolare dignità), scende a mordere i vizj della degenerante famiglia. Non le ricchezze adoprate a bene malediceva il Poeta, non la sordida e turpe inopia lodava. Ma perchè ne'religiosi, principalmente, l'abuso della ricchezza e della potenza è scandalo grave e pericolo; perciò contro le ricchezze ambiziose de' preti e's'avventa, e ad esse imputa le calamità 5 dell'Italia e del mondo. E chiaramente lo fa dire a Marco Lombardo, il quale lagnandosi che l'arco dell' umana volontà non è più teso alle nobili cose, e interrogato da Dante perchè sia il mondo coperto e gravido di malizia, risponde, questo non essere influsso reo di pianeti prepotenti; che se 'l mondo si svia, negli uomini è la cagione; e questa è l'avara abbiettezza del clero. La libertà morale egli colloca fondamento della civile, e nega che i mali degli uomini e de' popoli sieno cieca necessità. In un luogo del Convivio rincontriamo i concetti, e talvolta le parole stesse dette nel Purgatório da Marco, e da tale corrispondenza raccogliamo che questa idea delle cose umane soverchio desiderate da quelli che meno desiderarle dovrebbero, sempre sotto forme varie s'aggirava ne' pensieri di Dante.

Siccome all'orgoglio diabolico, così all'umana avarizia egli dà compagna l'invidia; e dice l'invidia avere dipartita d'inferno primieramente la lupa. E veramente l'avaro non può non essere invido, e l'invido è una razza d'avaro, è un superbo vigliacco: funesta fratellanza e terribile maritaggio d' iniquità. Col nome d'invidia intendeva significare il Poeta il peccato più direttamente contrario all'amore; perchè siccome amore è voler bene, invidia è non solo non volere, ma non poter vedere il ben del fratello. E siccome all'invidia, così all'avarizia e alla superbia è contrapposto l'amore; vizj pertanto insociali tutti e tre, più ch'altri, e di libertà distruttori. Per meglio vedere come Dante credesse collegata l'invidia con l'avarizia, udite laddove, degl' invidi ragionando, esclama : « O gente umana, perchè poni tu

il cuore in beni o che non si possono go. dere in consorzio, o se l'uomo li vuol per sè solo, conviene che agli altri tutti l'uso promiscuo ne interdica »? I desiderio de' beni esterni reputava egli nemico alla vera uguaglianza; non come la possessione della virtù e dell'ingegno, che la vera aristocrazia costituiscono, perchè nè accomunare si possono senza merito a tutti, nè di forza restringere in pochi; son beni per natura loro diffusivi di sè, e quanto più diffusi, altrettanto più giovevoli a coloro da' quali si partono. La ricchezza all'incontro è vantaggio che sul divieto si fonda, e per sè medesima tende a incutere, in quelli che meno ne sono forniti, il desiderio di materiale consorzio, di material parità. Dalla falsa inuguaglianza che le ricchezze pongono, procede adunque una falsa idea d'uguaglianza, che i meno aventi cominciano a vagheggiare come felicità suprema, com'unica libertà.

Le tre teste bicorni spuntate sul timone del carro mistico là sul monte del Purgatorio, simboleggiano anch' esse l'avarizia, la superbia, l'invidia; e il carro trasformato, è in parte il medesimo che la donna veduta nell'Apocalisse fornicare coi re. Se non che il simbolo stesso dell'Apostolo ha ne' due luoghi interpretazione un po' differente. Nell' Inferno le sette teste significano i sacramenti, e le dieci corna, istrumento alla donna e argomento di sua divina origine, i dieci comandamenti della Chiesa fin tanto che l'osservarli piaceva ai pontefici sposi di lei. Nel Purgatorio, all' incontro, il carro della Chiesa, ricoperto della piuma dell'aquila, diventa mostro con sette teste che sono i peccati mortali. Quel variare l'interpretazione d'un simbolo si perdoni all' oscurità del simbolo stesso (chè al tempo spetta dilucidare le verità nascoste sotto i profetici veli del contemplante ispirato ); oscurità che fino ai comentatori prosaici allarga a libero volo la fantasia; poi si perdoni all' amore de' simboli che ne' tempi di rinnovata civiltà si fa sentire più ardimentoso che mai.

Del resto se la donna fornicante era degna di biasimo e di compianto, degni di non minor vilipendio e di pena erano i drudi feroci.

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