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l'arte per cui Dante fu grande, per cui possono tutti gli uomini farsi grandi.

In questa canzone della nobiltà, Dante intende a riprovare il giudizio falso e vile del volgo pezzente e del volgo patrizio: e vile lo chiama perchè da villà d'animo fortificato. E nell'atto del comentare una canzone tra amorosa e morale egli esce in dispute filosofiche, in citazioni sacre, in accenni politici, tutte parti d'un solo concetto. De' nobili ragionando, 'e' si sca

solo a'nobili tristi ma insieme a' re malvagi l'Allighieri negava. Così del buon guelfismo e del ghibellinesimo buono e' raccoglieva insieme i vantaggi. E forse a tal fine, egli diventato Bianco, comentava una canzone composta da Guelfo, quasi per dimostrarci che nella contradizione apparente, l'opinione sua interna conservava una tal quale continuità; chè mutati erano i mezzi, no'l fine. E chi ben considera, in questa che par questione de' titoli si spesso vani, sono rinchiuse tutte insieme le questioni morali e le politiche. E però Dante, sentendone l'importanza, scriveva : « Pericolosissima imprudenza è a lasciare la mala opinione prendere piede. Oh! com'è grande la mia impresa in questa canzone a volere omai così trafoglioso campo sarchiare come quello della comune sentenza!»

d'esser nobile, ma che a modo guelfo, cioè più ragionevole, intende la nobiltà. E comentando la detta canzone, egli avverte: «Per mia donna intendo sempre quella luce virtuosissima, filosofia, li cui raggi fanno i fiori rinfronzire, e fruttificare la verace degli uomini nobiltà ». Qui | vorrebbe il Poeta darci ad intendere che per un amore allegorico egli tanto sospirò e pianse tanto; ma sarà lecito in ciò non credere a Dante. La canzone parla degli atti sdegnosi d'una donna vestita d'uma-glia contro i tiranni: la nobiltà vera non na carne: il Convito composto da Dante, esule filosofo e politico teologante, vuol trarre ad allegoria le cantate rime d'amore, sì per secondare l'amor del tempo, che di simili avvolgimenti si dilettava, onde la scienza e l'arte talvolta parevano enimmi; poi per nobilitare con arcane interpretazioni i giovanili concetti d'amore, e far pompa di dottrina, affettazione a que' tempi comunissima e cara a Dante; da ultimo perchè veramente, come dalla Vita Nuova apparisce, nelle perfezioni di Beatrice, ancor viva, e' riconosceva il simbolo del bello e del vero ideali. Un germe simbolico si trovava già nella canzone, ma nel comento il Poeta ne fece una gran pianta che cela l'imagine viva della sua donna. Perocchè dice che in lei è tutta ragione, che gli occhi di lei sono le dimostrazioni della filosofia, e che il trasmutargli ch'ella faceva i suoi dolci sembianti, significa la scienza ritrosa a certe sue strane indagini sulla prima materia degli elementi. Questa menzogna filosofica, che corrompe e distrugge la poetica verità, non è punto bellezza: e giova notarlo. Il simbolo a tempo è cosa altamente poetica, filosofica, religiosa; ma senza misura adoperato, fa della religione e della scienza un lungo vaneggiamento, e trasmuta la viva luce poetica in nuvola opaca.

Una conseguenza bensì, e nobilissima, possiamo da queste sottigliezze dedurre; ed è, che siccome nell' amore il Poeta cercava la filosofia, così nella filosofia ritrovava l'amore: e però la definiva amoroso uso di sapienza. Amore della sapienza lo disse con italiana affettuosa modestia Pittagora: Dante, amoroso uso, perchè non è sapienza vera senz'uso, e la filosofia vera è pratica tutta, e l'uso che si fa delle teorie ne giustifica la verità. Questo ridurre la sapienza ad affetto, è

Dalla torta opinione ben vedev❜egli provenir molti mali della privata e pubblica vita; intendeva come gli scrittori, purgando l'errore, si facciano dell'umanità benemeriti grandemente.

Per dimostrare com'egli sopra la nobiltà della nascita e delle ricchezze e de' gradi ponesse la nobiltà delle virtù e del pensiero, nel senso del vocabolo maggiore e' comprende non solo la potestà imperiale ma la dignità filosofica. Dante così gl'inconvenienti del ghibellinesimo politico con un suo ghibellinesimo filosofico temperava. E il filosofo, in quanto è filosofo, non voleva che fosse alla macstà imperiale soggetto: ch'è quanto dire, le dottrine del giusto e dell' ingiusto, tutta la morale e la più alta parte della politica, essere indipendenti dagli arbitrii della real potestà.

Promulgatore e custode della ragione. scritta poneva Dante l'Imperatore; chè il popolo non gli pareva da tanto, e la nobiltà forse meno. Al principio della real

potestà er'egli dunque venuto, parte per questo ragionamento fondato non sulle universali ragioni delle cose, ma sulla convenienza del governo, secondo lui, men disadatto all'Italia d'allora; parte per le passioni politiche, le quali al ghibellinesimo l'avevano trabalzato. Ond'egli tra per sofisma di passione, tra per espediente di politica pratica, diceva l'Imperatore essere cavalcatore dell' umana volontà e il medesimo risonava ne' versi dove chiama l'Italia cavalla indomita, e ai preti briganti rimprovera che non la scino seder Cesare sulla sella. A' preti briganti, non alla natura dei tempi, attribuiva il Poeta quella febbre d' inquieta libertà che travagliava l'Italia: febbre che i principi stranieri potevano non ispegnere, ma con la presenza loro irritar più che mai. Se quelle contenzioni tremende avesse l'ecclesiastica podestà temperate con la legge divina, non inacerbite con le umane ambizioni, Dante non avrebbe forse avuta occasione d'invocare estrani soccorsi, e sarebbe vissuto Italiano pretto, e uomo tutto di repubblica; e i nomi di Guelfo e di Ghibellino sarebbero in picciol tempo iti in disuso.

Ma ripetiamo: se le cose politiche voleva l'Allighieri all'imperiale autorità sottoposte, libere ne voleva le intellettuali e le morali, che sono delle politiche fondamento. E però contro Messer lo imperatore Federigo argomenta, tuttochè fosse laico e chierico grande: e dimostra, le ricchezze essere vili. « Così fosse piaciuto a Dio che quello che domandò il Provenzale, fosse stato: che chi non è reda della bontà, perdesse il retaggio dell' avere ». Ed ecco da cinquecent'anni vaticinata la setta che prese nome dal Saint-Simon, ed ebbe, per le abusate dottrine, misera e disprezzata morte. Così largamente intendeva, almeno in teoria, il filosofo nostro le massime ghibelline.

Nobile si stimava egli dunque; e la genealogia propria tesseva là in cielo tra le gioie de' santi e le armonie delle sfere. I miei antichi, dice Cacciaguida, ed io, nascemmo nel Sesto ultimo a toccarsi dai

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corridori del palio la festa di San Giovanni, nel Sesto, cioè, di Porta a San Piero. E segno d'antichità, nota il Lami, è l'avere abitato nel cuore dell'antica città. Più antichi e più nobili de' Buondelmonti, de' Bardi, degli Albizzi erano gli Allighieri. Ma chi fossero i maggiori di Cacciaguida, e donde in Firenze venissero, più onesto, dic' egli, è tacere che dire. Altri vuole che Dante si vergognasse dell' essere i Frangipani stati ligi al Pontefice forse più che al novello Ghibellino non paresse onorevole. Ma forse e' tacque de' suoi antichi per non ne sapere gran cosa (e chi sa se sapesse che un ramo di questi Frangipani, e forse il ceppo, era slavo, ed avevano dominio sulle coste di Dalmazia ?); forse ne tacque per modestia come quando de' ragionamenti tenuti co' quattro poeti nel limbo, dice con modo simile ch'essi andavano parlando di cose ch'egli è bello il tacere. Ma s'altri pur volesse riconoscere in Dante un erede dei Frangipani, potrebbe del suo silenzio trovar ragione non tanto negli aiuti da quella famiglia prestati alla romana corte, quanto nel tradimento da uno dei Frangipani tramato al misero Corradino: il quale arrivato alla spiaggia di Roma in una terra di costoro, quando una saettía navigava verso Sicilia, un di codesti Frangipani, « veggendo (dice il Villani) ch'erano in gran parte Tedeschi, belli uomini e di gentile aspetto, e sappiendo della sconfitta, s'avvisò di guadagnare e d'essere ricco: e però i detti signori prese, e saputo del loro essere, e come era tra quelli Corradino, si li menò al re Carlo prigioni: per gli quali lo re gli donò terra e signoraggio alla Pilosa tra Napoli e Benevento ». Dante, nemico d'ogni avara perfidia e d'ogni vil tradimento, dell'appartenere ai Frangipani non poteva al certo darsi vanto; e forse per questo ne tacque.

Ma a Corradino lo straniero accento fu morte, come ai nemici suoi poscia; e fu sempre più funesta a chi la proferì, che a chi l'ascolto, la voce de' cercanti in Italia detestato imperio o vituperosa rapina.

GUELFI E GHIBELLINI

La perpetua questione italiana, agitata, quasi in urna fatale, ne' nomi di Ghibellini e'di Guelfi, è questione i cui principii ed effetti furono la gloria e la sventura e la vita intera di Dante: questione che in sè racchiude i destini d'Italia e del mondo.

Dice Senofonte, i grandi al popolo eterni nemici. Aristotile narra che nelle oligarchie del suo tempo i nobili giuravano alla plebe odio eterno. Patrizi, cioè divoratori, erano, al dir di Platone, i Ciclopi; patrizi, ch'è quanto a dire invasori, erano i Dori nell'Apia terra: e l'Egitto era sede antichissima d'un' aristocrazia religiosa, dottrinale, politica; e all'Egitto in ciò rispondeva l'Etruria; l'Etruria, alla cui scuola mandavano i figliuoli loro i cittadini di Roma. Antica e perpetua è la guerra; e il dettato romano, che la salute sia legge suprema, non era alla fine che l'articolo decimoquinto della costituzione di Roma; era l'arbitrio ai pochi concesso di reprimere ogni moto di soggetti aspiranti a più giusta uguaglianza, e ciò si faceva per la salute del popolo, ben distinto, come ognun sa, dalla plebe. Or questo dettato della terribile sapienza romana, fu, se non in parole, in fatto, la legge di quante società fondarono l'autorità di pochi sull'abbassamento de' molti. Ma tutte nella prima origine e nell'età della gloria loro, le aristocrazie questo vizio ammendavano con la potenza del senno e con l'esercizio di virtù generose..

Il ghibellinesimo in Italia è, come ognun sa, cosa originariamente straniera. Le invasioni germaniche, imponendo al suolo

italiano padroni nuovi, inerti ed armati, imponevano al vinto il debito di vivere non armato se non per altrui, operoso ad utile altrui. Il nome di gentili, con che per tutto il trecento si chiamarono, denotava che nella costituzione della famiglia, era l'origine così della loro come d'ogni umana potenza. Le castella da essi abitate e le torri dimostrano come straniera cosa fossero c nemica alla nazione della quale vivevano; i nomi di Ghibellini e di Guelfi troppo comprovano la straniera origine delle italiane discordie. Nè fortuita, nè tutta imputabile alla civiltà de' regnanti e de' popoli, è quell'antica smania di chiamare arbitra delle intestine liti la spada straniera. Ai militi italiani non erano estrani gl'imperatori tedeschi; e' non facevano che invocare il capo della famiglia, alla quale si conoscevano appartenere: ei pontefici dal canto loro, invocando la gente di fuori, imitavano l'offerto esempio. E per tal modo il Ghibellino dava fomite continuo al Guelfo, non solo per la ragion de' contrarii, ma per il contagio degli esempi.

O si riguardi pertanto come straniero, o si riguardi come fondato sopra un'inuguaglianza insopportabile a popolo di vivi spiriti, il Ghibellinesimo era contrario all'indole della nuova civiltà italiana. Ho già toccato come il nostro Poeta le ghiBelline massime temperasse parte con la rettitudine dell'animo suo, parte con le guelfe memorie della sua giovanezza. Avvertirò solamente, che nè quella rettitudine nè quelle memoric lo salvarono da certe opinioni crudeli che appena a'poli

ticanti pagani si possono perdonare. Perchè l'Allighieri nella Monarchia chiaro insegna, citando la politica d'Aristotile, che certuni non solo uomini individui, ma popoli interi, son atti e nati a comandare, altri a stare soggetti e servire; e che a tali uomini e popoli, l'essere retti non solo è spediente, ma giusto, quand' anco vi si dovessero condurre per forza, etiamsi ad hoc cogantur ».

Del resto, le due parti che appariscono si nettamente distinte ne' due vocaboli nobili e plebe, nel fatto si confondevano insieme, per lo avvolgersi degli affetti, e per la instabilità degli uomini, e per la incertezza delle idee, e pel mutare de' tempi, e per la varia natura delle razze e dei paesi, causa perpetua delle italiane glorie e sventure. Ond'è che il medesimo nome sovente dúe cose diverse significava; ond'è che l'uomo nelle sue dottrine costante doveva nel fatto parere mutabile, e coloro che per un verso condannava, per un altro lodare o compiangere. La qual considerazione ci giova a conoscere e la storia d'Italia e l'animo di Dante, italiano uomo e ne' difetti e nelle virtù, s'altri mai.

Da questo confondersi di parte ghibellina con guelfa seguiva che un'intera città paresse or guelfa ed or ghibellina, guelfi i nobili, ghibellina la plebe; che l'una parte sull'altra sortisse vittorie si brevi, e poi sconfitte si facili; che tra' pontefici stessi taluno a' Ghibellini inchinasse; che gl'imperatori punissero i Ghibellini; che i pontefici da ultimo alla causa de' nobili e dell'impero si dessero, abbandonando quella del papato e de' popoli.

E di qui si comprende come non sola cupidigia de' dominii germanici, non sola negligenza di quel che dovevano fare; ma un presentimento delle lor vere e legittime utilità abbia aviati dal potentemente favoreggiare parte ghibellina gl'imperatori alemanni. Dopo la Lega Lombarda, l'Italia, se savia era, più non aveva a temere d'estera prepotenza. Ma non era ancora mezzo secolo passato, ed ecco sorgere co' nomi di Ghibellino e di Guelfo la vendetta dello scornato Barbarossa. Gli Svevi dominanti in un angolo d'Italia, combattevano pei loro utili propri di dinastia, non per amore de' grandi, nemici loro. La parte guelfa, immedesimata allora nella causa de' papi, e i tradimenti de'

grandi, non operarono, ma affrettarono la sveva ruina. Che se quella famiglia avesse vinto, e disteso in tutta o in parte d'Italia il poter loro, avrebbero la parte ghibellina o negletta, o fors'anche oppugnata. L'impero servivasi de' Ghibellini come di freno allo inalberarsi delle ringiovanite città; non già che ad alcuna delle due parti egli credesse sicuro procacciare vittoria assoluta. Purchè docili al cenno imperiale, poco importava ai Tedeschi se a popolo si reggessero o a nobili le città: ch'anzi l'inquieto agitarsi dei molti poteva al loro futuro dominio parere più conducevole dello stretto e bene assodato governare de' pochi. Che se i viaggi e le spedizioni straniere non erano in Italia tanto frequenti quant'avrebbero i Ghibellini bramato, se ne dà cagione parte alle guerre germaniche, parte, ripeto, a quel sentimento vero che agl' imperatori tedeschi diceva, l'Italia essere il giardino dell'imperio, non il palazzo; l'Italia meritar tante cure quante bastassero a trarne danaro, ma non essere terreno dove la speranza germanica potesse mettere profonde radici. E quando una germanica dinastia si fosse in Italia stabilmente fondata, e gl'imperatori si sarebbero accorti quanto nemica a loro fosse la parte ghibellina, e i Ghibellini si sarebbero sentiti languire sotto la vicina ombra della imperiale potestà. Quando avessero le due unite forze domato le ributtanti volontà della plebe, si sarebbero azzuffate tra loro; e o l'aristocrazia avrebbe tradito i principi, come fece gli Svevi nel regno; o se ne sarebbe sordamente alienata, come fece sotto Leopoldo in Toscana; o li avrebbe fatti alle sue voglie ministri: e, se ribelli, strozzatili, come seguì in altre parti del mondo; ossivero, perdendo ogni politica e sociale potenza, si sarebbe ristretta ai vantaggi miseri della ricchezza, e fatta venale ed ignobile, e avrebbe trovato o un Luigi XI che la fiaccasse, o un Luigi XIV che la vilipendesse, o un Napoleone che la finisse di disfare, ricreandola. Io non son qui per vantare i benefizi resi da' Guelfi all'Italia: anch'io né so tutti i danni, ne so le vergogne, e le piango: ma dico che i Guelfi sono l'Italia, che l'Italia cristiana è nazione popolana per essenza sua.

Pensano: l'Italia ghibellina si sarebbe a poco a poco composta in unità di for

tissimo regno; nazione, non gente; società, non gregge. Altri potrebbe recare in dubbio se gli Svevi o altra forza di re potesse tutta comporre in volontaria soggezione l'Italia; se la soggezione forzata potesse a lungo durare in tanto concitamento di popoli, in tanta cupidigia di principi forestieri. Ma poniamo l'unità del dominio bastava ella forse a felicitare l'italiana famiglia? Una era pure sotto i Romani la Grecia, una la Grecia sotto i Turchi, una l'Italia sotto i Cesari, sotto Napoleone. Il regno d'un solo risuscita of rinsanica i popoli, non perchè d'un solo ma perchè buono; or chi mi guarentisce la bontà degli Svevi?

pricci di Lodovico, ora ad un desolato periodo del Bembo, ora ad un'ampolla del secento, ora alla gioia raffaellesca, or alla muscolosa gagliardia del Buonarroti, or alle incalzanti e svariate melodie del Rossini; per tutti gli sperimenti e pensicri ed affetti trasporta il contemplante, e lo getta, quasi affannato da visione tra splendida ed angosciosa, sulla soglia del tempio in cui si nascondono i misteri degli anni avvenire. Piangiamo le guelle e le ghibelline arroganze; delle guelfe e ghibelline glorie, là dove ci appariscono, col pensiero godiamo; ma non osiam ricreare il passato, non desideriamo all'Itafia quella unità che dalla natura de' tempi e delle stirpi era alle sue provincie

bellino, era il germe di quella yita in cui le repubbliche del medio evo esultarono baldanzose; pensiamo che senza il contrasto di quelle due forze, l'Italia giacerebbe forse tuttora nel letargo in cui l'abbandonava l'incuria de' suoi imperatori; pensiamo che se Mario era plebeo, patrizio era Silla; ed era monarca Caligola, e Romolo Augustolo anch'egli monarca pensiamo che se le repubbliche del medio evo non fossero, l'Italia non avrebbe forse nè Dante nè Giotto; che i popoli per acquistare nell'avvenire, convien che smarriscano alcuna cosa del passato, e la memoria si restringa acciocchè s'ingrandisca l'intelligenza.

Par fatale all'Italia che ogni sorta di gioie, di sventure, di libertà e di tiran-interdetta. Pensiamo che guelfo, non ghinide, e d'orrori e di gentilezza, dovesse nella storia di lei rinvenire un esempio. Aristocrazie sacerdotali, militari, senatorie, mercatanti, natie, forestiere, non ben forestiere e non bene natie; aristocrazie pacifiche, bellicose, invaditrici, proteggitrici, castellane, cittadine, consentite da popoli, da popoli combattute. Democrazie aristocratiche e plebee, parche e lussurianti, selvagge e gentili; gioco dei re, ai re tremende; viventi d'industria, di commercio, di rapina; con armi proprie, con mercenarie; con propri, con istranieri magistrati; potenti d'astuzia, potenti di lingua; vivaci e conscie di sè fino all'ultimo, o morenti in obliviosa agonia. Regni e brevi e lunghissimi, alternati da reggimento popolare o da usurpazione straniera; invocanti l'usurpazione, o ad essa ricalcitranti, e poi confederati con essa. Bandi, esilii, confische, saccheggi, rapine, supplizii, discordie italiane con nomi stranieri, discordie straniere sotto colore d'interessi italiani; giochi inaspettati dell'arte, del valore, del tradimento: e, le questioni dilatandosi in importanza, restringersi il numero di coloro che prendevano parte a dibatterle; le moltitudini stanche degli odii, della libertà, della gloria, delle sventure, sdraiarsi in disperata pace, e non si riscuotere a quando a quando, se non per sentire lo strepito e il peso delle catene. Dov'è la nazione a cui la Provvidenza abbia data tanta varietà di dolori? La storia d'Italia ora simile all'Inferno, ora al Purgatorio, ora al Paradiso di Dante, ora alle caste leggiadrie del Petrarca, or agli animosi ca

Ho detto che allo spirito guelfo noi dobbiamo l'ingegno di Dante Allighieri. Guelfo egli nacque e Guelfo crebbe, Guelfo combatte, Guelfo amò, Guelfo governò la sua patria: infino a mezzo il cammin della vita fu Guelfo. Come Ghibellino, egli odia; come Guelfo, ama. La sua lingua stessa, che pur vorrebb' essere ghibellina, è guelfa tutta: e basta leggere senza pregiudizi d'amore nè d'odio i libri della Volgare Eloquenza per rinvenirne ivi stesso la prova.

Or per conoscere quanto d'illiberale fosse di necessità nel ghibellinesimo dell'Allighieri, basta rammentare la lettera da lui scritta ad Arrigo, quando sceso in Italia, indugiava di venir a quetare con le armi gli odii della tumultuante Toscana. Al santissimo trionfatore, egli, Dante Allighieri e i suoi consorti, baciavano i piedi, e in lui credevano e speravano; e Dante rammentava con vanto quando le

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