Page images
PDF
EPUB

lor delle nubi, e la forma de' colli, che, o soli o appoggiati l'uno all'altro fraternamente, s'abbelliscono con la mutua bellezza; le rapide chine, i dolci declivii; le cime o salenti quasi gradini d'altare magnifico, o ratto levantisi come un pensiero ispirato; i grandi alberi che da lontano appaiono come macchie, da vicino ondeggiano come mare fremente per vento; la pianura che lieta per breve spazio si distende come viandante che posa per ripigliare la via; e le vallette rimote che paiono, quasi un angusto sentiero, correre sinuose tra monti.

La casa del Petrarca volge le spalle a tramontana: ha da mezzogiorno un prospetto assai ampio di piano leggermente ondeggiato, con di fronte un colle men alto; che solo s'innalza, e par che renda l'imagine della lirica petrarchesca, solinga e gentilmente pensosa. Laddove l'epopea dell' Allighieri è catena di montagne, l'una sull'altra sorgenti, con ghiacci e verde, nebbia e sereno, ruscelli e torrenti, fiori e foreste, ardue cime e caverne cupamente echeggianti. Da manca a levante, altre case tolgono la vista de' colli, che forse un tempo era libera; e certo quelli d'allora erano men poveri e meno ineleganti edifizi: dacchè tuttavia ci rimangono frammenti di stile archiacuto, siccome altrove pe' colli riscontransi tuttavia macerie e lapidi romane. Da ponente a diritta, i poggi vengono più presso alla casa, e la rallegrano delle lor forme snelle: a ponente è l'orto, il quale avrà allora avuto certamente un più vago disordine che i giardini moderni, e altre piante che i giuggioli e i fichi d'adesso. A ponente era lo stanzino dello studio, dove il vecchio onorando, inchinando il capo o a preghiera o a meditazione non dissimile dalla preghiera, morì. Grato all'anime meste l'aspetto del sol cadente; grata quell'ora di sereno e stanco riposo, ch'è come augurio di morte placida, consolata da luminose speranze.

In queste stanze, digiunando sovente a pane ed acqua, vigilando sempre dalla mezza notte, limando con isquisita cura i suoi versi, e meditando la morte, egli visse quattr' anni: se non che a mal suo grado talvolta ne lo chiamavano a Padova, o a Venezia le faccende de' suoi protettori ed amici. A Venezia già nel 1363 gli erano passati tre mesi della state in com

pagnia d'un amico, poveró, ma illustre assai più de' principi protettori; di quel Boccaccio, la cui novella di Griselda egli, vecchio e famoso, doveva nella solitudine d'Arquà tradurre in latino; quel Boccaccio al qual egli nel testamento lasciò da comprarsi una zimarra pel verno. E nella Venezia del trecento, nella quale tuttavia sobbollivano de' popolani, spiriti antichi, più mirabile assai di quella che noi, vagheggiamo, fitta già d'armate galee gravide del commercio d'Europa, fitta di genti animose, infaticate, fitta di templi e di civili edifizii, ogni giorno sorgenti con semplice e puro disegno (chè i Longhena e ́i Becconi erano lontani ancora), nella Venezia del trecento passeggiava il Petrarca, ripensando forse alla Francia, e a Parigi trent'anni fa visitata, il cui sudiciume doveva, come a lui, far úggia all'Alfieri quattrocento e venti anni dopo.

Alla parete forse di questa piccola stanza di fronte ai poggi, a ponente, era appesa l'imagine della Vergine, egregia dipintura di Giotto, la quale il Petrarca morendo lasciò al signor di Carrara; dono da poeta, e più che da principe. A quella imagine riguardando (oh! perchè non l'abbiamo noi? perchè non possiamo affisar gli occhi a quella bellezza dolcemente austera, nella quale s'affisavano commossi gli occhi di Francesco Petrarca? e la pietà degli sguardi del vecchio ritornerebbe a noi quasi riflessa dalla tavola cara), a quella imagine riguardando, ed or alla parete, or al monte, or al cielo sereno volgendo il viso, egli avrà ripensati, e come santa preghiera ridetti nell'anima i versi: Vergine bella; dove ad ogni stanza è ripetuto con instante fervore e con soavità penetrante il dolce nome di Vergine.

In questa camera accanto dormiva col marito la figliuola che Francesco ebbe da illecito amore, d'altro amore che quello di Laura. Come potesti, o Fiorentino, adorare la figlia del Sindaco di Avignone, e con tutti i desiderii del cuore e dei sensi desiderarla, e sospirare di lei in ogni valle, e spargere ai quattro venti i sospiri; e in questo mentre abbracciarti ad un'altra donna, ed avutone un figlio, riabbracciarleti ancora? Ed averne questa figliuola, che adesso, mentre tu, vecchio e pentito, correggi, cantando, un sonetto in morte di Laura, entra nella tua stanza, e ne'

suoi lineamenti ti porta altri rimorsi e l'imagine di un'altra bellezza? Oh Poeta, tu che hai tanto pianto d'amore, hai tu in verità amato mai?

La tavola di Giotto che ornò la casa del Petrarca è perita, è perita la signoria Carrarese; ma consoliamoci: la gatta del Petrarca non ha abbandonato il suo posto. E molti di coloro che visitano Arquà, non per amore del dolce tuo canto, o Poeta, e dell' ameno soggiorno, ma lo visitano perch'altri l'ha visitato; guarderanno più attentamente alla gatta che ai colli, più alla gatta che ai due terzetti dell'Alfieri, che sono de' meglio temprati e più antichi versi ch'abbia la moderna poesia; più alla gatta che al nome di Giorgio Byron, che senza titolo nè altra parola sta confuso fra tanti e dice più d'ogni Jode. Tale è il destino della gloria mondana, acciocchè gli uomini se ne svoglino: che quando ell' ha vinto la calunnia e l'invidia, quando non le può più dar noja nè la rabbia de' deboli, nè la paura

c

[ocr errors]

de' forti, rimangano a perseguitarla l'ammirazione stupida, la lode sguaiata e profanatrice. Accorrevano da molte parti di Europa e del mondo a vedere la casa di Francesco Petrarca, ed intanto lasciavano che la pioggia e le lucertole entrassero nella sua sepoltura. Ma il conte Carlo Leoni, padovano, assumendo co' titoli gli obblighi aviti, fece quello che un da Carrara avrebbe fatto potendo, riparò la toniba cadente: nè con questo esempio soltanto raccomandò agl' Italiani pochi il proprio nome. Possano le ossa di colui che riposa in mezzo a poveri contadini, di colui che aveva pregiato tanto il contadino di Valchiusa e l'orefice di Bergamo, possano rammentarci com'uno de' più grandi ingegni d'Italia sia morto, morto nella solitudine, dopo aver conosciute le dimore di certi grandi; dopo avere, se non lusingate, almen viste senza sdegno le loro crudeli ingiustizie, e accettata da loro l'ospitalità, è ricusatala dalla propria repubblica, e sofferto da essi il nome d'amico.

LÓDI DATE ALL'UMILTÀ DAL SUPERBO POETA

Quanto più grande è l'oggetto che la donando quella parsimonia di sentenze mente considera, e quanto la mente è che tanto gli è cara. Ma rammento con più piccola, tant'ella più lo disforma sfor-quanta dolcezza risuoni nella Vita Nuova zandosi d'adattarlo alla sua poca capacità: ond'è sovente che noi con la stessa ammirazione offendiamo, vituperiamo lodando. Questo avviene segnatamente degli uomini e de' tempi antichi, i quali ciascuna generazione giudica secondo le esperienze e le affezioni proprie, e cerca in quelli o consolazione ai propri difetti o scusa agli eccessi, ossivero alle nuove idee e a' fatti nuovi puntello di esempi. Di quant'io dico son prova le opinioni che corrono intorno all'animo e agl' intendimenti di Dante, il quale a taluni del tempo nostro parve uomo che non prendesse allegrezza se non dall'ira feroce e superba, e le sue imagini tingesse tutte di fosco colore, ed ogni religiosa autorità rigettasse. Ma a chi ben legga la parola di Dante, appar chiaro come egli altamente sentisse ad ora ad ora e l'umiltà generosa e la letizia quieta ed il mite affetto e la divozione pensatamente sommessa. Ma noi per ora di sola una cosa vogliam fornire le prove, dell'affetto che quest' anima altera ebbe alla virtù creatrice della vera grandezza, l'umiltà. Lascio stare lo strazio che agli orgogliosi iracondi egli destina in inferno (1); lascio stare i tre canti del Purgatorio, serbati tutti all'espiazion del peccato della superbia, del quale egli confessa sè reo, ma pur esce in un lungo quasi sermone contr'esso, abbandonando l'usata via della narrazione e del dialogo, abban

(1) Quanti si tengon or lassù gran regi,

Che qui staranno come porci in brago,
Di se lasciando orribili dispregi. — INF. VIII.

il titol d'umile, dato alla donna delle meditazioni sue intense e ardenti, come se in quel titolo, come frutto nel fiore, tutte le lodi fossero contenute, quasi per farla più prossima alla luce di quella che fu Umile ed alla più che creatura. Ed egli, l'anima sdegnosa, si diletta di riguardare le imagini che gli parlano al cuore umiltà, e si discosta un po' da Virgilio, la scienza profana, per meglio contemplarle. Uscito appena d'inferno, come ghirlanda di speranza, gli si cinge alla fronte l'umile pianta del pieghevole giunco, della quale si cingono tutte le anime che vanno a farsi degne di salire alle stelle. Virgilio con parole e con mani e con cenni Reverenti gli fè le gambe e il ciglio dinanzi a Catone; e vuol dire che, come a fanciullo si fa, lo mette ginocchioni e gli china la testa. E Dante, l'austero priore della repubblica fiorentina, per tutto il ragionare che fanno Catone e Virgilio, se ne sta ginocchioni a capo chino; e sparito il vecchio, senza parlare si leva, e come fanciullo porge il viso al maestro, che gliene terga con la recente rugiada. Similmente Sordello, anima altera e disdegnosa, s'inchina con affettuosa ammirazione a Virgilio, Ed abbracciollo ove il minor s'uppiglia; e non gli domanda del suo venire, che prima non dica: S'io son d'udir le tue parole degno. Virgilio stesso, tuttochè turbato da un doloroso pensiero, dà retta all'avviso di Dante, e lo guarda, ma senza adontarne, e con libero piglio risponde che va per chiedere di quel ch'egli ignora.

44

LODI DATE ALL' UMILTA' DAL SUPERBO POETA.

Il Poeta, che pure si gloria della nobiltà | gl'imperanti prestata ai sudditi non dedel suo sangue, vuol che si pensi alla ter- turpa, anzi fregia la maestà dell'impero. ra, comune madre, e riprende i patrizj | Perchè siccome l'umiltà, al dir di Dante, arroganti, ed insegna: Rade volte risurge Per li rami l' umana probitate. Il Poeta che risponde umilmente a re Manfredi, ancorché reo di peccati orribili, rammenta con amore la bontà di Trajano che ascoltò le querele della vedovella accorata, e le risponde: Conviene ch'io solva il mio dovere. E il lamento risoluto della donna, e la risposta dimessa del principe si fanno in mezzo alla calca di cavalieri e sotto le insegne dell'aquile mosse dal vento, come per dimostrare che l'ubbidienza da

Ad aprir l'alto amor volse la chiave, e fu mezzo a recar sulla terra La verità che tanto ci sublima; così quelli de' superbi egli chiama ritrosi passi, e che senza l'alimento del cielo A retro va chi più di gir s'affanna. Le due sentenze, una accosto all' altra, dimostrano chiaro, come al Fiorentino tremendo l'umiltà fossc motore unico di quel che ora noi chiamiamo progresso. Il che, quanto s'accordi con le opinioni e col sentire di certi politici d'oggidì, lascio al secolo giudicare.

NOBILTÀ DI DANTE

Attesta il Boccaccio, trovata moglie al- | l'Allighieri quale alla sua condizione era dicevole, d'una, cioè, delle più illustri famiglie fiorentine. Nè i parenti di lui eran uomini da non badare à tal cosa: nè egli medesimo la nobiltà del sangue spregiava. E nel poema grida contro la gente nuova ch'ha generato in Firenze dannoso ́orgoglio; ed è vero che quando i nuovi ricchi non cercano lode per l'ampia via delle virtù cittadine, ma per titoli vani o per predominanza d'uffizi, accrescono della nobiltà le piaghe, e le diffondono per tutto quanto lo Stato. E codesta è pure sventura de' tempi nostri, che mentre la boria de titoli nelle antiche schiatte viene scemando, cresce intanto una nuova miserabile aristocrazia di commerci tirchi, di sminuzzato sapere, di lusso mercatante, di vizii ragionacchiatori, di inerzia timidamente faccendiera. E però superbo ma non inescusabile è il lamento sulla cittadinanza fiorentina, non più pura ma mista di terrazzani, e sul mal odore portato in città dal villano Da Signa. E segue lagnandosi che, per questo travasarsi della campagna nell'antica città, i conti Guidi, venduto ai Fiorentini il castello di Montemerlo (per tante amare memorie famoso), venissero a soggiornare tra loro; che Valdigrieve lasciassero i Buondelmonti, occasione, non causa, delle sette che dal MCCXV straziarono la terra, ed ebbero orribil fine sotto gli artigli di Cosimo. Sempre, dice Dante, la confusione delle persone fu principio del male della città, come al male de' corpi il cibo indigesto: similitudine che vale un trattato, Perchè

dimostra, l'accrescersi degli Stati e il commescolarsi degli ordini sociali allora solo essere perniciosa cosa, quando i nuovi, elementi non sieno fatti omogenei agli antichi, e, per dir così, digeriti; quando le nuove aggiunzioni, congiunzione non facciano ma discordia. E però dice ché cieco toro cade più presto e più grave di cieco agnello. In queste due imagini è l'arcano tutto quanto e dell'antica e della moderna politica: perchè non nella quantità sta la vita, ma nell'armonia delle forze.

Ma nell'atto che della nobiltà imbastardita si duole, ed afferma con Aristotile l'alterazione precedere sempre a corruzione; confessa insieme l' Allighieri, questa essere inevitabile sorte di tutte le cose umane: nè maraviglia disfarsi le schiatte se han termine le città; tutte le cose avere lor morte. Verità che s'entrasse in mente a coloro i quali combattono per la perpetuità non del diritto ma delle schiatte, in cui dicesi incarnato il diritto, risparmierebbe molte crudeli stoltezze. E per questo senza maraviglia ma non senza dolore il Poeta va numerando gli alti Fiorentini caduti; e mentre rammenta il fugace splendore dell' altrui nobiltà e della propria, e la dice manto che sotto le forbici del tempo presto raccorcia e diventa meschino se di giorno in giorno per virtù non s'accresce, e' non può tutt' insieme non se ne gloriare.

[ocr errors]

Ma quale imagine della nobiltà si formass' egli in mente, lo dice la canzone che comincia: Le dolci rime, nella quale riconosci un Guelfo che gode in cuor suo

« PreviousContinue »