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in quantoche, nota il commento di Pietro, coloro che nulla soverchiamente desiderano, rifiutano per sè anco parte dell' onore meritato, non che pretendere l'immeritato.

Imparate, dice Cristo, da me, che sono mite e umile di cuore (1); intendendo che l'umiltà sta nel cuore prima e più che negli atti, e che in essa è un principio d'umanità e civiltà, come nella superbia è barbarie e salvatichezza ferina. Superbia nuoce a carità (2). Carità, dice Paolo, non è ambiziosa (3); e Tommaso soggiunge: È ordine divino il sottomettersi gli uni agli altri. Anco i maggiori in apparenza di dignità a quei che sono in apparenza minori. E così l'umiltà diventa regola morale che agguaglia le civili e intellettuali e corporee inuguaglianze. Così intendasi quel del Paradiso: Or di': Sarebbe il peggio Per l'uomo in terra s'e' non fosse cive? Si (rispos'io)... E può egli esser, se giù non si vive Diversamente per diversi ufici (4). E di qui misurasi la profondità di quel detto della Somma (5): Giustizia senza umiltà non è giustizia.

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Nell'umiltà, dice Tommaso, l'uomo raffrena l'impeto dell'animo suo, che non tenda inordinatamente a grandezza, ma abbia per norma la cognizione di sè, cioè non si stimi sopra quel che è; e principio e radice d'umiltà è la riverenza dell'anima a Dio. L'umiltà riguarda principalmente la soggezione dell'uomo a Dio per il quale egli assoggetta se ad altri umiliandosi. La ragione dunque ed il limite della soggezione, quel che ne toglie. e la viltà e la durezza, gli è l'essere nel nome di Dio, cioè conforme, non contraria alla sua legge. Non è inconveniente che i beni di altre virtù ascrivansi all'umiltà, perchè siccome un vizio nasce da altro, così in ordine naturale l'atto di una virtù da quel d'altra procede.

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Condizioni della vera umiltà sono adunque il sentimento della grandezza di Dio, e della propria debolezza, scompagnata dagli aiuti superni e de' fratelli con cui conviviamo; il distacco dalla propria opinione, quando non sia debito il propugnarla; il riconoscimento e, se bisogni, la confessione de' proprii difetti; il riconoscimento del bene in altrui; i segni esteriori che dimostrano animo non tendente a soverchiare altrui in modo ingiurioso o pure spiacevole senza pro (6). Vincesi la superbia si con la considerazione delle proprie infermità (7), secondo quel dell'Ecclesiastico: Di che insuperbisci tu, terra e cenere?» (8); si con la considerazione della grandezza divina, secondo quel di Giobbe: Di che s'enfia (9) contro

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» Dio il tuo spirito?» (1); si con la considerazione dell'imperfetto dei beni, onde insuperbisce l'uomo, secondo quel d'Isaia: « Ogni vita è erba, e ogni » gloria di lei quasi fiorire d'erba » (2); é poí:

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« Quasi panno sudicio tutte nostre giustizie. » La cognizione del proprio difetto appartiene a umiltà, come norma del desiderio. Umiltà indirizza e modera il desiderio; non istà nella cognizione sola. L'umiltà riguarda l'irascibile · è parte di temperanza — raffrena la speranza fugge le affettate singolarità; delle lodi proprie sinceramente o arrossisce o si maraviglia (3). Non dobbiamo stimare altrui per finta, ma sinceramente credere che possa essere in altri un bene occulto a noi, e maggiore de' beni nostri (4). Non è gran cosa che noi siamo umili verso coloro da chi riceviamo onore: che questo fanno anco gli uomini del secolo; ma verso quelli segnatamente dobbiamo essere umili da cui qualcosa di male soffriamo (5).

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Ma perchè sempre la vera sapienza cristiana allontana ugualmente l'anima da' due eccessi, però appunto ella insegna che la falsa umiltà è grave superbia; poichè tende a distinguersi e ad accattare gloria (6); che siccome est qui nequiler se humiliat (7), cosi c'è la cattiva superbia e la buona (8); che taluni della stessa umiltà insuperbiscono (9).

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Può l'uomo senza falsità tenersi insufficiente a ogni bene di per sè, cioè in quanto, come dice l'Apostolo, la sua sufficienza è da Dio (10). Dobbiamo riverire Dio ed in lui stesso e ne' doni che di lui veggiamo negli uomini, non però in quel grado che è debito a Dio. Quel che é debito a Dio non è per umiltà falsa da offrire agli uomini. Il sottomettersi ad altrui potrebb'essere in danno del fratello, che quindi monterebbe in superbia e disprezzerebbe l'inopportunamente umiliato. L'uomo deve per umiltà sottoporre agli altri uomini quel che è in lui d'umano, non già i doni divini. La misura dell'umiltà è in ciascheduno data dalla misura della propria grandezza (11). · L'umiltà è da collocare nel vero e non nel falso (12). ·Tendere a cose grandi per confidenza nelle forze proprie, è contrario a umiltà: ma non il tenderci per confidenza nell'aiuto divino; onde Agostino: Altr'è levare sẻ a Dio; altr' è levare se contro » Dio (13). »

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la? - Non v'accorgete voi che noi siam vermi? (Purg., X.) (1) Job, XV, 13. - (2) La vostra nominanza è color d'erba, Che viene e va (Terz. 39). (3) Som., 2, 2, 161. (4) Glos. in Fil., II. — (5) Greg. Reg., II. (6) Aug., Ep. LIX. · (7) Eccli., XIX, 25. Però Dante: Buona umiltà (Terz. 40). (8) Hier. in Isai., LXI. (9) Som., 2, 2, 162 (10) Som., 2, 2, 161: (14) Aug., de Virg., XXXI. - (12) Aug., de Nat. et Gr., XXXIV.

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(13) Aug., de Pœn.

L

Questo passo rammenta i versi del nostro: Deh! se Giustizia e Pietà vi disgrevi Tosto, si che possiale muover l'ala Che secondo il desio vostro vi levi. Ben contrappone l'ala alla gravezza del carico della superbia, chiamato non senza intendimento anche soma: Iniquitates meæ supergressæ sunt caput meum; et sicut onus grave gravatæ sunt super me (1). Che, vero di tutte le colpe, è massimamente della superbia, in pena del suo voler sollevarsi, sopra quello che la natura delle cose comporta (2). Il superbo è pesante ad altrui: e però porta il giogo come bue (3); e sotto quello va rannicchiato tanto da non ci si riconoscere l'umana figura, e pare cariatide penosamente contratta per sostenere que' palazzi dove la superbia ha sovente sua tana (4): or si sa che le cariatidi erano figure di schiavi; e però apposta il Poeta paragona a quelle i superbi, a' quali quel ch'e' fecero o intendevano fare è reso. E sotto que' pesi i purganti si picchiano, che è atto di dolore umiliato Suppliciter tristes, et tunsæ pectora palmis (5). E i superbi hanno più e meno addosso secondo la gravità del vizio e del peccato, appunto come nella pena degli empii i monumenti sono più e men caldi (6), e vanno senza riposo (7) sempre, e a tondo, come nell' Inferno gli avari e i prodighi, voltando pesi anch'essi, e tutti i dannati, dacchè e di bene e di male il circolo può essere simbolo. E cosi curvi è forza loro tenere gli occhi in giù, e leggere in terra scolpiti gli esempii della superbia domata, e non possono volgersi a conoscere i visi di chi passa; sconoscenza che loro era data per pena anco in vita; ma allora per tenere gli occhi tropp'alti, e non degnar di riguardare a' minori (8).

Ripigliamo ora le dottrine del cristianesimo intorno all' umiltà e a' vizii contermini ad essa. L'umiltà reprime l'appetito che non tenda a grandigia fuor di ragione; magnanimità eccita a cose grandi: però le non sono contrarie, ma a norma di ragione ambedue. L'umiltà versa in cerlo modo circa le cose medesime che la magnanimità; che siccome a magnanimità s'appartiene muovere l'animo a cose grandi contro la disperazione, così all'umiltà s'appartiene ritrarre l'animo dall'inordinato appetilo di cose grandi contro la presun

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(1) Psal. XXXVII, 5. Som., 1, 2, 102: Simbolicamente per la gobba intendesi il soverchio amore delle cose terrene. (2) Som., 2. 2, 109,- (3) Purg., XII. Matth., XI, 29, 30: Prendete il giogo mio... ch- è soave. Som., 2, 1, 102: Giogo di peccati. (4) Purg., X. Psal. CXXVIII, 3: Supra dorsum meum fabricaverunt peccatores. (5) En., I. (6) Inf., IX. (7) Terz. 42: Ito è così, e va senza riposo. Inf., XIV, degli usurai: Senza riposo mai era la tresca Delle misere mani. (8) Psal. CXXX, 4: Elati... oculi. Greg. Mor., XXXIV: Superbia, cum exterius usque ad corpus cxlentatur, prius per oculos judicatur.

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zione. Or la pusillanimità se disanima dal seguire le cose veramente grandi, s'oppone a magnanimità; se piega l'animo a cose vili, s'oppone a umiltà, in quanto è l'abuso di quella; e l'uno e l'altro difetto procede da animo piccolo (1).

Che se, al dire di Gregorio (2), contrario a superbia è il dono del timore, ciò intendesi di quella temenza affettuosa e generosa e provvida che risana dal cieco ardimento, e previene le paure codarde ond'esso è finalmente represso. E così intende Tommaso: Nella fortezza è del pari la ragione del frenare l'audacia, del fermare l'anima contro la paura, perchè la ragione e dell'uno e dell' altro si è questa, che l'uomo dee volere il bene ragionevole a costo di qualsiasi pericolo.

E nello stesso sentimento del proprio valore la vera umiltà cristiana non fa forza alla natura, ma si, moderando, la leva più in alto. Conoscere il bene che l'uomo ha in se ed approvarlo non è peccato (3). E non è nè anche peccato volere che le tue opere buone sieno dagli altri approvate; onde in Matteo: Riluca la luce vostra agli uomini, che veggano l'opere vostre buone è ne rendano lode al Padre vostro (4). E però l'amor di gloria di per sè non dice vizio, ma lo dice l'amore di gloria vana. Or può la gloria dirsi vana in tre sensi: da parte della cosa, come cercare gloria da cosa che non è vera o che non merili gloria, per essere fragile e caduca (5); dalla parle di quelli da cui cercasi gloria, come d'uomo il cui giudizio non è certo (6); dalla parte di colui che appetisce la gloria, che non la reca al fine debito, cioè all'onore divino e alla salute de' prossimi (7). Quello in che l'uomo è eccellente egli non l'ha da se ma da Dio; e gli è dato acciocchè giovi agli altri; onde l'onore che a lui ne procede è un bene in tanto solo in quanto serva all'altrui giovamento. Or in tre modi l'ambizione è colpevole: cercando testimonianza onorevole del bene che l'uomo non ha, non recando l'onore a Dio, arre

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(1) Som., 2, 2, 162; e 2, 2, 132: Ambizione d'onore è magnanimità inordinata. —(2) Mor., II; Aug., Ser. I in mont. (3) Onde Dante nell'atto di riprendere i superbi, loda sè del suo canto: E forse è nato Chi l'uno l'altro caccerà di nido (Terz. 35). Dove per altro è da confessare che invece di caccerà potevasi scegliere parola più gentile, segnatamente parlando di Guido l'amico. (4) Matth., V, 16. (5) Purg., X: Poi siete quasi entomata in difetto: XI: Oh vana gloria dell'umane posse! Com' poco verde in su la cima dura, Se non è giunto dall'etati grosse! Ma non è vero che sia titolo di gloria l'avere per successori uomini e fatti men alti ch'anzi la decadenza delle menti e degli animi li rende inetti siccome ad emulare ossia ad estimare le cose grandi; e alla bellezza e grandezza vera s'accresce lume dall' esperienza de secoli e più da con(6) Altrove: degni che da troppo ineguali paragoni. Vana è la gloria che viene di fuori. Purg., XI: Non è il mondan romore altro ch' un fiato Di vento, ch' or vien quinci e or vien quindi. — (7) Som., 2, 2, 132.

standosi in quella testimonianza, e non ne facendo mezzo all' utile altrui (1).

Con questi temperamenti può dirsi che Humilitas pene tola disciplina christiana est (2). Ma la stessa pagana filosofia ne intravvedeva la necessità e la bellezza in idea, dacchè Cicerone stesso in un lucido intervallo lasciatogli dalla sua vanità: È da cansare la cupidità della gloria, perchè rapisce all' animo ogni libertà per la quale i magnanimi debbono con tutte forze operare (3). E Aristotele dicendo che l'onore è premio di virtù (4), dice altresì ch'egli è premio insufficiente (5). E Tommaso dichiara: La vera virtù chiede in premio non l'onore ma la beatitudine della coscienza. Ma dalla parte degli uomini l'onore è premio di virtù in quanto non hanno altro maggiore da rendere (6); ed è grande in tanto in quanto rende testimonianza alla slessa virtù (7). Questo germe dell'umiltà che sotto il paganesimo rimaneva come in terra senz' acqua e senza luce, il Cristianesimo l'ha fecondato con raggio d'idea, con calore d'amore, e con sudori e lagrime e sangue. Egli è il Cristianesimo che ha chiaramente insegnato: Difficile evitare la superbia per essere

(1) Som., 2, 2, 131. (2) Aug., de Virg., XXXI. (3) Cic., de Off., I. — (4) Arist. Eth., I. (5) Ivi, IV. (6) L'affetto e l'imitazione sono premii maggiori: ma Tommaso certamente li comprende nell' idea dell'onore, anzi li sottintende come sostanza di quello. (7) Som., 2, 2, 131. —

quello peccato latente, che prende occasione dal
bene stesso (1). Altri gonfia per oro, altri per fa-
condia, altri per infime terrene cose, allri per
sovrane virtù e celestiali (2). Pericoloso è pia-
cere a sè stesso (3).
ne' servi di Cristo (4).

- La vanagloria ha luogo anco

In tutto la vanagloria è

male, ma specialmente nella filantropia (5). — Non è veramente virtuoso chi fa opere di virtù per fine di vanagloria (6). · La vanagloria entra di soppiatto, e i beni che dentro erano, insensibilmente toglie (7). Quanta forza abbia di nuocere l'amore dell'umana gloria non sente se non chi l'ha preso a combattere; perchè se facil cosa è all' uomo non desiderare la lode finchè non gli è data, difficile è non se ne compiacere troppo quand'è profferta (8).

Ma con l'usata divina equità il Cristianesimo insegna eziandio: Il moto della superbia che occultamente s'insinua non è de' più gravi. — Alcuni moti di superbia non sono peccati gravi, in quanto prevengono la riflessione, e che poi la ragione non consente ad essi (9).

(1) Som., 2, 2, 162.(2) Greg. Mor., XXXIV; e August., Reg. La superbia tende insidia alle buone opere acciocchè periscano. (3) Som., 2,'2, 132.-(4) Chrys., Hom. XIII. —- (5) Greg. Mor., XXXIV. (6) Aug., de Civ. Dei, V. — (7) Chrys., in Matth., XIX. — (8) Aug., Ep. LXIV. (9) Som., 2, 2, 111: La vana gloria nou sempre è peccato mortale.

Come Dante sentisse la bellezza dell' umiltà.

presenti e de' tempi suoi stessi, dacché la sua libertà non er' altro che il governo di pochi sotto la tutela, o giudice o vindice, di potentato straniero.

Ma io per ora di sola una cosa vo' fornire le prove: dell'affetto che quest'anima altera ebbe alla virtù creatrice della vera morale grandezza, l'umiltà. Lascio stare lo strazio che agli orgogliosi iracondi egli destina in Inferno; lascio stare i tre Canti del Purgatorio, serbati tutti e tre ad espiare il peccato della superbia, del quale egli confessa sé reo; ma pur esce in un lungo quasi sermone contr'esso, abbandonando l'usata via della narrazione e del dialogo, abbandonando quella parsimonia di sentenze che tanto gli è cara. Rammento con quanta dolcezza risuoni nella Vita Nuova il titolo di umile dato alla donna delle meditazioni sue intense e ardenti; come se in quel titolo tutte le lodi fossero contenute come frutto nel flore: quasi per farla più prossima alla luce di quella che fu

Quanto più grande è l'oggetto che la mente considera, e quanto la mente è più piccola, tanto più ella lo disforma sforzandosi d'adattarlo alla sua poca capacità, onde é sovente che noi con la stessa ammirazione offendiamo, lodando vituperiamo. Questo avviene segnatamente degli uomini e de' tempi antichi, i quali ciascuna generazione giudica secondo le proprie esperienze ed affezioni, e cerca in quelli o consolazione a' difetti proprii o scusa agli eccessi, ossivvero alle nuove idee e affetti nuovi puntello d'esempii. Di quanto io dico son prova le opinioni che corrono intorno all' animo e agli intendimenti di Dante: il quale a taluni del tempo nostro parve uomo che altra allegrezza non prendesse se non dall' ira feroce e superba, e le sue imagini tingesse tutte di fosco dolore, e ogni religiosa autorità rigettasse; e della civile libertà tale idea gli stesse in pensiero, qual n'hanno i discepoli de' giornali di Francia. Ma a chi ben legge la parola di Dante, appare chiaro com'egli altamente sentisse ad ora ad ora e l'umiltà generosa e la letizia quieta e il mite affetto e la devozione pensatamente sommessa: e come il concetto ch'egli a sè formava della civile felicità fosse inconciliabile con le condizioni de' tempi (1) Parad., XXXIII.

Umile ed alta più che creatura (1).

Ed egli, l'anima sdegnosa, si diletta di guardare le imagini che gli parlano al cuore umiltà, e si discosta un po' da Virgilio, la scienza profana, per meglio contemplarle. Uscito appena d'Inferno, come ghirlanda di speranza espiatrice, gli si cinge alla fronte l'umile pianta del pieghevole giunco, della quale si cingono tutte le anime che vanno a farsi degne di salire alle stelle. Virgilio con parole e con mani e con cenni

Reverenti gli fe' le gambe e 'l ciglio (1),

dinanzi a Catone; e vuol dire che, come a' fanciulli si fa, lo mette ginocchioni e gli china la testa. E Dante per tutto il ragionare che fanno Catone e Virgilio, se ne sta ginocchioni a capo chino; e poi senza parlare`si leva, e come fanciullo porge al maestro il viso, che gliene lavi con la rugiada recente. Similmente Sordello, anima altera e disdegnosa, s'inchina a Virgilio

E abbracciollo ove 'l minor s' appiglia (2),. e non gli domanda con desiderio affettuoso del suo venire, che prima non dica

S'i' son d'udir le tue parole degno (3). Virgilio stesso, turbato da un doloroso pensiero, ascolta le parole di Dante, ed a quelle si scuote, ma senza adontarne; e con libero piglio risponde che va per chiedere di quel ch'egli ignora. Le anime similmente che vengono per salire al monte, confessano d'ignorare la via:

Ma noi sem peregrin, come voi siete (4).

Il Poeta, che pur si gloria della nobiltà del suo

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sangue, vuol che si pensi alla terra comune madre e biasima i patrizii arroganti, ed insegna Rade volte risurge per li rami L'umana probitate (1).

Il Poeta che risponde umilmente a Manfredi re, reo di peccati orribili, rammenta con amore la bontà di Traiano che ascolta il lamento della vedovella accorata. E il lamento risoluto della donna e la risposta dimessa del principe si fanno tra la calca di cavalieri, e sotto le insegne dell' aquila sventolanti, come per dimostrare che l'ubbidienza non deturpa, anzi fregia, la maestà dell'impero. Traiano risponde:

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CANTO XII.

Argomento.

Contempla le sculture del suolo, esempi di superbia punita. Tre Canti e' dà alla superbia, e contr' essa grida, e se confessa superbo. Non solamente politico, ma più morale che non si creda è lo scopo della Commedia. Giungono al varco dove si sale all'altro giro, e trovano un angelo che mostra la via, e col batter dell'ale gli rade un P dalla fronte, il peccato della superbia, ch'egli ha nel giro presente espiato.

Ogni cosa è poesia, le sculture, l'angelo, la salita.

Nota le terzine 1 alla 7; 9 alla 13; 16; 20 alla 24; 28, 29, 30; 32 alla 39; 42 fino all'ultima.

1. Dj

pari, come buoi che vanno a giogo, N' andava ïo con quella anima carcă, Fin che'l sofferse il dolce pedagogo. 2. Ma quando disse: Lascia lui, e varca, Chè qui è buon con la vela e co' remi, Quantunque può ciascun, pinger sua barca; 3. Dritto, si come andar vuolsi, rifémi

Con la persona, avvegna che i pensieri Mi rimanessero e chinati e scemi. 4. Io m'era mosso, e seguía volentieri Del mio maestro i passi; e amendue Già mostravam com' eravam leggieri;

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5. Quando mi disse: Volgi gli occhi in giúe:
Buon ti sarà, per alleggiar la via,
Veder lo letto delle piante tue.
6. Come, perchè di lor memoria sia,
Sovr' a' sepolti le tombe terragne
Portan segnato quel ch'egli era pria
7. (Onde lì molte volte se ne piagne

Per la puntura della rimembranza,
Che solo a' pii dà delle calcagne);
8. Si vid' io lì, ma di miglior sembianza
Secondo l'artificio, figurato

Quanto, per via, di fuor dal monte avanza.

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1. (L) ANIMA: Oderigi. DOLCE PEDAGOGO: Virgilio. (SL) PARI. Æn., Vl: Pariter gressi. — Buoi, Purg., XXVII, t. 29: Io come capra... Io. Puniva intanto sè della propria superbia. - PEDAGOGO. Era quasi fanciullo sotto maestro; e più volte si paragona a fanciullo (Inf., XXIII, t. 13-14; Purg., XXVII, t. 15). Varr.: Instituit pædagogus, docet magister.

(F) CARCA. L'idea di questo supplizio e di quello degl' invidi e de' famelici sarà forse stata al Poeta confermata, se non originata, dal seguente di Baruch, II, 17 e 18: Non mortui, qui sunt in inferno... dabunt honorem..... Domino. Sed anima, quæ tristis est super magnitudine mali, et incedit curva et infirma, et oculi deficientes, et anima esuriens dat tibi gloriam.

2. (L) VARCA: va oltre. QUANTUNQUE: quanto. PINGER SUA BARCA: guadagnar tempo e merito.

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(SL) CALCAGNE. Pesante, ma non improprio traslato. Il calcar de' Latini per isprone, porge la medesima imagine. Ed è men bello di questo: Immensum gloria calcar habet.

8. (L) Si: così. Di miglior semBIANZA SECONDO L'ARTIFICIO migliore quanto a arte. -PER VIA: per lo spazio dove si cammina.

(SL) SECONDO. Nelle scuole secundum valeva quanto rispetto; onde infinito, secondo la grandezza, in numero, come qui in artifizio,

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