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ma avviato alla verità dal suo molto sapere e fors'anco dall'amicizia del Manzoni, Claudio Fauriel. Il signor Ozanam, successore di lui, fece segnatamente su questo argomento un'opera scritta con eleganza e calore e con religiosa pietà: alla quale sarebbe cosa facile aggiungere, di tradizioni narranti le visioni del mondo eterno, parecchi volumi. Prima ancora che uscisse il suo libro, io avevo già cominciato tale raccolta, di cui basta qui dare un saggio, che i limiti del presente commento non concedono di più. In esso, e massime nelle seguenti due Cantiche, io ho messo a profitto le dottrine della filosofia e pagana e cristiana; ma i cenni miei sono stille al gran fiume. E similmente il lettore troverà qui concetti e imagini e locuzioni della Bibbia, di Virgilio, di Ovidio, di Lucano, di Stazio inosservate fin ora, che furono germi ai concetti di Dante. Da ultimo, le conformità del linguaggio suo, che pare sia arcano, col linguaggio scolastico e popolare dei tempi, e col linguaggio del presente popolo di Toscana, vengono da me per primo indicate.

Or di talune delle visioni infernali ecco un saggio:

Frate Alberico, malato grave, dopo stato come morto per ben nove giorni, s. Pietro e due Angeli lo guidano a visitare l'Inferno. Vede i lascivi erranti per una valle tutta ghiaccio (1), le male femmine strascinate per mezzo a una selva di pruni (2), gli omicidi tuffati in bronzo fuso (3), i sacrileghi in un lago di fiamme, i simoniaci in un pozzo (4) che non ha fondo. E nel centro dell'abisso un verme (5) sterminato che inghiottiva e rigettava anime dannate a fasci.

In un'altra visione, alla vergine Veronica spesso Cristo mostrò le colpe che gli empi uomini commettevano: e diceva Cristo a Veronica: Bada, figliuola mia, di quante scelleratezze pecchino in me i sacerdoti miei (6), che ogni venerazione messa da banda, con isfacciata fronte al mio altare s'accostano ad offerire l'ostia divina. Considera altresì, figlia mia, con quanta pazienza (7) io li soffra (8).

Mentre Veronica godeva i regni superni, da Cristo, il quale un coro d'Angeli circondava, è condotta alle tetre carceri dell'Inferno. E vede, Cristo duce, molti luoghi de' dannati: il primo era orribile per una profonda voragine. E disse il Signore alla vergine: Questo è il luogo infelice de' principi e de' signori (9) che furono addetti

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(4) Inf., XXXII, e seg. In altra visione: Stagni di solfo, stagni di ghiaccio, spazzati da un gran vento (Ozanam, p. 356). — (2) Inf., XIII. (3) Inf., XII.

(4) Inf., XIX, XXX, XXXI. — (5) Inf, XXXIV. —(6) Inf., XIX; Purg., XX, XXXII; Par., XXVII. -- (7) Par., XXI: O pazienzia che tanto sostieni ! - (8) Bolland., I, pagina 902. (9) In una visione ranimentata dal signor Ozanam (pag. 364): I signori in torrenti di metalli fusi.

agli eterni supplizii. Quel che segue è l'antro de' nobili e di coloro che, gonfi di superbia, gli eterni beni sprezzarono (4). Il terzo che vedi è il luogo dove si cruciano le anime degli usurai (2). Dei quali tanto grande quivi pareva il numero, quanti uomini non credeva Veronica essere in tutto il mondo. A questi prossimo era il carcere de' poveri, ed erano più pochi degli altri. Poi vide un antro grande dove le anime dei religiosi erano afflitte da duri tormenti (3). E disse Cristo: Questi sono, figliuola mia, coloro che dopo professato i divini riti delle religioni, poscia, immemori della propria salute, mi fecero gravemente contro. Queste cose rammentando il Salvatore, era in volto triste e terribile (4). E anco gli Angeli mostrarono in viso tristezza (5). Molti luoghi altresì di tormenti perlustrò Veronica, di inescogitabile turpitudine, e vide i varii generi di pene inflitti pe' diversi peccati. Alla loro miseria aggiungevasi che per opera di crudelissimi demonii soffrivano atroci tormenti (6). E quando Veronica ebbe vista un'anima che in un vaso di acqua bollente (7) era inchiusa e tormentata, disse il Signore: Questa fu l'anima di quell'infelice monaca che tu conoscesti; e tali e tanti dolori patisce per il peccato del mormorare, e per aver messo male tra le sorelle (8).

In un'altra, Baronto anacoreta si vede, in punto di morte, afferrato da' demonii, da' quali s. Michele lo libera e fa appello al giudizio di Dio. Entrano dalle quattro parti del Paradiso, e tra beati in luogo eccelso egli vede un povero monaco infermo e rattratto in sua vita. S. Pietro rimanda Baronto con due giovanetti che lo guidino a visitare l'Inferno, dov'egli rincontra, fra l'altre cose, due vescovi (9), de' quali uno, peccatore di orgoglio, se ne stava cencioso in abito d' accattone.

In un Canto dell'Edda un padre narra in sogno al figliuolo il viaggio che fece per le sette zone (10) dell'eterno dolore. Le anime, come uccelli (14) anneriti dalla fuliggine, volano roteando sull'orlo dell'abisso. Le femmine impure piangendo sospingevano massi insanguinati (12): uomini

(1) Inf., VIII: Quanti si tengon or lassù gran regi, Che qui staranno come porci in brago, Di sẻ lasciando orribili dispregi! — (2) Inf., XI, XVII. — (5) Inf., VII, XIX. (4) Par., XXVII, t. 55. — (5) Purg., XXX, degli Angeli: Intesi nelle dolci tempre Lor compatire a me.—— (6) Inf., XVIII, XXI, XXII, XXIII, XXVIII. - (7) Inf., XXI.— (8) Inf., XXVIII; Bolland., I, 902. — (9) In una visione citata dal signor Ozanam (pag. 360), sotto cappe di piombo erano preti. In un' altra (pag. 367), i nemici d'un vescovo sono da un fautore di lui messi nel Purgatorio. (10) Sette in Dante i giri del Purgatorio.(11) Inf., V. Le anime de' lascivi sono comparate ad uccelli volanti. (12) Inf., VII. La pena degli avari e de' prodighi. - In Odorico Vitale (1st. Eccl., VIII), selle con chiodi infocati: il vento alza le donne e ce le fa ricadere.

pieni di ferite (1) camminavano sopra un'arena ardente (2) sulla fronte degli scomunicati stava una fiamma a guisa di stella mal augurosa. Lettere di sangue leggevansi incise sul petto agl'invidiosi (3). I già perduti dietro ai godimenti della vita correvano disperati di riposo per una via senza meta (4). I ladri sotto some di piombo andavano a schiere verso il castello di Satana (5). Al cuore degli omicidi si configgevano velenosi serpenti (6); ai bugiardi gli occhi erano mangiati dai corvi (7).

In una leggenda anglo-normanna che narra il viaggio di s. Paolo all'Inferno, s. Michele è guida all'Apostolo e trovano davanti alla porta un albero in fiamme, a cui stanno appiccati gli avari (8). Più là una fornace caliginosa; un largo fiume che travolge demonii corre sotto il ponte (9), dal quale

(1)Delle ferite, vedi Inf., XXVIII. — (2) Inf., XVI: Aimè che piaghe vidi ne' lor membri ! - L'altro, ch'appresso me la rena trita. (3) Al Poeta incidonsi sulla fronte sette P, segni del peccato che l'espiazione cancella. Par., IX, XII, e seg. (4) Inf., V: Nulla speranza gli conforta mai, Non che di posa, ma di minor pena. — (5) Inf., XXIII. Pena degli ipocriti che rubano l'opinione. (6) Inf., XXIV, XXV. Pena de' ladri. — (7) Inf., XXX. Dante mette i bugiardi insieme co' falsatori: comunità sapiente. (8) Nel XIII dell' Inferno è detto che i corpi de' suicidi dopo la risurrezione staranno appesi al tronco entro cui l'anima geme. (9) Inf., XVIII. I ponti varcano sopra le bolge, tra le quali è lo stagno della pece bollente, ove cadono anche i diavoli burlati da un barattiere.

le anime giuste passano, le reprobe se lo sentono mancare sotto. Secondo la gravità del peccato, stanno più o meno affondati (1) nel fiume gli invidiosi, gli adulteri, i prodighi, quei che fecero discordia nella Chiesa. Altri tormenti agli usurai, agli ingannatori del popolo, a quanti non curarono Dio, nè i dolori de' poveri. Le vergini infedeli, in veste nera, sono strette da nodi de' serpi (2). I giudici iniqui passano tra il fuoco e un muro di ghiaccio: i preti malvagi hanno le mani in catene. Da ultimo un pozzo segnato con sette sigilli è sepoltura a chi negó cose di fede (3). In quel mentre vedesi un'anima eletta portata dagli angeli in alto, e ai canti celesti rispondono i pianti de' dannati, a' quali commosso l'Apostolo intuona con s. Michele una prece. Tutti i santi rispondono, e Dio, mosso a misericordia, concede tregua a que' tormenti ogni settimana nel dì del Signore. Così nella Leggenda di s. Brendano, i demonii entro una montagna che vomita fiamme stanno sopra incudini martellando le anime de'perduti (4); ma Giuda in di di domenica ha tregua anch'egli al tormento.

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Il conte Ugolino.

L'ammirazione cieca delle grandi opere e degli uomini grandi risveglia, talvolta, non solo negli ingegni vaghi del nuovo e vani, nelle anime avare di lode, ma fin nelle menti e ne' cuori più retti la voglia, se non di contraddire e detrarre, di dubitare e severamente cercar le ragioni di quella lode che par essere divenuta irragionevole, pare non ben meritata. Se non che da quel dubbio esce più piena sicurezza di ciò ch'è bello e grande dayvero; e quell'indagine insegnando a discernere i gradi e i modi del grande e del bello, ne amplia e la coscienza ed il godimento. Io intesi un giorno, nella mia giovinezza, il buon Torti nella stanza di Alessandro Manzoni ragionare sul Canto dell'Ugolino, e in un momento di mal umore, perdonabile e all'innocenza dell'animo suo ed al dispetto che gli veniva dalle misere battaglie letterarie d'allora, anteporre alle bellezze di quel Canto altri luoghi di Dante men celebrati, e desiderare che in quello il Poeta si fosse fermato più sui tormenti patiti dal conte e da'suoi in quell'atroce

agonia. L'egregio uomo accennava segnatamente ai tormenti della fame, e alla lenta dissoluzione che si veniva in quei corpi vivi violentemente facendo. Ma ben giudicare d'un'opera d'arte non si può senza entrare negli intendimenti dell'autore; i quali conosciuti, allora è lecito cercaro come gli corrisponda l'esecuzione, e s'eglino in sé medesimi sieno ragionevoli, cioè confacenti si dall' un lato al totale concetto dell'opera, e dall'altro alla verità delle cose. Ora chi pon mente, s'accorge che intenzione deliberata di Dante si era in quel quadro far prevalere gli spasimi dell'anima a que' delle membra; e, cred' io, non a torto; perchè il morire di fame non è di per sé la più orribile delle morti; e sappiamo di molti che quella volontariamente prescelsero ad altre morti, tra' quali d'Attico l'epicureo che, annoiato del vivere, avrà studiate le più agevoli vie d'uscir fuori di quella noia, studiatele forse in altri morenti. Già l'esperienza di pur troppi languenti di fame in tauti secoli di questa beata esperienza del vi

ver civile, ci dice che a' primi morsi dolorosi delle viscere digiune succede un letargo, il quale a lungo andare toglie e l'appetito e la possibilità del mangiare; onde a quegli infelici il rimedio del male, se incautamente si appresti, è pericolo di più pronta fine. E intanto il famelico patisce più, in quanto alla necessità del cibo s'aggiunge la smaniosa brama dell'averlo, e il disperato pensiero dell'esserne senza, e il presentimento del soffrire lungo; in quanto, cioè, i mali del corpo sono da quelli del pensiero aggravati. Ed è appunto lo strazio dell'anima che tenendo desti i nervi stessi del continuo, prolunga lo strazio loro, e scuote il letargo supremo, e rinfonde nella morte la vita.

Questo se si consideri quasi meccanicamente la cosa; ma se di qui vuol trarsi poesia, allora più che mai apparisce come il dolor morale debba sopranuotare in certo modo al corporeo sì per la natura spirituale della parola e dell'arte, si perché codesto dolor morale essendo la parte del fatto più intima e la men nota, più merita che il poeta la faccia soggetto all'altrui e alla sua meditazione e pietà. Non dee già l'artista ricercare il nuovo perchè nuovo, o il singolare perché singolare; ma le cose singolari e le nuove contemperare alle già note e comuni per guisa che quelle dal componimento suo acquistino universale evidenza, queste appariscano anch'esse con un non so che di nuovo e di singolare. Il non voler dir cosa che non abbia aria d'originale fa dar nello strano, e il nulla dire che non sia noto già fornisce non insegnamento ma noia. Nel fatto d'Ugolino la parte più rilevante in sè stessa, quella che moralmente e civilmente più premeva al Poeta, non era già descrivere uno o più uomini che basiscono di fame, ma un superbo e traditore della sua patria che in pena dell'orgoglio e del misfatto e tradito, e muore morte lunghissima non tanto in sè quanto nella fame de' suoi cari innocenti. Il dolore corporeo de' quali egli non poteva sentire in sè stesso se non colla fantasia e con l'amore e con la meditazione assidua del presente spettacolo fierissimo; ond'è che il dolore corporeo stesso a lui si converte in dolore dell'anima, e così si fa più sottile e più penetrante. E questo dolore con la sua maggior forza doveva quasi soffocare l'altro nel corpo del padre, si che, sentendo la fame dei figliuoli e la rabbia e il rimorso di quella pena e delle colpe che la provocarono, egli veniva a sentire meno la fame sua propria; appunto come chi trafitto da grave ferita, quantunque digiuno d'assai tempo, sentirebbe, più d'altro, gli spasimi della trafittura. Così riIchiede la verità e della natura e dell'arte. E che Dante così la intendesse, lo dimostra il verso ultimo che dice Ugolino. Apparisce da quello come il dolore non cospirasse già col digiuno per accelerare la morte, ma combattesse contr' esso per

prolungare la vita, che è pena tanto più orribile, quanto, più che il vuoto degli organi digestivi, è affannoso quel vuoto che fa quasi ansimare i pensieri. Onde solo dopo codesta lunga battaglia delle due forze dissolventi, quella che in sul primo era minore, da ultimo vince; così come all'agitarsi dell'uomo convulso o del briaco succedono la prostrazione estrema ed il sonno morboso. Se per contrario al dolore più estrinseco si desse vittoria, l'altero patrizio ed il padre cederebbero il luogo al carcerato volgare, ad un affamato qualunque si sia; il quale non sentendo in quelle ore tremende quasi altro che la brama del cibo negato, non moverebbe a pietà di sè, ma solo a ribrezzo; non ecciterebbe nè anco contro il perfido nemico quell' abbominazione ch' egli intende principalmente eccitare, dacchè codesto nemico non altro avrebbe con la sua crudeltà fatto, che dare molestia ad un corpo vile privato di moral sentimento; non sarebbe l'anima di lui tanto intimamente rea dell' avere intimamente tormentata un' altr' anima.

Fate meno sensibile a questi dolori intimi un condannato, e il vostro canto verrà a partecipare di quella stupidità. Sarà al più tutto feroce, ma senza quel misto di sdegno e di compassione che qui è la bellezza sovrana. Descrivete i dolori più estrinseci ed avrete un articolo di giornale di medicina, un'anatomia messa in versi, senza i compensi e i vantaggi che ha in siffatti lavori la scienza. Ma l'arte non anatomizza, non distilla a goccia a goccia, non dico il veleno, ma neanco l'essenza odorosa; la potenza dell'arte è nel raccogliere in unità gli sparsi elementi delle cose, rendere spirituale quel ch'è più materiale nel mondo di fuori, non che negare allo spirito quella parte ch' egli ha veramente nelle angosce e delizie della vita. Così la intendevano i Greci l'arte; così tutti i grandi di tutti i tempi. Il pigiare sulla fame più a lungo, avrebbe tra gli altri inconvenienti snaturato il soggetto per forma da fare imaginare verisimile quella schifosa interpretazione che all'ultimo verso fu data, cioè che il padre moribondo avesse forza e cuore di lacerare co' denti le carni de' propri figliuoli e di pascerne il ven

tre suo.

Non è già che la parte corporea sia trasandata tutta; se non che oltre alla ragione detta, del non troppo arrestarvisi, due altre considerazioni, o piuttosto sentimenti, ne distolsero forse Dante; che se fin nelle cose piacenti la minuziosità è intollerabile, molto più è nelle orribili cose; massime laddove il canto abbonda di orribilità: e che non solo nell'arte, ma ne' comuni colloquii più possente del parlare prolisso assai volte è la reticenza. Già il dannato che mette i denti nella nuca dell'altro dannato, come il pane si mangia per fame, gli rode il teschio e l'altre cose, al modo

che Tideo rose a Menalippo le tempie, dispone a figurarsi la rabbia della fame che deve avere nella carcere il conte patita. E il sogno delle cagne magre, anticipando con l'augurio il tormento, lo prolunga all'animo del leggitore. Questo è veramente artificio da poeta: trasportare l'anima nel futuro, e la realità nel campo dell'ideale, che nella sua vastità indeterminata fa le cose allegre e le tetre apparire più grandi. Anche qui dalla regione corporea nella morale è levato il dolore, ma da quella sulla corporea ripiomba più grave, ei morsi della fame vengono dal misero sentiti in sogno innanzi ancora ch'egli in effetto gli senta. E perchè il sogno non è solamente l'apprensione ma la memoria del patimento, di qui si fa luogo a imaginare che, prim' ancora che l'uscio fosse inchiodato, il cibo scarso fosse a' carcerati saggio della morte. Epperò i figliuoli anch'essi sognano, e fra il sogno piangono e chieggono pane. Al vedere il padre mordersi le mani, non imaginerebbero certo ch'e' lo facesse per necessità di mangiare, se non sentissero in sè medesimi quella necessità crudelmente. E così dagl'indizii e dagli effetti argomentasi lo stato loro più pienamente forse che non farebbe l'espressa parola. Due di stanno tutti muti, non solo per la rinchiusa ambascia alla quale ogni sfogo sarebbe poco, non solo per non si angosciare a vicenda, ma perché la fame li ha mezzo sepolti in quel suo letargo ch'e tra l'obblivione e il sentimento, tra la morte e la vita. E di qui cresce potenza all'esclamazione ahi dura terra! così come l'interrogazione che succede al sogno di che pianger suoli? ci comanda di pensare a tutto quello che s'annunziava al cuore del reo, cioè anco agli spasimi delle viscere sue. Il verso che si protende come corpo presso a spegnersi degli ultimi movimenti, Gaddo mi si gitlò disteso a' piedi, non è certamente un frammento di trattato anatomico, ma dice qualcosa anco a' sensi. Come tu mi vedi, Vid' io cascar li tre, dipinge anco gli atti che precedono al cadere loro; e ha doppio significato: come vedi me qui, cosi io in quel buio con gli occhi offuscati dal digiuno li vidi, nel pieno lume dell'affanno mio e loro, cascare e morire: come tu vedi me qui disperato, fremente di dolore iracondo, nell'atto di sfogare quello sopra il teschio dell'arcivescovo, così disperato ero io allora e sparuto e livido e compreso della morte mia e dell'altrui. Ma veduta ch'egli ebbe la fine de' suoi diletti, allora gli occhi gli s'intenebrano nel languore e nel dolore, e, divenuto cieco egli brancola sopra i quattro cadaveri. Questo pare a me più che ritrarre in parole o impotenti o eccedenti quella convenienza che il bello richiede anco nelle imagini spaventose, ritrarre lo squarcio che nelle viscere di lui faceva la fame. Digiuno la dice egli da ultimo, quasi per attenuarne l'idea e far che sovra

essa giganteggi il sentimento del dolore d'entro. Ma dopo quest'ultima voce digiuno, per darle in atto quel pieno significato che pareva voler nascondere, riprende il teschio co' denti, e lo rode a modo di cane: quel teschio a'cui capelli egli aveva, per parlare le sue vendette, forbita la bocca stillante di tabe, il qual forbirla contamina più e più, e insanguina l'anima.

Ma queste sono le bellezze minori, e minori voleva il Poeta che fossero. L'intendimento suo è espresso chiaro. A vedere i due nella buca agghiacciati, nel segreto de' quali la passione eterna ribolle, domanda il perchè l' uno mangi dell' altro, e promette che s'egli ha ragione di dolersene, il mondo ne risaprà la ragione; e il dannato a tale promessa vince l'orrore del ritornare per quelle flere memorie, acciocchè infamia ne venga al nemico traditore. Saprai s'e' m'ha offeso, semplicità quasi ironica, ben più possente delle anime offense nel Canto della donna dannata per amore, più potente di quell' altre parole nella semplicità si accorate: il modo ancor m'offende. Che Ugolino morisse di fame, Dante già lo sapeva ; or quegli parla per raccontare le particolarità segnatamente che fecero la morte sua più cruda, e queste non erano le comuni a chiunque muore affamato. E per questo è più volte ripetuto in senso non corporeo la parola dolore: dolor del cuore (1) - disperato dolor, che 'l cuor mi preme ambo le mani per dolor mi morsi assai ci fia men doglia se tu mangi di noi — più che 'l dolor potè 'l digiuno; dove nell' ultimo massimamente le due virtù distruggitrici, siccome ho detto, veggonsi contrapposte. Altro contrapposto terribile è chiamare muda il doloroso carcere, l'orribile terra, e far penetrare in quel bujo per lunghi mesi il notturno lume della luna, e poi il giorno del sogno un poco di raggio che fa scorgere al padre cinque morti imminenti. Sognano tutti sventura già estrema, già prossima; ma ciascuno sogna una fantasia sua, nè essi forse lo dicono al padre per non gli mettere sgomento; e forse per non sapere essi stessi dipingere in parole que' terrori inessabili; la quale varietà cosi ambigua lascia spaziare il pensiero per più ampio spazio di spaventi come per campo di desolazione uniforme. Egli, il padre, narra il sogno suo, che gli rappresenta il peggior d'ogni strazio; a quello spirito superbo e contaminato di misfatti i nemici vincitori accaniti inseguenti Cagne magre ma conte, e la loro rinomanza e potenza, gli fa il tormento più acuto.

(1) Dolor, che 'l cuor mi preme - Pensando ciò ch' al mio cuor s'annunziava. Egli vuole far piangere i patimenti del cuor suo, non del ventre; vuole acuire a compassione il pensiero di Dante, non rendere attonito il senso. Però dice: Pensando quelli... E dell'arcivescovo: per l'effetto de' suo' ma' pensieri, de' quali pensieri il dannato si vendica rodendogli la testa in cui sorsero.

Non i figliuoli, ma esso Ugolino sente l'inchiodarsi dell'uscio, cioè intende il senso di quel suono che tutti ricevono per l'orecchio, ma non sanno che sia parola di morte, e di qual morte parola. L'ignoranza loro fa più rabbrividire il cuore del padre che li guarda muto per leggere ad essi nel viso se siano accorti del vero, se ad essi incominci l'agonia, il cui calice egli ha già nel pensiero bevuto tutto, senza far motto li guarda e poi si morde le mani, e al loro interrogare, che li dimostra improvvidi del loro destino, non risponde, e alla profferta di straziante pietà che gli fanno, si cheta per non li martoriare vieppiù, e poi tutti tacciono; e quando il primo gli cade a' piedi, il padre non mette nè grido nè lamento; e solo quando son tutti morti rihà la parola dopo perduta la vista; li chiama; tre giorni li chiama. In mezzo a tale supplizio poteva egli aver luogo il pensiero della sua fame, poteva egli ridire con lungo discorso quel che dalla fame patissero gli altri che stavano muti, o dicevano parole più amare d'ogni querela? E che poteva egli dire di più, se non che li vide morire, li vide morti. Scorsi per quattro visi il mio aspetto stesso, significa, se così piace, lo sfigurarsi che per la morte lunga venivano facendo i visi e i corpi de'giovani, come il suo; ma significa ancor più, che in quegli specchi di morte il padre riconosce atterrito sè stesso, si sente autore e del nascere e del morire loro, s'immedesima nel lor patimento. Non dice in quattro visi, ma per, facendo errare moltiplicato e ripercosso per quattro aspetti un sentimento quasi più tremendo del nulla. I figliuoli gli si offrono in cibo; e se qualche macchia dovessimo qui notare, sarebbe quella forma di mezza amplificazione: tu ne vestisti queste misere carni, e tu le spoglia, che sa d'artifizio, sebbene sia da notare che a que' tempi nutriti nella lettura de' libri biblici, l'imagine del corpo umano figurata come una veste era comune tanto da non parere inverisimile anco in momenti di dolore supremo. Ma, dopo confessato che questa terzina, da taluni lodata come delle più belle, è la meno; corre debito di soggiungere che la pietà de' figliuoli e la quasi oltraggiosa ignoranza loro dell' amore paterno doveva essere

a lui doppia pena, e che il comprimere ogni sfogo per non li fare più tristi, doveva far crescere la sua ambascia. Pare contraddizione il dargli mangiare le carni proprie e poi il dire di Gaddo: padre mio, chè non m' ajuti ? lo non so s'io abbia a dire che codesta è una delle contraddizioni tante della misera nostra natura, la quale, dopo sinceramente proffertasi al sacrifizio, richiede poco appresso da altrui quello di che ell'era pronta a fare dono; o s' io abbia a dire piuttosto che l'ajuto invocato dal moribondo non è di pane, impossibile omai a trangugiare e di cui nel delirio del dolore egli ha smarrito il bisogno e quasi l'idea, ma l'ajuto de' conforti e dell' affetto del padre, il quale, tenendosi tanto lungamente mutolo in mezzo ad essi, par noncurante di loro, c come fantasima li spaventa. Onde il prego suonando rimprovero, giungeva come nuova saetta al cuore di lui.

Caseano gli altri tre ad uno ad uno: a stille egli assaggia la sua nella loro morte; variata morte e nel tempo e negli aspetti, la qual varietà il peccatore dannato non ha agio di dipingere perchè il suo furore la assorbe tutta in cocente unità. Ma l'imagine del cascare ch' e' fanno mano mano, ce li ritrae nello sforzo di reggersi sopra sè quanto possono o ritti o seduti, per continuare le apparenze della vita e differire al padre lo spettacolo di tanti cadaveri. Sopra i quali egli si da a brancolare, a brancolare sopra ciascuno; e così gli vedi giacere sparsi per la nera terra, e pur tanto vicini, che il vecchio cieco, andando dall' uno all'altro, incespica in essi, e cade da ultimo non sai su quale, se su uno o su più.

Se altro poeta possa in altrettanto spazio di versi condensare tanta verità di dolore, e distendersi nella dipintura delle cose materiali senza che la parte spirituale ci perda, io non so; në oserei, per ammirazione irriverente, porre alla potenza dell'arte limiti ingiuriosi. Ma dico: mi si mostri un altro simile o dissimile tratto di poesia, dove altrettante bellezze d'affetto e di stile e di numero sieno più pensatamente insieme e più schiettamente adunate, più modestamente insieme e più fortemente.

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