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in lacum ad populum sempiternum.

26. (SL) VOLER. Non sa se, nell' ira de' traditori, avesse cacciato una pedata a colui. Tant'era subita l'ira in Dante. Inf., XV: Qual fortuna, o destino? 27. (L) PESTE: pesti.

(SL) PERCHÈ Æn., III: Quid miserum... laceras? e più sopra: i fratei miseri lassi (terz. 7). - MONT' APERTI. Bocca degli Abati per riavere in patria i perduti onori, alla battaglia di Mont' Aperti tagliò la mano a Jacopo de' Pazzi che portava lo stendardo, e fu causa che quattro mila de' Guelfi suoi fossero trucidati. Vill., VI, 76, 80. 28. (L) QUANTUNQUE: quanto. 29. (L) STETTE: si fermò.

QUAL: chi.

(F) DURAMENTE. Jud. Epist., 45: De omnibus duris quæ locuti sunt contra Deum peccatores impii. 30. (L) Se vivo fossi, troppo FORA, il piede hai si grave?

31. (L) NOTE del mio canto.

32. (L) LAGNA: cagion di lamento. LAMA: pianura

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36. Quando un altro gridò: · Che hai tu, Bocca? Non ti basta sonar con le mascelle

Se tu non latri? qual diavol ti tocca ? 37. Omai (diss' io) non vo' che tu favelle, Malvagio traditor: ch'alla tu' onta,

I' porterò di te vere novelle. 38. Va via (rispose), e ciò che tu vuoi, conta. Ma non tacer, se tu di qua entr' eschi, Di quei ch'ebb' or così la lingua pronta. 39. Ei piange qui l'argento de' Franceschi. Io vidi, potrai dir, quel da Duera » Là dove i peccatori stanno freschi.. 40. Se fossi dimandato, altri chi v'era, Tu hai da lato quel di Beccheria, Di cui sego Fiorenza la gorgiera. 41. Gianni del Soldanier credo che sia Più là con Ganellone, e Tribaldello, Ch'apri Faenza quando si dormia. 42. Noi eravam partiti già da ello;

Ch'io vidi duo ghiacciati in una buca,
Sì che l'un capo all'altro era cappello.

36. (SL) SONAR. Æn., XII: Increpuit malis. (F) BOCCA. Greg. IV, Dial. XXXIII: Boni bonos in regno, et mali malos in supplicio cognoscunt: in qua cognitione utriusque partis cumulus recognitionis excrescit.

38. (L) QUEI: colui.

39. (L) FRANCESCHI: Francesi.

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(SL) ARGENTO. Parlando di Francesi, forse contrafà il loro argent.· DUERA. (Malespini, c. 178) Buoso di Dovara, cremonese; quando parte dell'armi di Carlo d'Angiò venner per passar l'Oglio, egli che poteva impedirnele, non si mosse; onde Cremona e la sua patria ghibellina perirono. L' accusano di venal tradimento. Certo e' ritenne per sè l'oro mandatogli da Manfredi per assoldar gente e guernire il passo. Fu prode guerriero mori tapino. [Vill., VII, 4.]

40. (L) La Gorgiera: la gola.

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(SL) ALTRI. Non potè risparmiare a sè, ora largisce ad altri l'infamia. BECCHERIA. Abate da Vallombrosa nel Fiorentino, e Generale dell' ordine: trattò pe' Ghibellini usciti contro i Guelfi di Firenze, dov'era legato del papa: gli fu tagliata la testa. Altri lo vuole innocente. I Beccaria eran famiglia pavese potente; e nel 1290 si fecero signori della patria (Vill., VI, 63). SEGO. Gio. Villani: Segar la gola.

41. (SL) GIANNI. Questo Gianni tradi i Ghibellini e li fece cacciar da Firenze con Farinata lor capo, e fu capo al governo novello. [Vill., VII, 14.] — PIÙ LÀ. Dunque più reo. GANELLONE. Anche il Pulci per Gano. Gano di Maganza in Germania, celebre nelle favole cavalleresche, cognato di Carlo Magno: lo tradi a Roncisvalle. [Vill., VII, 80.] TRIBALDELLO. O Tebaldo de' Zambrosi, faentino; fintosi pazzo per dar meno sospetto, apri una notte la città a' Bolognesi nel 1280, specialmente per odio de' Lambertazzi ricoverati in Faenza. Fu creato nobile di Bologna ed ebbe altri privilegi: mori due anni dopo in battaglia.

42. (L) ERA CAPPELLO: copriva.

(SL) ELLO. Nel Firenzuola; e vive nel Valdarno. Duo. Ugolino e l'arcivescovo Ruggieri; il primo tradi la patria; l'altro, la patria in prima servendo ai disegni d' Ugolino, poscia lui stesso che dell' arcivescovo si fidava. Però s on posti quasi sull'orlo della seconda sfera,

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Il Canto incomincia da una di quelle non so se invocazioni o prefazioni, troppo forse nel poema frequenti; e rammenta Anfione rammentato da Virgilio (1), e da Ovidio (2), e da Stazio: Amphionis arces Et mentita diu Thebani fabula muri (3). Questo cenno dimostra come il Poeta si stimasse non solo l'edificatore della città dolente; ma il cantore politico ancora, il fondatore de' civili costumi. Aveva letto in Orazio: Dictus et Amphion Thebanæ conditor arcis Saxa movere sono testudinis.... Fuit hæc sapientia quondam, Publica privalis secernere, sacra profanis (4). L'ultimo verso segnatamente conviene allo scopo del sacro e civile poema.

L'imagine del pozzo era comune a que' tempi, e aveva forse fondamento in quello de' Salmi: Neque absorbeat me profundum, neque urgeat super me puteus os suum (5); e i Proverbii: Deglutiamus eum sicut infernus viventem, et integrum, quasi descendentem in lacum (6). Ignoravit quod ibi sint gigantes, et in profundis inferni convivæ ejus (7); e Giobbe: Gigantes gemunt sub aquis, et qui habitant cum eis (8). Qui comincia l' inferno inferiore o ultimo (9). Narra il d' Herbelot che i giganti posti intorno a un gran fosso, forniscano agli Arabi ricca materia di favole. In certi paesi d'Inghilterra s'imagina che l'anima di

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chi non sia stato primo di due che son morti, condotto al cimitero, rimanga ad attingere l'acqua da un gran pozzo pel gigante Asdrim; intanto che nuov' anima al medesimo lavoro non venga.

In una leggenda : Un cavaliere inglese, che aveva nome Ovveio, si mette, per ammenda de'. suoi peccati, al viaggio del Purgatorio: entra la caverna che fu un tempo aperta per miracolo alle preghiere di s. Patrizio in un'isola del lago di Dungal. E penetrato sotterra si trova in un luogo dov'è insieme il Purgatorio e l'Inferno. I demonii lo minacciano (1); ma egli seguita la sua strada; e ora respinto ora travolto nell' impeto del corso loro (2), vede di molti tormenti. Altri crocefissi a terra (3); ad altri s'attorcono alla vita serpenti o li divorano (4); altri ignudi a venti gelati (5); altri spenzolati per i piedi sopra flamme che sempre ardono (6); altri affissi a una rota che mai non ristà di girare; altri immersi in fossi di metallo bollente (7); altri rapiti dal turbine (8) e buttati in un fiume ove i diavoli li tengono tuffati con graffi di ferro (9). Nel fondo, un pozzo infocato che ingoia e poi vomita fuori le anime vestite di fiamme (10). Ovveio riconosce pareccchi de' suoi compagni di guer

(1) Inf., III, V, VII, VIII, IX, XII. (2) Inf., XXI, XXII, XXIII. (5) Inf., XXIII. — (4) Inf., XXIV, XXV, XXXIV. — (5) Inf., V, XXXII. (6) Inf., XIX. ——— (7) Inf., XII, XXI, XXII. — (8) Inf., V. — (9) Inf., XXI, XXII. (10) Nel Paradiso è un fiume di luce in cui l'anime cntrano ed escono inebbriate di dolcezze e d'odori. Par., XXX.

ra (1), e si smarrisce del cuore: e tremando s' afferra ad un ponte sospeso sull'abisso, il qual ponte è d'un' asse stretta (2), che al suo passaggio s'allarga. Il ponte mette a una porta (3) e la porta s'apre; e il guerriero vede un bel giardino (4), che è il Paradiso ove Adamo fu, e adesso ci stanno i giusti, prima ch'entrino in cielo..

Anco in Virgilio i giganti son posti nell'ultima profondità: Hic genus antiquum Terræ, Titania pubes Fulmine dejecti, fundo volvuntur in imo (5). Dal muro del pozzo si viene scendendo ancora più giù per diversi gradi, secondo il più grave misfatto de' traditori, che primi vengono que' ch' hanno tradito fratelli o altri congiunti nella Caina; poi que' che la patria, nell'Antenóra; poi que' che i benefattori o gli ospiti, nella Tolomea; poi nella Giudecca quelli che Cristo o Cesare, imagine, secondo Dante, dell' imperio del Cielo (6). Nella giustizia di Dante è meno colpa tradire i congiunti che la patria, per quel ch' ei dice altrove (7): che il vincol sociale aggiunto a quel di natura, è più sacro in quanto che se ne crea la fede speciale, per libera elezione degli uomini. E per questo egli è ancor più misfatto tradire i benefattori, perchè questo è vincolo ancora più libero, e di più intima società.

In Virgilio altresì è l'imagine de' laghi infernali (8), e degli stagni di Cocito e di Stige che con nove giri lega e restringe la gente perduta (9): se non che Dante fa lo stagno agghiacciato per dinotare la fredda anima de' traditori. E lago sovente nella Bibbia è detto l'abisso: I Salmi: Collocavit me in obscuris sicut mortuos sæculi... similis ero descendentibus in lacum (10). Ezechiele: Terram ultimam, cum his qui descendunt in lacum (11). Isaia: Ad infernum detraheris in profundum laci: qui le viderint ad te inclinabuntur (12). Geremia: Sicut frigidam fecit cisterna aquam suam, sic frigidam fecit malitiam suam (13). In quest'ultimo abbiamo l'imagine e della cisterna e del freddo; e il batter de' denti pel freddo, e le lagrime congelate rammentano fletus et stridor dentium (14). Gl' interpreti all' Inferno applicano quel di Giobbe: Ad nimium calorem transeat ab aquis nivium (15). E

(4) Inf., EI, V, VI, XIII, XV, XVII, XVIII, XIX, XXV, XXVII, XXXII. - (2) Strette le scale che ascendono il monte del Purgatorio. Purg., X. - (3) Inf., IX, X. (4) Purg., XXVIII. — (5) Æn., VI. (6) Par., VI: Poi, presso al tempo che tutto 'l ciel volle Ridur lo mondo, a suo modo, sereno, Cesare per voler di Roma il tolle (il segno dell'Aquila). (7) Inf., XI. — (8) Æn., VI. (9) Georg., IV. (10) Psal. CXLII, 5, 7; XXVII, 4 ; LXXXVII, 5; Davide, nota Pietro, fu traditore d'Uria. Psal., XXIX, 4: Eduxisti ab inferno animam meam: salvasti me a descendentibus in lacum. (14) XXXII, 48. – (12) XIV, 15. — (13) VI, 7. — (14) Matth., XIII, 50. (15) Job, XXIV, 19.

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la Somma: I dannati passeranno da veementissimo calore a veementissimo freddo (1). E, citate le parole d'un Padre: Nell'ultima purgazione del mondo si farà separazione degli elementi; che quant' è puro e nobile rimanga di sopra a gloria de' beati, quant'è ignobile e feccioso gettisi in inferno a punire i dannati; soggiunge: Acciocchè, siccome ogni creatura sarà a' beati materia di gaudio, così a' dannati da tutte le creature s' accresca tormento, secondo quel della Sapienza: CONTRO GL'INSENSATI COMBATTERÀ L'UNIVERSO.

Anche Virgilio ha nel suo Inferno: Hic quibus invisi fratres (2), e quelli che nec veriti dominorum fallere dextras (3). Ed è forse amara ironia nel lamento del dannato che dice a Dante: non pestare coi piedi le teste de' fratei miseri lassi. I due fratelli nemici hanno il pelo del capo insieme misto. A due che s'odiano, la prossimità è orribile pena: pena orribile stare affrontati il traditore al tradito. Erano tanto accosti labbro a labbro che la lagrima caduta tra mezzo gl'invisco e inchiodò insieme. Questo è più che il virgiliano: Stiriaque impexis induruit horrida barbis (4).

La seconda schiera de' traditori ha nome da Antenore. Del tradimento d' Antenore parlano Livio, e Ditti e Darete. Le parole ambigue di Virgilio: Antenor... mediis elapsus Achivis (5), avranno dato al Poeta libertà d'attenersi al detto di Livio, senza credere di contraddire però a quanto disse nel XXVI e nel XXX di Sinone e del cavallo. Nella Antenóra il Poeta, Guelfo nel trecento, sempre Ghibellino giusto, caccia Bocca degli Abati che tradì a Mont' Aperti. Sono nell'Inferno del Poeta moltissimi i Fiorentini, pe' quali principalmente e pe' Toscani era fatto l'Inferno suo. Farinata, Cavalcanti, il cardinale Ubaldini, Ciacco, l'Argenti, Rinier Pazzo, un suicida, un Guidoguerra, Tegghiaio, il Rusticucci, il Borsiere, Francesco d'Accorso, monsignor Mozzi, Brunetto, un Gianfigliazzi, un Ubriachi, un Baiamonti, il Mosca, Geri del Bello, Gianni Schicchi, Mascheroni, Bocca, il Pazzi, questo Soldanieri coi cinque ladri della settima bolgia.

Alla fine egli trova il conte Ugolino che sta mangiando il cranio dell'arcivescovo: che ci rammenta la leggenda che è ne' Bollandisti, e che dice: Disse l'abate Macario (6): andando una volta nell'eremo, trovai un teschio di morto giacente in terra: lo mossi con una verga di palma, e il cranio mi parlò. E dissi a lui: Tu

(4) Suppl., 97. — (2) Æn., VI. — (3) Ivi. — (4) Georg., III. (5) En., I. (6) Boll., I, p. 1011. Lo rammentano anche Rufino (L. III, n. 172) e Giovanni (L.VI, libello XIII, n. 15). Così pure i Menologi greci, e l'Antologio d' Ant." Arcadio. Nella vita di s. Bernardo addi 26 maggio è alcuna cosa di simile. Dionigi Certosino nel libro De' quattro novissimi, all'articolo LII lo ripete,

'chi sei (1)? Mi rispose: lo fui sacerdote degl' idoli, e de' gentili che in questo luogo dimoravano. E tu sei l'abate Macario che hai lo spirito santo di Dio. Qualora pietoso di que' che sono ne' tormenti tu preghi per loro, e' ricevono alcun po' di sollievo. Gli disse il vecchio: Qual'è codesto sollievo? E quali tormenti? Dissegli: Quanto dista il cielo dalla terra, tanto è il foco nel cui mezzo stiamo da' piedi al capo, d'ogni parte presi; nè può alcuno la faccia dell'altro vedere. Ma la faccia dell' uno è appiccata alle spalle dell' altro; e quando tu preghi per noi, ci volgiamo l'un verso l'altro, ed abbiamo sollievo (2). E'l vecchio piangendo disse: Tristo il giorno in cui l'uomo nasce (3). Poi disse il vecchio: Evvi agli altri peggiore supplizio? Rispose il cranio: Maggiore supplizio è a noi. Dice il vecchio: Chi sono costoro? Dice il cranio: Noi che non abbiamo cognizione di Dio. Ma quei che conobbero Iddio e lo negarono, nè fecero il volere di lui, questi sono di sotto di noi (4). E il vecchio prese quel cranio e lo seppelli sotto terra (5). »

Stazio: Sit qui rabidarum more ferarum Mandat atrox hostile caput (6). E Dante l'aveva al pensiero, dacchè paragona il conte a Tideo che si rode il teschio di Menalippo :

Caput o caput, o mihi si quis

Adportet, Menalippe, tuum

Astaciden medio Cipancus (7) e pulvere tollit
Spirantem

Erigitur (8) Tydeus, vultuque occurrit et amens
Lætitiaque iraque, ut singultantia vidit
Ora, trahique oculos seseque agnovit in illo (9);
Imperat abscissum porgi, lævaque receptum
Spectat atrox hostile caput, gliscitque tepentis
Lumina torva (10) videns

Atque illum effracti perfusum tabe cerebri (11)

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(1) Inf., XXXII, terz. 30. — (2) Queste parole non leggibili nella nota mia di molti anni fa, tiro a indovinare, e mi tengo in debito d' avvertirlo. (5) Altri, in quella vece: Tristo il giorno in cui l'uomo trasgrediser i comandamenti di Dio. · (4) Anco in Dante i più rei stanno di sutto. Inf., XI, t. 9. — (5) Inf., XIV, t. 1: Raunai le fronde sparte. (6) Theb., VIII. (7) Codesto servigio feroce che Capaneo rende a Tideo, gli sarà stata più ragione a dipingerlo com' e' fece nel Canto XIV. – (8) It sovran li denti all'altro pose (t. 43). — (9) Di qui forse il germe del verso potente: Scorsi Per quattro visi il mio aspello stesso (Inf., XXXIII, t. 19). (10) In Dante è più bello che il conte con gli occhi torti riprenda il teschio co' denti, e che l' arcivescovo vivo nell'eterna morte non metta parola nè gemito.-(11) Li denti all' altro pose La 've 'l cervel s'aggiunge con la nuca (terz. 45). - Non altrimenti si rose le tempie... che quei faceva 'l teschio e l'altre cose (terz. 44). Del capo ch'egli avea di retro guasto (Inf., XXXIII, t. 4). Hai l'orribile della pittura senza la tabe che imbrodola il roditore; ch' anzi nel Canto seguente il forbire la bocca a' capelli è mondezza più orribile d' ogni sozzura. E quel l'altre cose é famigliarità di maestro e reticenza potente.

Aspicit, et vivo scelerantem sanguine fauces (1).

Et nunc ille jacet (pulchra o solatia leti)
Ore tenens hostile caput, dulcique nefandus
Immoritur tabo...

Sed enim hiscere campos
Conquesti, terræque fugam miserantur, an istos
Vel sua portet humus ? (2)

Stazio, al solito, si distende in amplificazioni, e discorre di Marte e di Pallade inorriditi, e delle Ceraste e della Gorgone che intirizziscono anch'esse alla vista del fiero pasto. Con meno ricercatezza Dante consegue effetto più pieno, e supera l'autore imitato. Lo supera perchè formatosi alla parsimonia di Virgilio; e quand'egli fa dire a Stazio che senz'esso Virgilio non fermò peso di dramma (3), intende più veramente di sè. Che se Dante pecca, gli è più sovente per volere raccogliere molto in poco, che per distendere il poco in molto e vano. E Stazio gli dettava forse quella potente parentesi, che egli, l'autore della Tebaide, non avrebbe trovata: Innocenti facea l'età novella (Novella Tebe !)...

Il vantaggio di Dante qui sopra Stazio è un crudele vantaggio: chè l'odio di Tideo è cosa favolosa e vecchia, quel d' Ugolino storica e vivente troppo. Dante poteva aver conosciuto di persona Ugolino, e avrà certo veduti suoi consorti dell'ira; ma Stazio non avrà visto Tideo che in qualche basso-rilievo che rendeva in pietra qualche brano d'antico poema. E da ultimo, Menalippo non era arcivescovo. Il Canto di Stazio stilla rugiada rettorica; da quel di Dante, come dalle piante de' suicidi, esce insieme parole e sangue.

La più profonda bellezza della narrazione è, al mio vedere, quel cupo che ci regna da capo a fondo, e gittando lume incerto su cose orribili, aggiunge all' orrore. S'egli avesse raccontate per filo e per segno le particolarità corporee della fame e della morte, avrebbe fatto cosa più languida che a sott' intenderle tutte, e delineare del quadro i soli grandi contorni. Dico che un non so che foscamente indeterminato scorre per la narrazione tutta. Ugolino non sa chi sia l'uomo che vuole il perchè del suo odio, ma e' gli par fiorentino; e vuol dire, o suo nemico o ignaro de' fatti, o men crudo de' suoi Pisani, o tutte queste cose in una e altre più. Non parla del rodere ch'e' fa l'arcivescovo, nè del tradimento di quello; ma l'uno e l'altro accenna con tocco di potente brevità: son tal vicino: saprai s'e' m' ha offeso. Della sua carcere non descrive l'orribilità, ma la nomina della fame, e le prenuncia altri

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ospiti: vaticinio infernale. Poi il sogno che a lui squarcia il futuro; nè egli ci si raffigura se non sotto il nome di lupo, e lupicini il suo sangue. È taciuto anco il nome del monte, e disegnato esso monte per questo che e' toglie a Pisa la veduta di Lucca, come se ogni cosa dovesse qui essere muto di luce. I figliuoli piangono e parlano fra il sonno, come presentendo già l'agonia. Il senso che viene al padre della sua e altrui sventura adombrasi in quel ch' al mio cuor s'annunziava; del sogno de' giovani non è detto chiaro, ma che ciascun ne dubitava, e il dubbio passa nell' animo di chi ascolta. Il busso dell'uscio chiodato, senza suono di parola od altro, apporta la sentenza di morte: il padre non fa motto, ma guarda i suoi figliuoli, fatto come di pietra, e non piange. E chiamarli tutt' insieme figliuoli è pieno di pietà; e forse lo strazio de' nepoti più giovanetti più lo percuote nel cuore. Essi piangono; e primo un nepote, come più debole, e meno esperto de' dolori e misfatti umani, parla a lui, e domanda che hai? più orribile che chiedergli pane. Questi almeno non s'era ancora accorto del vero; nè il punto in che gli altri s'accorgono è fermato silenzio tremendo. Il padre non solo non piange con suono di querela a quella voce, ma non lagrima e non risponde. Tace e taciono un giorno e una notte. Il sole ritorna: un poco di raggio si mette per il piccol pertugio in quel bujo, e il conte scorge in quattro volti il suo volto, cioè le sue fattezze di padre, e lo squallore della faccia sparuta; ambiguità che consuona col rimanente tutto. E' si morde ambedue le mani

per dolore; e quelli frantendono, chè la pietà del martoro del padre li fa empi a calunniare il cuore paterno: gli offrono in cibo sè stessi, per più straziarlo e dell'essere franteso e dell' essere dal loro amore ferito nell' anima più che da nemico furore. Alla profferta atroce e' si queta, ma non risponde parola per acquetare loro, indurato o istupidito dalla disperazione contro sè e contro tutti, o perchè parole non trova che non sieno di furore o di lutto. Ancora due giorni stanno tulli muti; venuti al quarto, un nepote gli si getta a' piedi, chiamandolo anch' egli, come l'altro e come poi tutti insieme, col nome di padre e sospirando ajuto; dacchè la natura supera nel giovane la pietà, nè più si ricorda di aver detto anch'egli ci fia men doglia se tu mangi di noi. Gli altri tre cascano ad uno ad uno tra il quinto di e il sesto, non sai in qual punto, qual primo, con quali singulti, se senza parola. Egli cieco va brancolando sopra ciascuno, e la fine di lui è accennata da un verso che dice non i tormenti del corpo, ma l'ostinatezza del dolore, che quelli duramente vincendo, per tre giorni ancora glieli prolungava. Le due esclamazioni Ahi dura terra

ben se' crudel, non son quelle che possono più sul cuore. Egli è tanto lontano dall' esagerazione, che non solo non amplifica, ma non particolareggia neppure in minuto; e sarebbe un modo d'esagerare anche questo. Dal Buti sappiamo che il padre e figliuoli morirono colla catena, con la catena al piede furono seppelliti: meglio saperlo dal Buti che da lui; e tali omissioni rivelano il Poeta e il maestro.

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