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35.

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E tremando ciascuno a me si volse,
Con altri che l'udiron di rimbalzo.
34. Lo buon maestro a me tutto s'accolse,
Dicendo: Di' a lor ciò che tu vuoli.
Ed io incominciai, poscia ch' ei volse:
Se la vostra memoria non s'imboli
Nel primo mondo dall'umane menti,
Ma s'ella viva sotto molti soli;
36. Ditemi chi vo' siete, e di che genti:
La vostra sconcia e fastidiosa pena
Di palesarvi a me non vi spaventi.
37. I' fui d'Arezzo: e Albero da Siena

(Rispose l'un) mi fe' mettere al fuoco:
Ma quel per ch' io mori' qui non mi mena.

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38. Ver è ch' io dissi lui, parlando a giuoco:

I' mi saprei levar per l'aere a volo: » E quei, ch'avea vaghezza e senno poco, 39. Volle ch'i' gli mostrassi l'arte; e, solo Perch'i' nol feci Dedalo, mi fece Ardere a tal che l'avea per figliuolo. 40. Ma nell'ultima bolgia delle diece

Me, per l'alchimia che nel mondo usai, Danno Minós a cui fallir non lece. 44. Ed io dissi al poeta: - Or fu giammai

Gente si vana come la Sanese? Certo non la Francesca si d'assai. 42. Onde l'altro lebbroso che m'intese,

Rispose al detto mio: Tranne lo Stricca,
Che seppe far le temperate spese;

43. E Nicolò, che la costuma ricca
Del garofano, prima, discoperse
Nell'orto dove tal seme s'appicca :
44. E tranne la brigata in che disperse
Caccia d'Ascian la vigna e la gran fronda,
El'Abbagliato suo sennò proferse.

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(SL) DEDALO. Inf., XVII; Æn., VI. — TAL. L'inquisitore de' Paterini in Firenze, senese, il qual teneva che Albero fosse suo figliuolo, fece ardere Griffolino come scongiurator di demonii ed eretico. Altri dicono (così l'Anonimo) che 'l fe' ardere al vescovo di Siena ch' era suo padre.

40. (L) LECE: può.

(SL) LECE. Che condannando, non s'inganna, come il vescovo. Qui non lece val non può, come in Cicerone (De Divin., I, 7). Stat., VIII: Verumque potest deprendere Minos.

41. (L) LA FRANCESCA SÌ D'ASSAI: la Francese, tanto. (SL) D'ASSAI. Livio, Volg.: Non fu sì ricca valle com'Anzio d'assai.

42. (L) L' ALTRO LEBBROSO: appoggiato a Griffolino. TRANNE LO STRICCA.... Ironia.

STRICCA. Sa

(SL) TRANNE. Inf., XXI, t. 44. nese prodigo, uomo di corte ordinatore, dice il Comm. Cassin., della brigata, di cui più sotto.

43. (L) NELL'ORTO DOVE TAL SEME S'APPICCA in Siena, dove tali costumi allignavan bene.

(SL) NICOLÒ Salimbeni o Bonsignori di Siena, trovò modo d' arrostire i fagiani de prunis caryophyllorum (Pietro di Dante ). · COSTUMA. L' hanno i Fioretti di s. Francesco ed il Novellino. ORTO. Scherza sul traslato del garofano.

44. (L) In che DISPERSE CACCIA D'ASCIAN LA VIGNA E LA GRAN FRONDA: in cui Caccia sprecò vigne e boschi ch' avea in Asciano castello senese.

(SL) BRIGATA, detta godereccia. Ricchi giovani sanesi, che venduta ogni lor cosa, misero insieme ducento mila ducati e li sciuparono in venti mesi. Abbiamo ventidue sonetti di Folgore da San Gemignano a Nicolò sopra questa Brigata, e la chiama fiore della senese città. DISPERSE. Cic., de Leg. agr., I, 1: Possessiones... disperdere. FRONDA. Georg,, II: Ver... frondi nemo

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Il più sovente coll' un Canto si chiude una pena od un premio nel poema, e con l'altro altra materia incomincia: ma qui per dare rilievo alla memoria d'un suo congiunto, uomo di discordie e per esse morto, Dante lo discerne da altri uomini maggiormente famosi, e collocandolo sulla soglia della holgia seguente, fa più risaltare la propria equità, inflessibile eziandio verso le persone del suo sangue stesso. Geri fu zio cugino di Dante, fratello di Cione Allighieri (1). Virgilio ne parla com'uomo che non conosceva chi e' fosse. Fu ucciso da un de'Sacchetti. La vendetta allora era tenuta debito sacro, e Francesco da Barberino attesta le vendette in Toscana più che altrove frequenti; e la Cronaca del Velluti: Vellutello (moribondo per ferita ricevuta) lasciò cinquecento fiorini a chi facesse la sua vendetta. Benvenuto: I Fiorentini sono alla vendetta massimamente ardenti ed in pubblico ed in privato; il che ben mostrarono in que' tempi alla Chiesa di Roma, alla quale fecero ribellare gran parte d'Italia. Potevano aver pretesto a ciò nelle consuetudini ebree: Evadere iram proximi qui ultor est sanguinis (2). Non credo però che il Poeta qui si mostri sitibondo di sangue nemico, egli che nel XII dell' Inferno punisce la vendetta di Guido contro un cugino dell'uccisor di suo padre; egli che i Sacchetti nomina nel Paradiso senza gravarli, come sopr'altri fa, d'alcun'onta; egli che il proprio cugino caccia in Inferno come scandaloso: ed era, dice l'Anonimo, anco falsario, che non credo. Anzi, soggiunge l'Anonimo stesso, vuole il Poeta biasimare la rabbia di vendetta che lo perseguita fin nell'Inferno. Certo è che Geri fu vendicato trent'anni dopo la morte da un suo figliuolo uccisor d'un Sacchetti; e forse che questi versi di Dante, sebbene con intenzione opposta, rinfrescarono nel figliuolo la memoria del sangue paterno, e gridarono dall'Inferno vendetta.

(1) Pelli, pag. 32, 33, 34. — (2) Jos., XX, : 5.

Il contrasto fra la pietà e la giustizia della condanna è qui grandemente poetico come in Brunetto, in Farinata, in Francesca, nei tre Fiorentini. Cosi in un de' passi dell'Eneide più belli, Enea nel vedere Didone sdegnosa fuggirlo senza parola: Prosequitur lacrimans longe, et miseratur euntem (1).

Dante nemico di tutte falsità mette i falsi sotto gl'ipocriti e sotto i ladri: secondo la viltà della colpa e' ne giudica la gravità. Notisi la gradazione: i peccati di senso men rei, poi quelli di violenza; e tra i violenti, anche l'orgoglio che nega il debito agli uomini o a Dio; poi quelli di frode, i quali offendono più direttamente il vero, che è 'l ben dello intelletto (2): e tra i peccati di frode, men gravi quelli che la fanno servire al senso, come de' mezzani e degli adulatori; poi quelli che al sacro, o all'onore esteriore, come i simoniaci, i maghi e indovini, i barattieri e gl'ipocriti. E sebbene il Poeta intendesse dottrinalmente la gravità della simonia, e per trista esperienza nella vita propria e della sua patria sentisse i gravi effetti di quella; ciò nondimeno egli colloca i simoniaci men basso de' maghi e de' barattieri: la quale distribuzione se, segnatamente in quel che spetta alla baratteria, non è delle più teologiche, dimostra almeno, come quest'anima fosse in certo modo spassionata nella passione stessa, e come i mali portati a tutta la società civile gli paressero in certa guisa più rei che i portati alla società della Chiesa, forse per questo che la società civile abbraccia maggior numero di uomini e di casi; che il barattiere puỏ, se gli torna, usare simonia; ma non ogni simoniaco ha faccia e coscienza di barattiere; e che finalmente il ministero civile è anch'esso una forma di sacerdozio, siccome ne' primi tempi dell'umanità appariva più chiaro. Dopo gl'ipocriti vengono i ladri, non solo perchè la loro cupidigia si ferma

(1) En., VI. — (2) Inf., III, t. 6.

in cosa più vile, ma perche in quel peccato è doppia falsità, cioè nel tenere per bene desiderabile cosa materiale e cosa altrui, poi nell'adoprare al possesso di quella più acuti e più miseri ingegni di frode. Più sotto de' ladri i macchinatori di tristi consigli, e i seminatori di discordie e di scandali, perchè questi mali portano maggior abuso della mente e della volontà, e però offendono il vero più intimamente. Ora vengono coloro che falsificarono o la materia corporea o le proprie persone o i segni dell'umano commercio o la stessa verità con mendaci testimonianze. Primo e più leggero il falsare con alchimia metalli non coniati, poi commettere falso in atti privati o pubblici, poi falsar la moneta che è un rompere i vincoli sociali, e un moltiplicare i danni per quanti sono i pezzi di metallo alterati; poi più grave di tutte falsar la parola, che è la moneta preziosissima e sacra al consorzio degli spiriti e al loro alimento. Or quantunque il peccato qualsiasi ne' libri sacri sia detto falsità o menzogna, e le virtuose opere verità (1); pure la menzogna è al vero offesa più speciale, o sia in parola od in opera (2). E nella falsa testimonianza Tommaso comprende non le calunnie soltanto, ma le detrazioni altresi e le bestemmie, e lei fa direttamente opposta a giustizia (3).

Non tutti gli alchimisti vuol Dante puniti, ma soli i falsarii. Lo dimostra a lungo l' Anonimo, e reca un passo di s. Tommaso, che, tradotto alla lettera, suona cosi: Se l'oro e l'argento dagli alchimisti falto non è della vera specie dell'oro e dell'argento, gli è frode e vendita ingiusta; massimamente che c'è alcuni usi dell'oro e dell'argento vero secondo la naturale loro efficacia, i quali non si convengono all'oro per alchimia sofisticato; come la proprietà ch'egli ha di rallegrare, e giova contro certe infermità a medicina. Inoltre più frequentemente si può porre in opera, e più lungamente rimane nella sua purità l'oro vero che l'oro sofisticato. Ma se per alchimia si facesse il vero oro, non sarebbe illecito venderlo come vero; perchè nulla vieta all'arte servirsi di certe naturali cause a produrre naturali effetti e veri, siccome dice Agostino (4), laddove ragiona delle cose che si fanno per arte di demonii (5). Questo passo della Somma è anche comentato da Pietro; e' dimostra come gli antichi, senza sapere la ragione ed il modo, per istinto, o piuttosto per tradizione di fatti sparsi collegati con induzioni ardite, presentissero che la scienza e l'arte potevan trovare certi elementi de' corpi, e, trovatili, ricomporre al vero essi corpi, non già adulterandone altri, e ingannando con false apparenze, ma veramente creando. Ed infatti se l'alchimia co' suoi cimenti, che paiono casuali, ha generata la chimica;

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doveva in lei stessa nascondersi un principio di verità che le dava le mosse, perche il falso mero, se pur fosse possibile, non potrebbe altro dare che falso. Forse col tempo la scienza affinata ritrovando gli elementi di sostanze che adesso paiono semplici, giungerà quindi a comporli per arte, ma la spesa dell'opera rimarrà tale da assorbire il lucro, sì che non n'avrà punto a patire la sincerità del commercio sociale.

Gli alchimisti per troppo trattare il mercurio e sostanze simili, al dir d'Avicenna e d'altri, diventavano paralitici e però Dante li fa qui tremanti, dico per questo effetto della colpa loro, non pure per vergogna d'essere scoperti falsarii, o per non si poter dal male reggere ritti. 11 Ramazzini dice d'aver veduto un alchimista tremulum... anhelosum, putidum. Altri vanno carponi, a significare l'anima e il corpo loro curvi alla terra e alle sostanze tra sordide e velenose, tra polverulente e pesanti che in essa s'ascondono; come gli avari strascinano col petto per terra pesi, e nel Purgatorio stanno per terra mani e piedi legati; altri de'falsarii stanno l'uno all'altro appoggiati, o petto a petto, o petto a schiena, od in altro più sconcio viluppo. La scabbia che li rode significa l'adoprarsi che fecero in cose che non li potevano soddisfare mai (1). Siccome, dice l'Anonimo, elli hanno avuta la mente e l'operazione corrolla e malsana in falsificazioni, così la giustizia di Dio gli punisce, che gli fa essere corrotti nel sangue e nella carne e nelle superfluitadi. La similitudine delle teglie, che rammenta quella delle caldaje dove i cuochi tuffano con gli uncini la carne (2), è degna del luogo e pare che accenni ai fornelli ed al fuoco degli alchimisti e d'imagini simili sono pieni i due Canti (3).

Nel principio la similitudine del popolo d'Egina, che tutto per contagio perisce, è tolta dalle Metamorfosi ma il Poeta par voglia distinguere la parte storica della malattia dalla favolosa della formazione del popolo novello da un popolo di formiche, distinguerla con quel verso che, così inteso, se non diventa bellezza, almeno ha sua scusa, come annotazione per entro al testo non affatto oziosa: Secondo che i poeti hanno per fermo (4). E forse che alle formiche egli accenna pensando a' versi d'Ovidio: Parcumque genus, patiensque laborum, Quæsitique tenax, et qui quæsila reservent (5); intendendo significare che i troppo solleciti cercatori di ricchezza tengono della formica nella pic

(1) Som., 1, 2, 102: Per il prudore morboso disegnasi l'avarizia. — (2) Inf., XXI. — (3) Montaigne: Si faut-il savoir relâcher la corde à toute sorte de tons, et le plus aigu est celui qui vient le moins souvent on jeu... Les plus grands maîtres et Xénophon et Platon, on les voit souvent se relâcher à cette basse façon et populaire de dire et de traiter les choses, la soutenant de grâces qui ne leur manquent jamais. (4) Terzina 21. (5) Met., VII.

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colezza dell'animo, non nella parsimonia lodevole e nella fatica. Ma certo è che Dante in tutta la dipintura della pena ebbe l'occhio alla lunga descrizione che conduce Ovidio di quella peste nel settimo delle Metamorfosi, e che egli al suo solito in poche parole raccoglie le imagini più rilevate e gli dà più risalto. Ed è chiaro altresì che Ovidio in quella descrizione non povera di bellezze ebbe l'occhio al terzo delle Georgiche, e amò piuttosto amplificare Virgilio che imitarlo. I giovani avranno frutto dalla comparazione attenta di que'due passi, osservando come nel verso di Virgilio, anche parlando dei dolori di bestie, s' infonda un senso d'umanità delicata e di religiosa pietà; e come non già nel molto, ma nell' eletto stia l'efficacia dell'arte. Or ecco le imagini e i modi d'Ovidio a' quali corrispondono que' di Dante:

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(1) Aer.... pien di malizia (Inf., XXIX, t. 20). (2) Gli animali infino al picciol verme (Ivi, t. 21 ). (3) Cascaron tutti (Ivi). (4) Marcite membre (Ivi t. 17-). (5) Languir gli spirti (Ivi, t. 22). (6) Per diverse biche (Ivi). Qual sovra 'l ventre e qual sovra le spalle L'un dell'altro giacea (Ivi, t. 23). (7) Gittan... leppo (Inf., XXX, t. 33). Puzzo ne usciva (Inf., XXIX, t. 17). (8) Febbre acuta (Inf., XXX, t. 53). (9) Di schianze maculati (XXIX, t. 25). (10) La sete onde ti crepa... là lingua (Inf., XXX, t. 41). (11) Le labbra aperte... per la sete L'un verso il mento, e l'altro in su riverte (Ivi, t. 19).

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Dura sed in terra pmunt præcordia (1) . positoque pudore,

Fontibus et fluviis, puleisque capacibus hærent (2). Nec prius est extincta sitis, quam vita, bibendo (3). Inde graves (4) multi nequeunt consurgere (5) Prosiliunt: aut, si prohibent consistere vires Corpora devolvunt in humum (6) ..

flentes alios, terræque jacentes (7). Quo se cumque acies oculorum flexer at; illic Vulgus erat stratum (8) .

Tristes (9) penetrant ad viscera morbi (10) ... Hic nos frugilegas adspeximus agmine longo Grande onus exiguo formicas ore gerentes. Dum numerum miror: Totidem, pater optime, dixi, Tu mihi da cives: et inania mœnia reple (11).

Nella fine del presente il Poeta ferisce colla guelfa Siena (12) que'Francesi che a'guelfi toscani soccorsero, egli sempre severo a' Francesi, e sperante in Alberto e in Arrigo e ne' Vicarii loro. La gente vana rammenta quel di Virgilio: Vane Ligus, frustraque animis elate superbis, Nequicquam patrias tentasti lubricus artes (13); severo giudizio temperato dall'altro: Assuetumque malo Ligurem (14). E siffatti giudizii storici delle genti italiane avrà Dante in Virgilio notato; nè sfuggitogli quell' altro, a pensare tremendo: O numquam dolituri, o semper inerles Tyrrheni! (15) Chi ne'poeti cercasse le memorie storiche e i vaticinii, e sapesse discernerveli, riconoscerebbe che quanto il poeta è più grande, tant'è più storico e vate.

(1) La grave idropisia (Inf., XXX, t. 18). (2) E per leccar lo specchio di Narcisso, Non vorresti a 'nvitar molte parole (Ivi, t. 43). - (3) Come l'etico fa, che per la sete... (Ivi, t. 19). (4) Mi sia tollo Lo mover, per le membra che son gravi (Ivi, t. 36). (5) Che non potean levar le lor persone (Inf., XXIX, t. 24). — (6) Carpone Si trasmutava per lo tristo calle (Ivi, t. 23). - Æn., III: Egra trahebant corpora. (7) Ho le membra legate (Inf., XXX, t. 27 ). (8) In Egina il popol tutto infermo (Inf., XXIX, t. 20). (9) Non credo ch'a veder maggior tristizia Fosse (Ivi, t. 20). (Ivi, t. 23), (19) Guardando e ascoltando gli ammalati (Ivi,'t. 24). — ́(11) Le genti antiche... Si ristorâr di seme di formiche (Ivi, t. 21-22). (12) Della sane se instabilità. Dino II, pag. 140. (45) Æn., XI (14) Georg., II. — (15) En., XI.

Tristo calle

CANTO XXX.

Argomento.

Siamo tuttavia nella decima; de' rei di falso. Quivi, dice l'Anonimo, han pena i sensi tutti; la vista dalle tenebre (se più lume vi fosse); l'orecchio da' lamenti (strali di pietà ferrati); l' odorato dal puzzo (marcite membra); il tatto dalla pressione dell'uno sull'altro (qual sovra 'l ventre); il gusto dalla sete rabbiosa. Qui trova il Poeta Mirra e Gianni Schicchi che corrono l'un dietro all'altro e si mordono, ed altri forse fanno il simile dietro a loro: trova M. Adamo e Sinone che si svillaneggiano e si percotono.

Nota le terzine 6; 8 alla 11; 17, 19; 21 alla 24; 26, 28, 29; 31 alla 43; 45 alla fine.

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1. (L) UNA E ALTRA FIATA: nella morte di Semele, e poi.

(SL) CRUCCIATA. In Ovidio, Giunone scende all' Inferno a invocare le Furie perchè in facinus traherent Athamanta sorores (Met., IV). Stat.: Unde graves iræ cognata in mœnia Baccho Quod sævæ Junonis opus, cui sumpserit arcum Infelix Athamas cur non expaverit ingens Jonium, socio casura Palæmone, mater. — SEMELE. D' Ermione e Cadmo, re tebano, nacque Ino moglie d'Atamante, e Semele l'amata da Giove, che, morta Semele, allevò Bacco nato di lei e di Giove (Ov. Met., III). Semint. Ella si duole che Semele è gravida del grande Giove e dissolve la lingua alle tencioni.

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(SL) GRIDO. Ovid. Met., IV: Protinus Æolides media furibundus in aula Clamat: Io, comites! his retia tendite silvis. Hic modo cum gemina vísa est mihi prole læena. Utque feræ, sequitur vestigia conjugis amens : Deque sinu matris ridentem, et parva Learchum Brachia tendentem, rapit; el bis terque per auras More rotat fundæ. Vedi anche Ov. Fast., VI, 479.

4. (L) QUELLA: Ino. ALTRO INCARCO: altro figlio. (SL) PERCOSSELO. Ovid. Met., IV: Rigidoque infantia saxo Discutit ossa ferox. Tum denique concita

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(SL) MISERA. Ovid. Met., XIII: (Miserabile visu.) In mediis Hecube natorum inventa sepulcris. — Cattiva. Ovid. Met., XIII: Nunc trahor exsul, inops... Penelopa munus. Prædæ mala sors. POLISENA. Ovid. Met., XIII. POLIDORO. En., III. - Ovid. Met., XIII: Exanimem e scopulo subjectas misit in undas. RIVA. Ovid. Met., XIII: Dixit: et ad litus passu processit anili........... liquidas hauriret ut undas: Adspicit ejectum Polydori in litore corpus, Factaque Threiciis ingentia vulnera telis.

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