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Superbia, invidia e avarizia sono

Le tre faville ch'hanno i cuori accesi.

Nè a questo dire gode già l'animo del poeta; siccome si converrebbe a chi essendo esule anelasse allo sterminio de' suoi . Ma quelle voci sono da lui chiamate suono lacrimabile (2): il qual dire è veramente ripieno di pietà. Perchè cacciato egli dal nido, sfolgorato della fortuna, solo, inerme, diviso da ogni cosa più caramente diletta, non può ascoltare il danno della ingiusta patria, senza che sparga lacrime. Anzi ne muove quel grido per farla accorta de' suoi mali, e per cercarne la fine. Nè la sua politica è poi minore della sua misericordia: perchè i tre vizj ch'egli riprende, sono a punto in ogni repubblica le semenze d'ogni male: mentre ogni bene derivasi dalle virtù loro opposte. L' invidia nasce dal soverchio amore delle gare: le quali sono il fondamento della milizia. La superbia dalla troppa sete della gloria: la quale è il fondamento delle magistrature. E l'avarizia dalla stemperata brama dell' utile: nel quale sta la ragione de' traffi

(1) Qui pose fun al lacrimabil suono. v. 76.

chi e delle arti. Onde la forza, la sapienza e la ricchezza de' popoli che si appoggiano nelle guerre, ne'magistrati e ne'commerci, si perdono per invidia, per superbia e per avarizia; mentre la civile felicità cresce per la radice di questi affetti medesimi: chè, dove mancassero, già non sarebbe più nè difesa, nè governo, nè industria e dove si lasciassero soperchiare, basterebbero a struggere non solo una città, ma ogni generazione d' uomini sulla terra. A questo guarda il poeta che teme di vederne disfatta la patria: e ne parla con quel vero dolore che si conviene a sapiente e pio cittadino. Ma queste dolorose grida però non si farebbero oneste per la sola onesta loro natura, s'elle si movessero da mentita cagione e se que' timori fossero finti, perchè la città ne avesse infamia. Quindi sono da vedere le storie: anzi le vecchie croniche de' Fiorentini, schiette così di fede come di favella: e principalmente i libri di Giovanni Villani, che sovra tutti fu sempre tenero dell'onore della sua repubblica. Che se vogliamo sapere della superbia, seguendo i principj di sopra esposti, leggiamo le cose ch'egli disse intorno a' fatti de' magistrati. La città di Firenze si reggeva di maggiori e possenti

popolari grossi. Questi non volevano a' reggimenti nè pari, nè compagnoni, nè all'officio del Priorato, nè agli altri conseguenti officii mettere se non cui loro piaceva, e che facessono a loro volontà. Escludendo molti de' più degni di loro per senno e per virtù, e non dando parte nè a grandi, nè a mezzani, nè a minori, come si convenia a buono reggimento di comune. Quindi procede parlando altrove dell' invidia. Di questo torto fatto da reggenti del popolo a' gentiluomini per INVIDIA avemo fatto menzione, per dare esempio a quelli che verranno come riescano li servigi fatti allo ingrato popolo di Firenze. E dell' avarizia così il cronichista con maggior acerbità che il poeta Considerando che nè per segni di cielo, nè per pestilenze di diluvio, e di mortalità e di fame, i cittadini non pare che temano Iddio, nè si riconoscano de' loró diffetti ma al tutto è abbandonata per loro la santa carità umana e civile e solo a baratterie e con tirannia, e grande AVARIZIA reggere la repubblica. Ma v'è di più. Questo Villani, questo digiuno storico che non segue mai le arti de' retori, ma sempre umilmente la natura de' racconti plebei, lascia a un tratto il modesto suo stile e tanto scaldasi contro questa smisurata fame dell'oro pubblico, che più non pare l'uomo.

di prima, e sembra un furioso popolano, che fattosi capo alla plebe, assalga la signoria fin dentro al Palazzo. Onde sclama: Signori Fiorentini: come è mala provvidenza l'accrescere l'entrata del Comune colla sostanza e la povertà de' cittadini, colle sforzate gabelle per fornire le folli imprese! Or non sapete voi che come è grande il mare, è grande la tempesta? E come cresce l'entrata, è apparecchiata la mala spesa? Temprate i disordinati desiderii, e piacerete a Dio, e non graverete 'l popolo innocente. A questo libero arringo, degno d' un antico Spartano, s'accosta quell' altro di Dino Compagni : il quale dopo aver narrato che la Firenze de' tempi suoi era con cittadini SUPERBI, DISCORDEVOLI, E RICCA DI PROIBITI GUA

DAGNI, segue lamentando quasi a modo di profeta: Piangano adunque i suoi cittadini sopra loro e sopra i loro figliuoli. I quali per loro SUPERBIA, e per malizia e per gare d'uffizj hanno così nobile città disfatta: vituperate le leggi: barattati gli onori in picciol tempo: i quali i loro antichi con molta fatica e con lunghissimo tempo avevano acquistato. S'aspettino la giustizia di Dio: la quale per molti segni promette loro male: siccome a' colpevoli, i quali erano liberi, e da non potere essere soggiogati. Ora se a Giovanni

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se a Dino, essendo raccontatori e stretti in quelle angustie delle cronache, fu lecito di prorompere in tali grida, e quasi chiamare i cittadini a tumulto: se niuno fu ardito di affermare ch' ei per ciò fossero o disonesti o bugiardi, come diremo che bugiardo fosse e disonesto il solo Alighieri? Che è da lui a que' cronisti, se non ch' egli piangeva nell'esilio, e da lungi; e coloro in casa e negli occhi del popolo ? E questo esilio gli sarà dunque sì funesto ancora dopo morte che gli tolga fede in quelle cose stesse che a' non esuli sono credute? e farà che in lui si chiami rabbia ciò che in altri si celebra come testimonio di franco animo e liberissimo? Questo noi non diremo nè lasceremo ch' altri lo scriva: se gia nol facesse per crescere contro Dante la vendetta de' Guelfi. Ma conosciuto il vero delle parole di lui conchiuderemo: che in quelle parti, ove il poeta fu storico, tenne questa nobile sentenza di Polibio, che

s'egli conviene l' uomo gentile essere te,, nero della patria e degli amici, ed avere in odio ogni generazione di nimici, conviene altresì che colui il quale nar,, ra, moderi questa troppa affezione. Perchè si fa suo debito il levare a cielo ,, gl' inimici stessi, quando i gloriosi loro

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