CANTO IV. RUPPEMI l'alto sonno nella testa Per conoscer lo loco dov' io fossi. Che tuono accoglie d' infiniti guai. Oscura, profond' era e nebulosa, Tanto che, per ficcar lo viso al fondo, Io non vi discerneva alcuna cosa. Or discendiam quaggiù nel cieco mondo, Cominciò il poeta tutto smorto : Io sarò primo, e tu sarai secondo. Ed io, che del color mi fui accorto, Dissi: Come verrò, se tu paventi, Che suoli al mio dubbiare esser conforto ? Ed egli a me: L'angoscia delle genti Che son quaggiù, nel viso mi dipigne Quella pietà che tu per tema senti. Andiam, chè la via lunga ne sospigne : Così si mise, e così me fe entrare Nel primo cerchio che l' abisso cigne. Quivi, secondo che per ascoltare, Non avea pianto, ma che di sospiri, Che l'aura eterna facevan tremare : Ciò avvenia di duol senza martiri, Ch' avean le turbe, ch' eran molte e grandi D' infanti e di femmine e di viri. Lo buon Maestro a me: Tu non dimandi E di questi cotai son io medesmo. Semo perduti, e sol di tanto offesi, Che senza speme vivemo in disio. Gran duol mi prese al cor quando lo intesi, Perocchè genti di molto valore Conobbi, che in quel limbo eran sospesi. Israel con lo padre, e co' suoi nati, Non lasciavam l' andar, perch' ei dicessi, Di qua dal sonno; quando vidi un foco, Di lungi v' eravamo ancora un poco, Questi chi son, ch' hanno cotanta onranza, E quegli a me: L'onrata nominanza, L'ombra sua torna, ch' era dipartita. Vidi quattro grand' ombre a noi venire; Lo buon Maestro cominciò a dire : Mira colui con quella spada in mano, L'altro è Orazio satiro, che viene, Di quei signor dell' altissimo canto, Da ch' ebber ragionato insieme alquanto, Volsersi a me con salutevol cenno : Perchè il Maestro sorrise di tanto : E più d'onore ancora assai mi fenno, Ch' esser mi fecer della loro schiera, Sì ch' io fui sesto tra cotanto senno. Così n' andammo infino alla lumiera, Parlando cose, che il tacere è bello, Sì com' era il parlar colà dov' era. Venimmo al piè d' un nobile castello, Sette volte cerchiato d' alte mura, Difeso intorno d' un bel fiumicello. Questo passammo, come terra dura; Per sette porte intrai con questi savi; Giugnemmo in prato di fresca verdura. Genti v' eran con occhi tardi e gravi, Di grande autorità nei lor sembianti ; Parlavan rado, con voci soavi. Traemmoci così dall' un dei canti In loco aperto luminoso ed alto, Sì che veder poteansi tutti e quanti. Colà diritto, sopra il verde smalto, Mi fur mostrati gli spiriti magni, Che del vederli in me stesso n' esalto. Io vidi Elettra con molti compagni, Tra' quai conobbi Ettore ed Enea, Cesare armato con gli occhi grifagni. Vidi Cammilla e la Pentesilea Dall' altra parte, e vidi il re Latino, Che con Lavinia sua figlia sedea. Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino, Lucrezia, Julia, Marzia e Corniglia, E solo in parte vidi il Saladino. Poi che innalzai un poco più le ciglia, Tutti lo miran, tutti onor gli fanno. |