Sappi che non son torri, ma giganti, Lo sguardo a poco a poco raffigura E Natura certo, quando lasciò l' arte Di sì fatti animali, assai fe bene, Non si pente, chi guarda sottilmente, Dal mezzo in giù, ne mostrava ben tanto Tre Frison s' averian dato mal vanto : Cominciò a gridar la fiera bocca, Cui non si convenian più dolci salmi. E il Duca mio ver lui: Anima sciocca, Tienti col corno, e con quel ti disfoga, Quand' ira o altra passion ti tocca. Cercati al collo, e troverai la soga Che il tien legato, o anima confusa, E vedi lui che il gran petto ti doga. Poi disse a me: Egli stesso s'accusa ; Questi è Nembrotto, per lo cui mal coto Pure un linguaggio nel mondo non s' usa. Lasciamlo stare, e non parliamo a voto : Chè così è a lui ciascun linguaggio, Come il suo ad altrui ch' a nullo è noto. Facemmo adunque più lungo viaggio Volti a sinistra ; ed al trar d' un balestro Trovammo l' altro assai più fiero e maggio. A cinger lui, qual che fosse il maestro Non so io dir, ma ei tenea succinto Dinanzi l'altro, e dietro il braccio destro D'una catena, che il teneva avvinto Dal collo in giù, sì che in sullo scoperto Si ravvolgeva infino al giro quinto. Questo superbo voll' esser esperto Di sua potenza contra il sommo Giove, Disse il mio Duca, ond' egli ha cotal merto. Fialte ha nome; e fece le gran prove, Quando i giganti fer paura ai Dei : Le braccia ch' ei menò, giammai non move. Ed io a lui: S' esser puote, io vorrei E venimmo ad Anteo, che ben cinqu' alle, O tu, che nella fortunata valle, Che fece Scipion di gloria ereda, Quando Annibal coi suoi diede le spalle, Recasti già mille leon per preda, E che, se fossi stato all' alta guerra Dei tuoi fratelli, ancor par ch' e' si creda, Che avrebber vinto i figli della terra; Mettine giù (e non ten venga schifo) Dove Cocito la freddura serra. Non ci far ire a Tizio, nè a Tifo: Questi può dar di quel che qui si brama: Però ti china, e non torcer lo grifo. Ancor ti può nel mondo render fama ; Ch' ei vive, e lunga vita ancor aspetta, Se innanzi tempo grazia a sè nol chiama. Così disse il Maestro: e quegli in fretta Disse a me: Fatti in qua, sì ch' io ti prenda : Poi fece sì, che un fascio er' egli ed io. Qual pare a riguardar la Carisenda Sotto il chinato, quando un nuvol vada Ch' io avrei voluto ir per altra strada: CANTO XXXII. S' 10 avessi le rime aspre e chiocce, Nè da lingua che chiami mamma e babbo. Che stai nel loco, onde il parlare è duro, Me' foste state qui pecore o zebe. Come noi fummo giù nel pozzo scuro Sotto i piè del gigante, assai più bassi, Ed io mirava ancora all' alto muro, Dicere udimmi: Guarda, come passi ; Fa sì, che tu non calchi con le piante Le teste dei fratei miseri lassi. Perch' io mi volsi, e vidimi davante E sotto i piedi un lago, che per gelo Avea di vetro e non d'acqua sembiante. Non fece al corso suo sì grosso velo D' inverno la Danoia in Osteric, Nè Tanai là sotto il freddo cielo, Com' era quivi: chè, se Tambernic Vi fosse su caduto, o Pietrapana, Non avria pur dall' orlo fatto cric. |