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O Duca mio, la violenta morte

Che non gli è vendicata ancor, diss' io, Per alcun che dell' onta sia consorte, Fece lui disdegnoso; ond' ei sen gío Senza parlarmi, sì com' io estimo; Ed in ciò m' ha e' fatto a sè più pio. Così parlammo infino al loco primo Che dello scoglio l' altra valle mostra, Se più lume vi fosse, tutto ad imo. Quando noi fummo in sull' ultima chiostra Di Malebolge, sì che i suoi conversi Potean parere alla veduta nostra, Lamenti saettaron me diversi,

Che di pietà ferrati avean gli strali: Ond' io gli orecchi colle man copersi. Qual dolor fora, se degli spedali

Di Valdichiana tra il luglio e il settembre, E di Maremma e di Sardigna i mali Fossero in una fossa tutti insembre;

Tal era quivi, e tal puzzo n' usciva,
Qual suol venir delle marcite membre.
Noi discendemmo in sull' ultima riva
Del lungo scoglio, pur da man sinistra,
Ed allor fu la mia vista più viva
Giù ver lo fondo, là 've la ministra
Dell' alto Sire, infallibil giustizia,
Punisce i falsator che qui registra.
Non credo che a veder maggior tristizia
Fosse in Egina il popol tutto infermo,
Quando fu l'aer sì pien di malizia,
Che gli animali infino al picciol vermo
Cascaron tutti, e poi le genti antiche,
Secondo che i poeti hanno per fermo,

Si ristorar di seme di formiche;

Ch' era a veder per quella oscura valle
Languir gli spirti per diverse biche.
Qual sopra il ventre, e qual sopra le spalle
L'un dell' altro giacea, e qual carpone
Si trasmutava per lo tristo calle.
Passo passo andavam senza sermone,
Guardando ed ascoltando gli ammalati,
Che non potean levar le lor persone.
Io vidi due sedere a sè poggiati,

Come a scaldar si poggia tegghia a tegghia, Dal capo al piè di schianze maculati: E non vidi giammai menare stregghia Da ragazzo aspettato dal signorso, Nè da colui che mal volentier vegghia; Come ciascun menava spesso il morso Dell' unghie sopra sè per la gran rabbia Del pizzicor, che non ha più soccorso. E sì traevan giù l' unghie la scabbia, Come coltel di scardova le scaglie, O d' altro pesce che più larghe l' abbia. O tu che colle dita ti dismaglie,

Cominciò il Duca mio all' un di loro, E che fai d' esse tal volta tanaglie, Dinne s' alcun Latino è tra costoro Che son quinc' entro, se l' unghia ti basti Eternalmente a cotesto lavoro.

Latin sem noi, che tu vedi sì guasti

Qui ambo e due, rispose l' un piangendo : Ma tu chi sei, che di noi domandasti? E il Duca disse: Io son un che discendo Con questo vivo giù di balzo in balzo, E di mostrar l' inferno a lui intendo.

Allor si ruppe lo comun rincalzo ;

E tremando ciascuno a me si volse
Con altri che l' udiron di rimbalzo.
Lo buon Maestro a me tutto s' accolse,
Dicendo: Di' a lor ciò che tu vuoli.
Ed io incominciai, poscia ch' ei volse:
Se la vostra memoria non s' imboli
Nel primo mondo dall' umane menti,
Ma s' ella viva sotto molti soli,
Ditemi chi voi siete e di che genti:

La vostra sconcia e fastidiosa pena
Di palesarvi a me non vi spaventi.
Io fui d' Arezzo, ed Albero da Siena,
Rispose l' un, mi fe mettere al foco ;
Ma quel perch' io mori' qui non mi mena.
Ver è ch' io dissi a lui, parlando a gioco,
Io mi saprei levar per l' aere a volo:
E quei che avea vaghezza e senno poco,
Volle ch' io gli mostrassi l' arte; e solo
Perch' io nol feci Dedalo, mi fece
Ardere a tal, che l' avea per figliuolo.
Ma nell' ultima bolgia delle diece

Me per alchimia che nel mondo usai, Dannò Minos, a cui fallar non lece. Ed io dissi al Poeta: Or fu giammai Gente si vana come la sanese? Certo non la francesca sì d'assai. Onde l' altro lebbroso che m' intese, Rispose al detto mio: Trammene Stricca, Che seppe far le temperate spese ; E Niccolò, che la costuma ricca Del garofano prima discoperse

Nell' orto, dove tal seme s' appicca ;

E tranne la brigata, in che disperse

Caccia d' Ascian la vigna e la gran fronda, E l' Abbagliato il suo senno proferse. Ma perchè sappi chi sì ti seconda

Contra i Sanesi, aguzza ver me l'occhio Sì, che la faccia mia ben ti risponda ; Si vedrai ch' io son l' ombra di Capocchio, Che falsai li metalli con alchimia, E ti dei ricordar, se ben t' adocchio, Com' io fui di natura buona scimia.

CANTO XXX.

NEL tempo che Giunone era crucciata
Per Semelè contra il sangue tebano,
Come mostrò una ed altra fiata,
Atamante divenne tanto insano,

Che veggendo la moglie con due figli
Andar carcata da ciascuna mano,
Gridò: Tendiam le reti, sì ch' io pigli
La leonessa e i leoncini al varco :
E poi distese i dispietati artigli,
Prendendo l' un che avea nome Learco,
E rotollo, e percosselo ad un sasso;
E quella s' annegò con l' altro carco.
E quando la fortuna volse in basso

L'altezza dei Troian che tutto ardiva,
Sì che insieme col regno il re fu casso;
Ecuba trista misera e cattiva,

Poscia che vide Polissena morta,
E del suo Polidoro in sulla riva
Del mar si fu la dolorosa accorta,
Forsennata latrò sì come cane;
Tanto il dolor le fe la mente torta.
Ma nè di Tebe furie nè Troiane

Si vider mai in alcun tanto crude,
Non punger bestie, non che membra umane,
Quant' io vidi in due ombre smorte e nude,
Che mordendo correvan di quel modo
Che il porco quando del porcil si schiude.
L' una giunse a Capocchio, ed in sul nodo
Del collo l'assannò sì che, tirando,

Grattar gli fece il ventre al fondo sodo.

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