Di tante fiamme tutta risplendea L'ottava bolgia, sì com' io m' accorsi, Del fosso, chè nessuna mostra il furto, Ed ogni fiamma un peccatore invola. Io stava sopra il ponte a veder surto, Sì che, s' io non avessi un ronchion preso, Caduto sarei giù senza esser urto. E il Duca, che mi vide tanto atteso, Disse Dentro dai fochi son gli spirti : Ciascun si fascia di quel ch' egli è inceso. Maestro mio, rispos' io, per udirti Son io più certo; ma già m' era avviso Ulisse e Diomede, e così insieme S'ei posson dentro da quelle faville Dove parve al mio Duca tempo e loco, Come fosse la lingua che parlasse, Gittò voce di fuori, e disse: Quando Mi diparti' da Circe, che sottrasse Me più d' un anno là presso a Gaeta, Prima che si Enea la nominasse ; Nè dolcezza di figlio, nè la pieta Del vecchio padre, nè il debito amore, Lo qual dovea Penelope far lieta, Vincer poter dentro da me l' ardore Ch' i' ebbi a divenir del mondo esperto, E degli vizii umani e del valore : Ma misi me per l' alto mare aperto Sol con un legno e con quella compagna Picciola, dalla qual non fui deserto. L'un lito e l' altro vidi infin la Spagna, Fin nel Morrocco, e l' isola dei Sardi, E l'altre che quel mare intorno bagna. Io e i compagni eravam vecchi e tardi, Quando venimmo a quella foce stretta, Ov' Ercole segnò li suoi riguardi, Acciocchè l' uom più oltre non si metta : Dalla man destra mi lasciai Sibilia, Dall' altra già m' avea lasciata Setta. O frati, dissi, che per cento milia Perigli siete giunti all' occidente, A questa tanto picciola vigilia Dei vostri sensi, ch' è del rimanente, Non vogliate negar l' esperienza, Diretro al sol, del mondo senza gente. Considerate la vostra semenza : Fatti non foste a viver come bruti, Ma per seguir virtute e conoscenza. Li miei compagni fec' io sì acuti, Con questa orazion picciola, al cammino, Che appena poscia gli avrei ritenuti. E, volta nostra poppa nel mattino, Dei remi facemmo ale al folle volo, Vedea la notte, e il nostro tanto basso, Cinque volte racceso, e tante casso E la prora ire in giù, com' altrui piacque, Infin che il mar fu sopra noi richiuso. CANTO XXVII. GIÀ era dritta in su la fiamma e queta, Quando un' altra, che dietro a lei venia, Ne fece volger gli occhi alla sua cima, Dal principio nel foco, in suo linguaggio La voce, e che parlavi mo Lombardo, Dicendo issa ten va, più non t' adizzo: Perch' io sia giunto forse alquanto tardo, Non t' incresca restare a parlar meco : Vedi che non incresce a me, ed ardo. Se tu pur mo in questo mondo cieco Caduto sei di quella dolce terra Latina, ond' io mia colpa tutta reco, Dimmi se i Romagnuoli han pace, o guerra; Ch' io fui dei monti là intra Urbino E il giogo di che il Tever si disserra. |