Non era via da vestito di cappa, Chè noi a pena, ei lieve, ed io sospinto, Potevam su montar di chiappa in chiappa. E se non fosse, che da quel procinto Più che dall' altro era la costa corta, Con l'animo che vince ogni battaglia, Meglio di lena ch' io non mi sentia ; H Parlando andava per non parer fievole, Se non lo far: chè la domanda onesta Di serpenti, e di sì diversa mena, Produce, e cencri con amfisibena, Nè tante pestilenzie nè sì ree Mostrò giammai con tutta l' Etiopia, Nè con ciò che di sopra il mar rosso ee. Tra questa cruda e tristissima copia Correvan genti nude e spaventate, Senza sperar pertugio o elitropia. Con serpi le man dietro avean legate : Quelle ficcavan per le ren la coda E il capo, ed eran dinanzi aggroppate. Ed ecco ad un, ch' era da nostra proda, Com' ei s' accese ed arse, e cener tutto La polver si raccolse per sè stessa, Che la Fenice more e poi rinasce, Quando al cinquecentesimo anno appressa. Erba nè biado in sua vita non pasce, Ma sol d' incenso lagrime ed amomo ; E nardo e mirra son l' ultime fasce. E qual è quei che cade, e non sa como, Per forza di demon ch' a terra il tira, O d' altra oppilazion che lega l' uomo, Quando si leva, che intorno si mira Tutto smarrito dalla grande angoscia Ch' egli ha sofferta, e guardando sospira ; Tal era il peccator levato poscia. O potenzia di Dio quanto sei vera ! Che cotai colpi per vendetta croscia. Lo Duca il domandò poi chi egli era : Perch' ei rispose: Io piovvi di Toscana, Poco tempo è, in questa gola fera. Vita bestial mi piacque, e non umana, Sì come a mul ch' io fui: son Vanni Fucci Bestia, e Pistoia mi fu degna tana. Ed io al Duca: Digli che non mucci, E domanda qual colpa quaggiù il pinse: Ch' io il vidi uomo di sangue e di crucci. E il peccator, che intese, non s' infinse, Ma drizzò verso me l'animo e il volto, E di trista vergogna si dipinse; Poi disse: Più mi duol che tu m' hai colto Nella miseria, dove tu mi vedi, Che quando fui dell' altra vita tolto. Io non posso negar quel che tu chiedi ; In giù son messo tanto, perch' io fui Ladro alla sacrestia dei belli arredi ; E falsamente già fu apposto altrui. Ma perchè di tal vista tu non godi, Se mai sarai di fuor dei lochi bui, Apri gli orecchi al mio annunzio, ed odi : Pistoia in pria di Negri si dimagra, Poi Fiorenza rinnuova genti e modi. Tragge Marte vapor di val di Magra Ch' è di torbidi nuvoli involuto, E con tempesta impetuosa ed agra Sopra campo Picen fia combattuto : Ond' ei repente spezzerà la nebbia, Sì ch' ogni Bianco ne sarà feruto: E detto l' ho, perchè doler ti debbia. CANTO XXV. AL fine delle sue parole il ladro Le mani alzò con ambedue le fiche, Che non potea con esse dare un crollo. Non vidi spirto in Dio tanto superbo, Non quel che cadde a Tebe giù dai muri. Ei si fuggì, che non parlò più verbo : Ed io vidi un Centauro pien di rabbia Venir chiamando: Ov' è, ov'è l' acerbo? Maremma non cred' io che tante n' abbia, Quante bisce egli avea su per la groppa, Infin dove comincia nostra labbia. Con l' ale aperte gli giacea un draco, Del grande armento, ch' egli ebbe a vicino: |