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cipi proteggenti e ne' laici e in tutto il corpo della Chiesa; ❘ volpe sono tali che nocciono. Forza è dunque intenpare a me che lo stesso M. Franzoni possa con questa dere che, siccome la vespa, ritraendo il suo pungiesposizione conciliare la sua, giacchè da questa non venglione, lascia nella ferita il dolore; e così il drago, gono esclusi neanche i sette antipapi. Ma importa molto | giacchè non può pungere il carro come corpo vivo, ne che la visione si stenda dai primordii della Chiesa all'età del poeta; giacchè non si vedrebbe ragione di chiuderla con Arrigo IV, se Dante in modo chiarissimo accenna a vicende posteriori. Il salmo Deus, venerunt gentes, e'lo fa cantare alle sette donne, come di presente sventura, e non come dell'avvenimento de'sette antipapi, ma de'sette malanni capitali (e il senso di capitale corrisponde all'imagine delle teste); e il carro rimane mostro fino al 1300, e preda anche poi.

E M. Franzoni e gli antichi espositori convengono in questo, che il drago è lo scisma: senonch'egli lo limita a un'epoca sola, gli altri montano più su; io nella medesima imagine comprenderei le due cose, e figurerei ogni divisione e lacerazione intestina, come denota l'aprirsi della terra tra le due ruote appunto. E ancorchè non mi paia che l'andarsene vago vago del rettile, abbia qui senso di vagante, perchè non è questo il più comune uso della voce in antico, nè in questa accezione converrebbe ripeterlo; ma io creda piuttosto che in altri termini dica quello che della biscia infernale, Volgendo ad or ad or la testa, e il dosso Leccando, come bestia che si liscia (1), e quello che del falcone: Muove la testa, e coll'ale s'applaude, Voglia mostrando, e facendosi bello (2); ciò nondimeno, anco l'altra interpretazione mi pare che si convenga, meglio che allo scisma del tempo d'Arrigo, a tutte le divisioni che infermarono la Chiesa, e massime a quella d'Oriente, la qual fece tanta parte di Cristianità e di civiltà andar vagante con vanità superba, e poi perdersi. E il venire del drago dopo la volpe, cioè degli odii dopo gli errori, è vero di storica e morale e logica verità. Che poi il drago configga la coda nel carro e quindi la ritragga, e se ne vada via; pare a me significhi poco, quando con la coda e' non faccia verun nocumento. Or gli atti e dell'aquila e della

tragga seco a terra del fondo. Nè trarre del fondo vale portarlo via tatto; che e nel latino e nell'italiano con questa particella denotasi anzi una parte, grande o piccola, secondochè si conviene al contesto. E non è cosa piccola l'Oriente scisso, l'Occidente diviso. Come poi possa un drago colla sua coda tirare del fondo d'un carro, ce lo dicono tutti gli animali simbolici, e segnatamente quel drago che svelle dal cielo le stelle (1). Anco grammaticalmente, al modo che la comenta il dotto uomo, la locuzione andrebbe zoppa; e bisognerebbe ripetere: A traendo la coda maligna Trasse dal fondo la coda maligna. Nè meglio intenderebbesi quel che rimase, se il tutto rimase: ma e nel costrutto grammaticale e nello storico regge bene che, posta la sede imperiale in Oriente, e lasciata temporalmente ingrandire la sede del dominio spirituale, dall' un lato facessesi civiltà fiacca e declinante a barbarie, dall' altro autorità inferma e non ben militante. Il che consuona a quanto di Costantino cantasi nel Paradiso: chè qui la piuma dell'aquila è offerta Forse con intenzion casta e benigna; e là l'imperatore Sotto buona intenzion, che mal frutto, Per cedere al Pastor si fece greco (2). E il mal frutto rammenta l'esclamazione: Ahi Costantin di quanto mal fu matre, Non la tua conversion...! (3) I quali riscontri io non direi casuali. E il riconoscere in certi principii costante a sè stesso il pensiero di Dante, e il considerare come dall'angusta cerchia di Firenze egli voli a abbracciare con l'anima tutti i paesi e i secoli tutti, mi conferma nel credere che anco questa visione voglia essere interpretata largamente in pro del mondo che mal vive, e l'arcano insegnatone a tutti i vivi Del viver ch'è un correre alla morte (4).

(1) Purg., VIII, t. 34. (2) Par, XIX, t. 42.

(1) Apocal. (2) Par., XX, t. 19. (3) Inf., XIX, t. 39. Nella bolgia di coloro che fecero scisma religioso e civile (Inf., XXVIII), Maometto ci si rappresenta così rotto nella persona dal mento a sotto le cosce, come botte a cui manchi una doga da parte o del fondo: l'imagino stessa del carro. (4) Purg., XXXIII, t. 18.

DEGL' INTENDIMENTI CIVILI DI DANTE.

Chiamato dal buon volere di parecchi giovani studenti | provvisa. Chi sa come io scriva e come io parli, e s'indella Università torinese a dire tra loro di cose letterarie, dopo pregatili lungamente che volessero scegliere meglio; udito che conveniva avviare, acciocchè i ritardi non isciogliessero questi primi elementi di bene; assentii all'onorevole desiderio; e proposi parlare di Dante, non già per farne un comento perpetuo, ma per considerarne gl'intendimenti civili, per raffrontarli con quelli d'autori che gli precedettero e gli successero; e anco perchè lo studio di quell'ingegno e di quell'animo in cui fortemente si conci. liarono la scienza e la fede, l'amore della patria e l'amore dell'arte, non può non porgere a noi fruttuosi ammaestramenti; e da ultimo, perchè il culto del bello, trasandato da scienziati e da uomini di governo, oggidi è necessario a fare vie più luminosa ed unanime l'italianità del Piemonte. Incominciando, dicevo che dal paragone de' tempi uscirebbero accenni al presente; accenni nè licenziosi nè timidi, nè ricercati nè fuggiti, da risvegliare il pensiero, e non da attizzare la passione; fatti in linguaggio schietto, qual s'addice a uomini liberi, e che intendono prepararsi a libertà sempre più austera e più generosa.

Avviata la giovane società, smessi per le ragioni che saranno toccate da ultimo. Ma per memoria delle ore passate in mezzo ad essa, mi piacque dettare le cose parlate, delle quali era preordinato il concetto, l'esposizione im

tende dell'arte dello scrivere, crederà. Nel dettare ho serbato il tenore famigliare che di proposito scelsi, rifuggendo da quanto sente di cattedra e d'accademia: e ho serbato anco le locuzioni medesime e le parole dette, quanto potè la memoria ritenere. Senonchè questa riflessione del pensiero presente sopra la fuggitiva parola volata, toglie al corso del dire non solo la libera vivacità ch' ella aveva uscendo per primo, ma quella pure che si può conseguire dettando; e i costrutti riescono qua e là sminuzzati; e alcuni modi, posti in vece di quelli che la memoria non rioffriva, sguagliano. Ma quand'anco la cura soverchia della veracità avesse a nuocere all'amor proprio; io m'attenni al già detto, tralasciando sin quelle idee che nel sunto del discorso erano premeditate, ma che non ho profferite o per dimenticanza o per istudio di brevità: giacchè intendo dare il discorso non quale poteva essere ma quale fu. E però volli indicati con segno di parentesi que' passi che sono trasposti nel secondo dal primo; giacchè del primo, come di semplice introduzione, non altro rimane che questi. Noterò anche una qualche idea li non detta, soggiunta per compire il concetto: i quali scrupoli nessun mi richiede, e non gliene importa; ma io da me li richiedo, che amo sincerità in ogni cosa.

DANTE E SORDELLO.

I.

A discorrere alcuna cosa degl'intendimenti civili del di Dante si viene ampliando. Non già che mente tale qual'è Poema di Dante, mi rifò dalla seconda Cantica, e appunto la sua, sin dal primo si potesse ristringere nella cerchia dal canto dov'è parola di Sordello, cittadino e poeta. Pridella sua piccola patria; patria in sè grande, pur piccola mieramente, perchè in questa Cantica il concetto italiano | rispetto all'Italia, e all'intera umanità. Il primo a offrirsi

nell'Inferno è un Papa (1), troppo duramente accusato da Dante per il suo rifiuto; giacchè, se Celestino credeva sè mal atto al governo, meglio fece a deporlo. Tocca altrove di papi e di cardinali; d'un imperatore fra tedesco e italiano, e d'un cortigiano di lui, e d'una bestia di Germania, e d'una montagna settentrionale (2); tocca d' Inghilterra e di Francia (3); e di Greci e di Asiatici (4): non brevi gli accenni alla donna di Rimini, alla patria di Virgilio, ai tiranni guerreggianti Romagna (5); ma nè Roma nè Bologna nè Genova, nè il Lombardo nè il Veneto, nè gli Estensi ai quali egli è avverso, nè Sardegna ove Nino il suo amico mori (6), par che occupino la sua mente tanto, quanto Firenze e le toscane città, Pisa, Siena, Lucca, Pistoja; nè Prato dimenticasi, nè i ruscelli che dal Casentino discendono in Arno (7).

La maggiore larghezza veniva e dai più maturi studii ę dalla più matura esperienza di Dante; e a questi e a quelli davano campo e agio pur troppo le dure prove, ei più duri ozii, dell'esilio. In doppio senso può dirsi che l'esilio lima l'anima; detraendo dolorosamente di quel ch'ell'ha, e, nel detrarre, donandole, con lenta arte e pia, nuova forma. Gli è come l'ispirazione della Sibilla riluttante al dio che, come canta il Poeta, fatigat os rabidum, fera corda domans, fingitque premendo (8). E n'abbiam prova noi stessi: che i nostri esilii ci vengono faticosamente educando. Se le tre generazioni, e quasi covate, d'esuli che l'Italia diede in un terzo di secolo, paragonansi insieme; si trova quella del ventuno fregiata di nomi cospicui, tra i quali Santorre Santarosa primeggia. Ma la seguente dal trentuno in poi, dolorosamente più ricca d'uomini che fecero il nome d'Italia onorando alle nazioni straniere; le quali non si può imaginare come riguardassero allora gl' Italiani, tranne pochi, con occhio di diffidente disdegno. E per dimostrare come il concetto pratico fosse imperfetto in sul primo, basterà questo fatto; che due delle maggiori regioni d'Italia stavano nel ventuno per commuoversi a

(1) C. III. (2) Inf., VII, XIX; VII, X, X, XIII, XXXIII; XVII, XXXII. -(3) Inf., XII, XIX, XXVIII; XXVIII, XXIX. - (4) Inf., XXVI, XXVIII, e altrove. IV, V, XVII. D'Africa XIV, XXIV, XXV. Ma queste sono allusioni a' libri d'autori: e ognun sa quanto frequenti gli accenni alle cose d'oriente, tolti dal libro de' libri. (5) Inf., V, XXVIII; I, XX; XXVII, XXVIII, XXXII. - (6) Inf., II, XII, XIII, XV, XXVI, XXVII, XXVIII, XXXI; XVIII, XXIII; XX, XXX; XXVIII, XXXII; XII, XV, XVII, XX, XXI; XII, XVIII; XXII, XXXIII. - (7) Inf., VI, VIII, X, XIII, XIV, XV, XVI, XVII, XXIII, XXIV, XXV, XXVI, XXVIII, XXX, XXXII, XXXIII; X, XXIX, XXXIII; XVIII, XXI, XXIV, XXV, XXXII; XXX. (8) Virg., VI.

un grande rivolgimento, e che l'una intanto non sapeva dell' altra: cosa non so se più dolorosa a pensare o incredibile a dire. Gli esilii del quarantotto e del quarantanove, troppo più numerosi, e che cosi portavano probabilità di esempi onorevoli, ma insieme tentazioni e pericoli d' altri esempi men degni; sono giovati a formare il concetto patrio, e far meglio sentire all'Italia ch'ell'è nazione. Non già che si sia conseguito tutto il desiderabile a conseguire. La sventura ci ha spostati, accostati; non ci ha moralmente congiunti. Siamo tuttavia aderenti secondo le leggi fisiche, se dire cosi posso; non uniti secondo le chimiche: resterebbe poi ancora la chimica organica; poi resterebbe la vita. E giacchè queste mie non sono lezioni ma parlari dimessi e in famiglia; racconterò un fatterello che sia come simbolo di quel che dico. Un barone servitore dell'Austria, e che forse in pena di ciò aveva la smania di scrivere versi latini, e taluni falliti; stampátine, e accortosi d'uno, li ristampò per correggere; e ne fece la confessione a un prete alla buona, e questi soggiungergli: se la vostra eccellenza vorrà per ogni verso sbagliato fare una nuova ristampa, prometto che il suo carme avrà delle edizioni di molte. E così noi, se faremo una rivoluzione per correggere un solo de' nostri errori alla volta.

Altra ragione del prender le mosse dalla seconda Cantica sièche, facendosi più ampia, la poesia qui si fa più serena. Serena per l'indole stessa del tema, dacchè qui cantasi l'espiazione: idea consolante, e necessaria all'umana natura. Se l'uomo, che non può serbarsi infallibile, a ogni errore della mente e dell'animo, dovesse disperare l'emenda e il risorgimento; non ci sarebbe, nonchè progresso, ma in brev'ora neanco ragione d'umanità. La coscienza dell'errore e del male, congiunta alla speranza del poter ripararli, anzi del farne grado a maggiore bontà e verità, umilia insieme ed esalta, ispira modestia non vile, prudente coraggio.

[L'idea dell' espiazione non era ignota agli stessi Pagani; e Virgilio chiaramente l'annunzia ne' versi: Ergo exercentur pænis, veterumque malorum Supplicia expendunt. Quest'idea spira da tutte le tradizioni dell' India, da que' poemi giganti al cui paragone i più de' nostri sono come i rigagnoli che traversano le vie di Torino alla veemente correntia delle grandi fiumane americane.]

Illuminata da quest' idea, ci apparisce più degna del suo titolo la filosofia della storia; e ne comporrebbe uno e più volumi fecondi chi giudicasse le nazioni, e ciascuna stagione della vita loro, secondo la norma che accenno: quali ebbero più viva coscienza dell'errore e del fallo, quali po

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tro: chè non fa scienza, Senza lo ritenere, avere inteso (1). Precetto che inchiude tutta l'educazione dell'uomo, la qual non si fa senza l'apprensione tenace e delle idee e degli affetti. E, per mancanza di quella, segue che gl'ingegni siano moltissimi, le menti poche.

tettero e quali potrebbero più virtuosamente emendarlo, e farne occasione a viemaggiori incrementi. Secondo questo principio sarebbe da tessere ancora un trattato di diritto penale, che impropriamente chiamasi criminale, se non s'intenda che certe pene e certe dottrine circa la pena son opera criminosa. Proverebbesi, quelle essere [Evidente è il verso di Dante a chi conosce la storia e pene efficaci anzi benefiche, le quali non incutono lo spail linguaggio del tempo suo e le dottrine; ma queste dotvento ma destano il rimorso del male, quelle che non la- ❘ trine, siccom'erano di più gradi, l'une sull'altre ascenvorano sulla materia corporea ma operano nell' intima coscienza, quelle che col rimorso eccitano il pudore, quelle che ispirano la speranza, e che porgono gli aiuti del meglio.

La serenità del canto novello sentesi correre per il color di zaffiro che ricomincia diletto al Poeta, com'esce dell'aura morta. Morta qui chiama l'aura d'inferno; e morta disse la scritta sulla porta di quello, e morta la poesia che lo ritrasse (1); siccome il Petrarca morte chiama le parole del suo amoroso dolore (2). Incomincia: Per correr miglior acqua alza le vele Omai la navicella del mio ingegno. La quale imagine è non bene rammentata dal Monti là dove dice: Batte a vol più sublime aura più pura La farfalletta dell' ingegno mio (3). L'imagine della farfalla era dagli Antichi destinata a simboleggiare l'immortalità dello spirito; ma, applicata all'ingegno, diventa meschina, e impropria, giacchè la farfalla non ha voli sublimi. Di qui vediamo come l'imitare le forme estrinseche della bellezza detragga a bellezza, e risichi di distruggerla. [II Monti non ascende al concetto, nè si profonda nel sentimento, di Dante: egli lodatore di Papi e di Repubblica, di Repubblica e d'Impero, d'Impero Francese e d'Austriaco; egli, non vaso di poesia, ma quasi imbuto, dal quale passano e il vin di Sciampagna, e il Tocai delle vigne del Principe di Metternich, e pozioni narcotiche e aceto.]

Dalla serenità la chiarezza, segnatamente nel canto di Sordello, ch'è detto bello, chiaro, facile, da Pietro, il quale vuolsi, ma non è provato, che sia il figlio stesso di Dante, chiamato compagno alla educazione dell' esilio paterno. E nota la facilità, come pregio non ricercato dal poeta, il quale in più luoghi fa avvertito il lettore che attendendo e meditando superi le arduità de' suoi versi. Fra gli altri in quello: Apri la mente a quel ch'io ti paleso, E fermalvi en

denti, egli ama congiungerle in un concetto, in un'imagine sola, talvolta in una parola: onde disse la sua poesia polisensa (2). Quale de' Comentatori guardo a solo il lato letterale, quale a solo il letterario, ma nel fatto delle minute eleganze; quale a solo il poetico, ma nell' estrinseco delle imagini, nel passionato de' sentimenti; quale a solo lo storico, non curando de' simboli; quale a solo il politico; qual fece di Dante un novatore di religione, un non so che tra Maometto e Lutero, contro le confessioni sue stesse; quale negò tutti i simboli, che il poeta addita espressamente acciocchè siano badati; quale di tutta la commedia fece un gergo di società segreta, alla quale aggregò tutti i poeti italiani fin quasi a' di nostri. Dal che seguirebbe che, quando il Metastasio fa il Re Pastore che canti: E alla selva, al fonte, al prato L'idol mio con me verrà, Abdolonimo per l'idolo suo intende qual cosa di simile allo Statuto. Ma le grandi opere dell' arte somigliano alle grandi opere della natura; che guardarle in un aspetto solo, foss'anche vero, è un falsarne l'idea. E siccome gli scienziati devono, ciascheduno secondo il rispetto della propria disciplina, studiare nella natura, senza però disprezzare le altre discipline che contemplano gli oggetti medesimi in altri rispetti; cosi deve l'amico dell'arte non disconoscere i fini varii che potè essersi proposti l'artista eminente; ma considerare com'egli li abbia senza confusione conserti, e l'uno dentro all'altro nell'ordine debito contemperati. Perchè, se Dante diceva che l'arte è nipote a Dio (3), cioè discendente dalla natura ch'è da Dio creata; io oserei dire che l'arte è la secondogenita figliuola di Dio.]

Ma per venire a quel canto dove si stende all'Europa tutta per primo, nonchè all'Italia, il concetto; ecco come il poeta ci apre la via. [Innanzi di salire il monte dell'espiazione, stanno aspettando in più schiere le anime di

(1) Purg., I, Inf., III, VIII. Farien pianger la gente. »

(2) Tacito vo chè le parole morte (3) Basville.

(1) Par., V, t. 14; e 11, e X e altrove. (2) Lettera a Cane. (3) Inf., IX.

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coloro che in vita, o per inerzia o per presunzione o per passioni o per occupazioni mondane che li distrassero, e anco queste con inerzia esercitate, ritardarono il ravvedi mento. Perchè, siccome nel vestibolo dell' Inferno se ne stanno i vili che vissero senza nè infamia nė lode, gli inetti per fiacchezza d'animo; così nel vestibolo del Purgatorio gl' inerti, che sono una specie di vili. E può cotesta viltà essere tanto più pericolosa che rea, che spesso si vanta di comparire prudenza, spassionatezza, imparzialità d'animo e di mente serena. Sapientemente il poeta fa a costoro più tarda, nonchè la contentezza del bene, la soddisfazione debita per il male commesso; perchè così accade veramente anco in questa presente vita, che gl'indugi ci fanno immeritevoli, nonchè d'ascendere al bene, d'incominciare a avviarci. E noi in Italia ne abbiamo recente esperienza acerba; che, per avere e principi e popoli ritardata l'opera, ciascun dal suo lato, del proprio rinnovamento interiore, quando nel quarantotto sopravvennero a modo di colpo innaspettato occasioni sübite mirabilmente propizie, in pena della lunga negligenza, impreparati, non se ne seppe approfittare, e si ricadde in più dolorose condizioni che mai.] La schiera di queste anime prega Dante che preghi per esse: egli di qui prende argomento a interrogare Virgilio, come la preghiera umana possa mutare i divini statuti. Il quale risponde che la Giustizia non è punto offesa dal potere l'affetto dell'orante raccogliere in un atto il valore di lunga soddisfazione. Tanta efficacia attribuisce all'affetto meritamente la severa anima del Poeta (1). Virgilio così risponde secondo l'umana ragione stessa, che può giungere fino a qui; ma soggiunge che Beatrice, figura della sapienza ispirata, lo illuminerà di questo viemeglio. Dante, che in quel nome sente non solo la filosofia e la teologia, e tutto quel che volete, ma anco le memorie innocenti del suo primo amore, risponde con brama: Andiamo a maggior fretta. Già più non m'affatico come dianzi. Virgilio gli dice ch'è molta ancora la via, e gli addita un'anima che loro insegnerà la più breve. Ma vedi un'anima che, a posta, Sola soletta verso noi riguarda. Notate la schiettezza del modo, dal quale rifuggirebbero, come da trivialità, fino i curiali d'oggidi nelle loro scritture, nonchè i letterati chiarissimi: ma la semplicità del dire è risalto ai grandi pensieri, e l'indizio e il suggello della vera grandezza. Virgilio a Sordello domanda della via; questi, prima

(1) Purg., VI.

di rispondere, interroga chi sono e donde: e, udito appena il nome di Mantova, sorge e va incontro al suo concittadino ignoto, e s'abbracciano. Di qui prende Dante la mossa a un'esclamazione di sdegnoso dolore e d'ira pietosa verso l'Italia, i cui cittadini, divorati dall'odio, l'un coll'altro si rodono. Esclamazione di troppa verità pe' suoi tempi, e per la serie seguente de' secoli; chè l'odio agli Italiani s'è fatto contagioso retaggio; e, non si potendo più ferire in campo e mordere in piazza, si graffiarono in sagrestia, e si sbocconcellarono in accademia.

Riabbracciatisi tre e quattro volte, Sordello si trae indietro, e domanda: Chi siete? Prima lo sfogo dell'affetto verso il concittadino, anche morto, anche ignoto, qualunque egli sia: poi, il chiederne conto, con atto non tanto di dissidenza quanto d'amorevole curiosità; insomma non la diffidenza per primo. Quand' egli si sente rispondere: Io son Virgilio, maravigliato lo guarda, poi china le ciglia e ritorna verso di lui, e non gli stende al petto le braccia per istringerlo, ma da' piedi. Avrete voi stessi provato un simile sentimento, quando al rincontro, massime inaspettato, d'uomo famoso, dapprima una gioia mista di stupore ci prende, e ne' lineamenti di lui ricerchiamo quelle forme e quella espressione d'ingegno e d'animo, che c'eravam figurati; e, trovandole quasi sempre differenti da quelle che la nostra imaginazione sognava (giacchè gli uomini singolari sono singolari per questo, che non somigliano a tutti quelli che noi conosciamo, e neanco si dissomigliano mostruosamente), si rimane un po' sconcertati: ma poi la gioja e la riverenza ci vincono. Esclama allora Sordello poeta al poeta Virgilio: O gloria de' Latin',... per cui Mostrò ciò che potea la lingua nostra! Dice nostra la lingua latina, egli che scrisse provenzale e italiano (ch'anzi di lui non ci restano versi altro che provenzali); perchè tutte le lingue romanze colla latina fann'uno. [Apprendiamo da questo come la lingua latina gl'Italiani massimamente devono dire nostra; essi ai quali, de' primati perduti, due ancora ne restano, due belli linguaggi e universali: il latino, e la musica.]

Segue dicendo: Qual merito o qual grazia mi ti mostra? S'io son d' udir le tue parole degno, Dimmi.... Il giudice severo di principi s'inchina dinnanzi alla gloria del poeta, si tiene non degno d'intendere le sue parole, perchè sente l'altezza dell'arte sovraeccellente a ogni umana grandezza; e, avendone per prova coscienza in sè, ha pure la scienza di onorarla in altrui. Apprendiamo di qui la dignità della vera modestia noi tutti. Chi non sa riverire ogni qualunque sia grado di merito appunto secondo il

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