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sono ordinate (1).

Le potenze non si diversificano secondo la materiale di▪ stinzione degli oggetti, ma secondo la distinzione formale che concerne la ragione dell'oggetto (2). La ragione è potenza dell'anima non legata ad

organo corporale (3).

E qui, come una delle solite note nel testo, o se si vuole piuttosto come parentesi, ma di quelle per le quali il Poeta faceva il testo dell'intero poema, egli accenna all'errore che metteva più anime in un uomo solo; errorc confutato da Aristotele (4), ripetuto da Averroe Dicevano che in noi sono tre anime, l'intellettiva nel cerebro, la nutritiva o vegetativa nel polmone, la sensitiva nel cuore. La prima infusa nel felo per farlo crescere, la terza 'nel feto organizzato per farlo sentire, la seconda nel feto vicino a nascere. Se, dice Aristotele, l'anima nel corpo si pone per forma, com'è, gli è împos. sibile che in un corpó siano più anime, d'essenza differenti. Se l'uomo dall'anima vegetativa ha la vita, dalla sensitiva il sentimento, dalla razionale l'essere umano, la non è più un ente solo. L'ottavo Concilio (5): Appare laluni essere venuti in tale empietà che impudentemente insegnano gli uomini avere due anime. Credevano anco i Manichei che oltre all'anima razionale fosse la sensitiva, da cui gli atti della concupiscenza venissero.

Quel che è nel soggetto è il medesimo, può distinguersi nell'umana ragione E però può concernere diverse potenze dell'anima (6). Le potenze dell'anima non sono opposte tra loro se non come il più perfetto al meno perfetto, siccome le specie de' numeri e delle figure: ma tale opposizione non impedisce che l'una potenza dall'altra abbia origine ; perchè le cose imperfelle naturalmente dalle più perfette procedono. Potenze dell'anima sono la vegetante, la sensitiva, l'appetitiva, la motrice, l'intelligente (7). Le potenze distinguonsi in ordinê di dignità, intellettiva, sensitiva, nutritiva, e in ordine di tempo, che è inverso (8). Le potenze dell'anima che sono prime in ordine di perfezione e di natura, sono principio delle altre potenze, come principio attivo di quelle e come fine loro. - Le potenze sensitive riguardano l'oggetto meno comune, che è il corpo sensibile; e le intellettive l'oggetto comunissimo che è l'essere universale. Questo, secondo l'oggetto; secondo il modo, poi, che l'anima tende alle cose esteriori le potenze appetitive in quanto l'intenzione ci mira siccome a fine, e le motrici in quanto l'animo tende a esse siccome a termine delle proprie operazioni (9). Non le polenze sono per gli organi, ma questi per quelle; e però non sono tante le potenze quanti gli organi : ma la natura istitui diversità negli organi acciocchè alla diversità delle potenze eglino fossero congruenti. Diversi oggetti appartengono a diverse potenze inferiori dell'anima, i quali però cadono sotto a una sola superiore potenza, la quale comprende gli oggetti più universali (10). Le potenze sono nell'anima tutte non come in soggetto ma come in principio. Tulta la natura corporale soggiace all'anima e le è come materia e strumento (11).

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L'anima sebbene non sia composta di materia e di forma, ha in sè del potenziale, cioè che può svolgersi in atto ma non è sempre in atto (12). Non

(1) Arist. Eth., VI.

(2) Sum., 1, 59.

(3) Sum, 1, 2, 3.

(4) Agostino ha un libro delle due

anime.

(5) Can., XI.

(6) Som., 1, 77.

(7) Arist., de An., II.

(8) Som., I. c.
(9) Som, 1, 78.
(10) Som., 1, 71.

(11) Som., 1, 78.
(12) Som., 1, 77.

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sempre l'ente che ha anima esercita in atto le operazioni della vita, onde anco nella definizione l'anima è detta l'atto del corpo avente la vita in potenza. Quando l'intenzione dell'anima è fortemente tratta all'operazione dell'una polenza, è ritratta dall'operazione d'un'altra. Quella virtù dell'anima che è sciolta dall'organo del corpo è in certo modo infinita per rispetto al corpo stesso (4) Il diletto estraneo impedisce l'operazione, perchè mentre all'una cosa intendiamò forte, forza è che dall'altra l'intenzione sia ritratta (2). Quando noi nón mutiamo pensiero, o mutandolo, non ce ne avvediamo, non ci pare che sia trascorso alcuno spazio di tempo (3).

Recheremo da ultimo un passo de' Bollandisti, che congiunge la tradizione filosofica colla ascetica: L'astrarsi che fa la mente dell'uomo da' sensi corporei, è naturale o sopranaturale. Quella che chiamiam naturale è prodotta da forte applicazione dell'anima ad un pensiero. Perchè, sebbene siano varie le potenze dell'anima, una però è l'intensione per cui nell'attendere alla -contemplazione delle cose umane e delle divine, si fa vano (4) l'acume degli occhi e gli atti dell'udito e degli altri sensi. L'astrazione oltre natura, dalle divine lettere chiamasi ratto. Il qual raito o proviene da malattia, o da malo spirito, o da nume divino (5).

Di tali astrazioni il Poeta non so s'io abbia a dire pativa o che n'era potepte: Cominciò il naturale mio spirito ad essere impedito nelle sue operazioni; perocchè l'anima era tutta data nel pensare di questa gentilissima (6)... Mentŕ'io.......... disegnava, volsi gli occhi, e vidi lungo me uomini.... e, secondo che mi fu detto poi, egli erano stati già alquanto anzi che io me ne accorgessi (7). Il simile seguì, narra il Boccaccio, al Poela quando essend'egli in Siena, statogli recato un libro e non avendo spazio di portarlo altrove, sopra la panca si pose col petto; e benchè in questa contrada per fe sta pubblica si facesse armeggiata e rumore con istrumenti e con versi e balli di vaghe donne e giuochi di giovani, mai non si mosse, nè levò gli ococchi dal libro, e quivi stette da nona a vespro finchè tutto non l'ebbe percorso. Di visione soprannaturale, venutagli, canterà: Oh imaginativa, che ne rube Talvolta sì di fuor, ch'uom non s'accorge Perchè d'intorno suonin mille tube! (8)

(1) Som, 1, 2, 2. Abbiamo qui il modo di Dante: Questa è quasi legata e quella è sciolta. Nei Bollandisti (1, 194): Io sono (dice Dio) il solo che pusso legare la mente.

(2) Som., 1, 2, 4.
(3) Arist. Fis, IV.

(4) Purg., VIII, t. 3: Render vano l'udire.

(5) Bolland. 901, Vita di Veronica di Binasco, lib. III, cap. I., (6) Vita Nuova. (7) Ivi.

(8) Purg., XVII.

ANNOTAZIONI ASTRONOMICHE DEL P. G. ANTONELLI.

Chè ben cinquanta gradi salit'era.
Lo sole.... » (T.-5.).

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Dei tre modi generali che possonsi usare per determinare la posizione degli astri e risolvere una questione di tempo, pare che il Poeta qui voglia assumere quella che si riferisce all'orizzonte, parlando qui manifestamente di una determinata salita; e il salire di un astro essendo proprio per rispetto al piano o al cerchio orizzontale. Però nella Pasqua del 1300 il sole non avrebbe potuto raggiungere l'altezza di ben cinquanta gradi al Purgatorio, neppure quando fosse stato alla sua massima altezza nel meridiano; il che favorirebbe l'opinione di coloro che ritengono doversi porre il 1301 come l'anno della Visione poetica. Ciò non ostante può credersi che Dante dia il numero tondo più prossimo, dicendo cinquanta, invece di quarantasei o quarantasette gradi d'altezza, avendone avuti ivi il sole quasi quarantotto a mezzogiorno in quel dì, stando al 1300; e così avrebbe accennato a circa le ore 11 della mattina.

Quando poi si volesse prendere quella solare salita non a tutto rigore astronomico, ma in significato di moto che si fa comunque ascendendo, inquanto nella prima metà dell'arco diurno ogni astro va salendo sull'orizzonte; allora quel movimento di ben cinquanta gradi c' indicherebbe tre ore e mezzo di sole, e così le ore dieci della mattina. Onde il colloquio con Manfredi sarebbe durato circa due ore.

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E la costa superba più assai

Che, da mezzo quadrante.... (T. 14.)

Il quadrante è un istrumento astronomico rappresentante una quarta parte di circolo. Uno dei due raggi estremi, che determinano l'angolo retto, si colloca verticalmente, l'altro rimane allora orizzontale; e una riga, o lista, imperniata nel centro, si può fare scorrere con l'esteriore sua estremità sull'arco del quadrante, il quale, colla graduazione segnatavi, ci fa conoscere l'altezza angolare d'un oggetto, cui siasi diretta la lista, sull'orizzonte. Il Poeta adopra l'imagine di questo istrumento per dirci in modo geometrico qual fosse la ripidezza del monte; e poichè la costa di quello era superba più assai che lista da mezzo quadrante al centro, segue che la pendice si avvicinava più alla verticale che all'orizzontale, cioè faceva con questa un angolo assai maggiore di 45 gradi, ed era perciò molto difficile a superarsi.

Poscia gli alzai al sole: ed ammirava. » (T. 19.)

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Alle nostre latitudini, ed in generale a una latitudine boreale, maggiore di ventitré o ventiquattro gradi, quanto è la obliquità dell' ec

clittica, chi guardi a levante quando il sole si appressa al meridiano, ha quest' astro a mano destra in qualunque tempo dell' anno. Quindi il Poeta, che veniva da regioni settentrionali, poste al di sopra di 35 gradi rispetto all'equatore, fu colto da maraviglia allorchè, sedendo in prospetto dell'oriente, si vide ferire a sinistra dal sole, che non era lungi dal meridiano. Virgilio s'accorge che lo stupore di Dante na-sceva dal vedere il carro della luce tra la posizione che ambedue occupavano e aquilone, cioè tramontana, invece che tra loro ed austro, siccome era solito; e si fa a spiegargli l'apparente contradizione, dicendogli: se il sole che, quasi specchio lucidissimo riflettente la Luce increata, illumina e questo e il superiore emisfero, invece di essere nella costellazione di Ariete fosso ne' Gemelli, e quindi con Castore e Polluce, i quali oggi corrispondono all' estivo solstizio, e perciò a quella parte dell'ecclittica, che è più remota dall'equatore dalla parte di Borea; vedresti quell'arco dello zodiaco, il quale rosseggia per la solare presenza, rotare ben più prossimo alle Orse e all'artico polo, di quello che ora tu vegga, se il supremo Legislatore non disponesse altrimenti. Quando poi tu voglia vedere come ciò avvenga, per poterti rendere ragione di questi fatti, raccogli la tua potenza intellettiva, e imagina che il monte di Sion a Gerusalemme sia collocato in guisa rispetto a questo del Purgatorio sulla superficie terrestre, che ambedue abbiano un medesimo orizzonte e diversi emisferi, cioè uno da una faccia, uno dall'altra: vedrai allora, se poni mente con attenzione anche alla situazione di Gerusalemme, per cui è fuori della zona torrida, che questi due monti sono gli estremi di quel diametro della terra, il quale è normale al comune orizzonte; e che il corso diurno del sóle (cui disgraziatamente non seppesi attenere Fetonte), rimane sempre di necessità da opposta parte, a chi nei due luoghi distinti fosse egualmente orientato. Da questa dichiarazione del maestro, rimane cosi persuaso il Poeta, che protesta di non aver visto mai cosi chiaro come su questo punto, al quale gli pareva di non poter giungere col suo ingegno; perciocchè, conchiude egli, la ragione della rispettiva situazione dei due monti antipodi, mi fa capire che la metà dell'equatore celeste la quale sopra l'orizzonte, e sempre rimane tra il sole e il verno (perchè dove è il sole è estate, e l'estate e l'inverno sono da opposta parte rispetto all' equatore) di qui, cioè dal Purgatorio, si vede dalla parte di settentrione, mentre gli Ebrei a Gerusalemme vedevano quel mezzo cerchio dalla parte di ostro, ove da noi si reputa essere la regione del caldo.

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Annunziandosi con queste parole esser già l'ora del mezzogiorno, segue che tutto quell' emisfero era rischiarato dai raggi del sole; e però su tutto l'opposto, che è quello di Gerusalemme, regnava la notte. Questa dunque aveva steso i suoi passi fino agli estremi confini a occidente, segnati qui col regno o città di Marocco, che occupava una delle parti più occidentali di terra ferma, allora conosciute,

CANTO V.

ARGOMENTO.

S'incontrano in altri negligenti a pentirsi, e morti di morte violenta: gli parla un Fanese, un Montefeltrano, una donna di Siena.

Il Canto spira serena malinconia: de' più belli dell'intero Poema. Nota le terzine 1; 2 alla 6; 8, 9, 10, 13, 14, 15, 17; 19 alla 22; 26 alla 28; 30 alla 35; 28 alla fine.

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1.

I'

era già da quell'ombre partito, E seguitava l'orme del mio duca;

Quando, diretrą, a me drizzando il dito, 2. Una gridò:

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Ve' che non par che luca
Lo raggio da sinistra a quel di sotto,
E, come vivo, par che si conduca.
3. Gli occhi rivolsi al suon di questo motto,
E vidile guardar per maraviglia

4.

Pur me, pur me, e il lume ch' era rotto.
Perchè l'animo tuo tanto s'impiglia
(Disse 'l maestro), che l'andare allenti?
Che ti fa ciò che quivi si pispiglia?
5. Vien''dietro a me, e lascia dir le genti.
Sta come torre ferma, che non crolla
Giammai la cima per soffiar de' venti.

2. (L) Non: gelta ombra. — Di sotto. Salivano, Dante dietro più basso.

(SL) Sinistra. Se volti a Levante, avevano il sole a sinistra (Purg, III, 1. 30): ora ripigliando il cammino devono averlo alla destra, e a sinistra l'ombra del corpo.

3. (L) Rotto dall'ombra.

4. (L) Impiglia: confonde. - Pispiglia: bisbiglia.

(F) Impiglia. Dino: Impigliano le ragioni, Som: Animos hominum implicent vanitati et falsitati

5. (F) Torre Conv., II, 2: Quello amore il quale tenea ancora la rocca della mia mente. Per indicare che le ricchezze nulla possono sulla virtù, dice in una canzone: Nè la diritta lor. re Fa piegar rivo che da lungi corre. Vite ss. Padri, II, 318: Rocca della

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