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se tu sai, dove è Piccarida; e Forese La mia sorella, che, tra bella e bunna, Non so qual fosse più, trionfa lieta, Nell'alto Olimpo, già, di sua corona. Il contrapposto fa meglio sentire la gentilezza della memoria affettuosa. E tanto più gravi suonano, accanto alle lodi della Vergine umiliata, i biasimi del superbo fratello di lei; e, guardata dall'alto de cieli, appare più cupa la valle ove mai non si scolpa; e la corona della donna trionfante vibra una luce tremenda sul corpo del barone, vilmente disfatto. E' non pronunzia il nome di Corso: quei che più n' ha colpa Non sai se il Poeta non degni profferirlo, o se il fratello non osi: a me piace meglio il secondo. E quando Forese alza gli occhi al cielo, a me quello pare atto di dolore tra vergognoso e pio, e però doppia bellezza. E se, chiamando Virgilio e Stazio due gran maliscalchi, Danté intendeva contrapporli alla trista boria del barone; cotesla in parte al'litolo strano sarebbe scusa.

Bello è, per certo, nel Canto, il contrapposto delle memorie di Piccarda e di Gentucca, e della morte miserabile d'un suo alfine, e il pensiero della rovina che minaccia la patria e che fa all'esule desiderare la morte, con la pittura quasi faceta d'Ubaldino della Pila e di Bonifazio, e di messer Marchese e di papa Martino. Bello il tendere di tante mani, con atto fanciullesen, alle poma agognate; e la voce che di tra' rami esce, e non si sa chi la dica. Ben più poetico il non so chi diceva, che in Inferno: ne si alți nè si grossi, Qual che si fosse, lo maestro felli. A cinger lui, qual che fosse il maestro, Non so lo dir Ed è sapiente che dell'albero d'Eva un rampollo venga su questo suolo fel monte a tormentare di fame le anime che della gola fecero a sè profana tentazione. Perchè da colpa nasce colpa: è da un desiderio a cui l'uomo serva, pullulano altri desideri tiranni: e il piacere ignobile è seme a ignobili dolori; e dal condiscendere all'amore proprio per farsi più che uomo, l'uomo è tratto a condiscendere a voglie sempre più basse che gli farebbero, se possibile fosse. perdere gli alti istinti dell'umana natura Bello eziandio che, sentita l'ignota voce uscire quasi dal seno dell'albero, e favellare con le sue foglie (come in Inferno la fam. ma tormentatrice, e la pianta da cui i suicidi gemono querele con sangue), i tre poeti vadano un miglio della via solitaria, senza parola. L'apparizione dell'Angelo, e l'aura che spira dalle sue piume (sin qui egli sentiva il soave ventilare dell'all, non

lo spirito della fragranza e di questo senso novello egli è fatto degno salendo, e to prova nel giro dove lo stesso odore delle frutta è una pena), degnamente conchiude il Canto, che è fit o di bellezze e dello stile e del cuore, di memorie e domestiche e letterarie e cittadine.

Un trattato d'arte poetica è inchiuso non tanto nelle parole quando Amore spira, noto; quanto nell'altre a quel modo Che detta dentro, vo significando: perchè non basta lasciarsi andare alle vaghe ispirazioni d'un affetto, benchè verò e degno; ma uffizio e difficoltà e lode e potenza della parola e dell'arte, si è a temperare la significazione d'esso affetto al suo modo. al grado suo, per l'appunto. E questo egli spiega, poi, soggiungendo: le vostre penne Diretro al Dittator sen' vanno strelte: cioè a dire, che non solamente non bisogna mentire sentimento, ně fallacemente simulario nè dissimu larlo vilmente, ma non dire nè meno nè più di quel che davvero si sente. Questo è il nodo che ritiene i medio. cri: i quali, volendo strafare, o non osando esprimere schiettamente quel ch'hanno nell'anima, o non curando ritrovare i modi di farlo insieme con semplicită e con decoro, non vedono più da stile a stile, si confondono, perdono la misura del bello e del vero. Quest'è il forte che fa grande i grandi. E questa è opera insieme di natura e d'arte, di ispirazione e d'e. sperienza, di menje e di volontà, di virtù e di meditazione e di lima.

Anco della dicitura, il presente de' Canti, al parér mjo, più limall. versi che rammentano de Centauri e di Gedeone sono di ben temprata ar monia E alla potente locuzione in sul primo: Per le fosse degli occhi ammirazione Traèn di me, consuona in ultimo quella ripetizione che quasi ingiunge al lettore di yolgersi all'a lito che spira dall' ali dell'Angelo: Tal mi sentii un vento dar per mezza La fronte; e ben sentii mover la niuma Che fe sentir d'ambrosia l'grezza. Vero è che il primo segnatamente de' tre versi non suona cosi delicato come in Virgilio: liquidum "ambrosiae diffudit odorem - Ambrosiaeque comae divinum vertice odorem Spi ravere a la comparazione dell'anca di maggio, e quella de vetri nella fornace, e quella de' fantolini, hanno bellezze che compensano la men felice, della nave pinta da buon veuto; e risaltano per il contrapposto delle due accennanti a esercizii guerreschi; dico di chi, ansante, allenta Il corso, e di chi galoppando esce di schiera all angre de tirimi scontri.

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I due alberi che le anime rincontrano nella via e che sono a essi martoro col desiderio delle frutte e dell'acqua cadente sopravi, ma che non iscende fino alle labbra loro, rappresentano, forse, l'uno il piacere vero al quale esse tendono, l'altro il piacere falso da cui si lasciarono sviare; poichè il primo salendo si dilata, e una voce da esso dice: di questo cibo avrete caro, e rammenta esempi di astinenza gloriosi; dal secondo, che è levato dall'albero d'Eva, una voce suona: trapassate oltre senza farvi presso, e rammenta esempi d'ignobile golosità. Poi l'immagine reca il pensiero al supplizio di Tantalo, il quale è figura di tutti i desiderii smodati che sono tormento a sè stessi (1). Virgilio nel suo Inferno congiunge i Lapiti e Issione, e il supplizio del sasso imminente a quel della fame: Lucent genialibus altis Aurea fulcra toris, epulaeque ante ora paratae Regifico luxu. Furiarum maxima juxta Accubai, et manibus prohibet contingere mensas. Exurgitque facem attollens, atque intonat ore (2).

Gli avari a terra legati gridano nel pianto come donna nel parlo; i golosi corrono leggieri perchè quanto più tosto arrivano sotto l'uno o l'altro degli alberi bramati più patiscono e' più purgano la colpa loro. Vanno pensosi, ma sono però tutti contenti dell'essere nominati, nè Dante vede tra essi un atto bruno, chè l'allegria è il proprio del difetto loro; contrario alla fame degli avari cupia. E' ci trova anche un papa, Martino IV: e anche in altra Visione della montagna del Purgatorio vescovi sono puniti di mollezza, e conti di rapacità (3) E in un'altra Visione: "Mostrò l'angeto del Signore a Veronica i primi aditi del Purgatorio (4), ond'ella vide innumerabili anime » di iniziati agli ordini sacri, e grandissima turba de' due sessi, compresa » da tormenti incredibili. Ed ecco la vergine vide un'anima nota á lei quand'era congianta al corpo (5) che col grande pianto significava dolori acerbissimi. Quella voce tanto atterri Veronica che fece lo spirito tremando » ritornare agli uffici corporej. Attestarono le due suore Orsola e Maddalena, che allora assistettero a Veronica rientrante pe' sensi, come la vecgine desse segni di forte tristezza, e di timido dolore, e d'orrore grande,

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col battere delle mani, collo scuotere del capo, e con voce di pianto. E » disse la vergine: Ahi, ahi, che pene oggi e che generi di tormenti ho "uditi! Oh potessi quel che vidi, parlare, e manifestare le secrete cose (4) vergine aver cono» sommerse nell'alta caiigine del Purgatorio: Affermò

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sciute cert'anime, che pe' meriti e per la fama di lor santità, mentre conducevano le membra mortali, ella credeva fruissero da gran tempo della » visione divina. Tacque i nomi loro (2), temendo incorrere nell'offesa di » Dio (3). "

Gli affamati assomiglia Dante a Erisittone, Tessalo anch'egli, come i Centauri che più sotto nominerà; dacchè le schiatte affini alla Slava pare che sempre si dilettassero della guerra e de' canti e de' cavalli e del vino. Erisittone detto da Ovidio profano, come i golosi miseri profani (4), è punito di fame: Qui numina Divûm Sperneret... Ille etiam Cereale nemus violasse securi Dicitur (5). E forse per dimostrare come gli eccessi di gola sospingono ad altri eccessi e d'amore e di rabbia e di discordia e di sette, rammentansi i Centauri che tentano rapire a Piritoo la sposa. Quam vino pectus, tam virgine visa Ardet; et ebrietas geminata libidine regnat (6). E questo seguiva, al dire d'Ovidio, in una reggia: Festaque confusa resonabat regia turba (7). E i Centauri nascevano d'Issione e d'una nube; e la nube, secondo Aristofane, era imagine della voracità. E Chirone Centauro era medico. E il nome di Centauro fu poi dato alle navi (8), o dalla velocità del corso o dal nascere il legno loro sui monti e poi correre le acque, onde pare ch'ell'abbiano natura doppia. E da Bicentauro nacque il veneto Bucentoro, dell'ultimo de' quali che vide l'ultimo sposalizio del mare serbasi un avanzo nella raccolta di cose patrie fatta con cura grande dal veneziano Zoppetti, quanto più modesto tanto più benemerito cittadino.

Ai Centauri segue il men grave, l'esempio degli Ebrei, che non per avidità di gola ma per agialezza non convenevole a' combattenti in difesa della comune patria, posarono a terra, per bere, il ginocchio: con che ci si vuol indicare ch'anco le leggiere o colpe o negligenze possono, secondo le intenzioni e i casi, farsi dannosa reită.

Nel giro de' golosi e in quel de' lascivi Dante rincontra memorie e domestiche e patrie e religiose e letterarie; di che il Canto acquista e verità e soavità ed efficacia. Ne' versi: Io mi son un... (9); è il segreto e della poesia e dell'eloquenza, e di tutte le arti del vivere; e da quel che il Poela soggiunge, vedesi chiaro com'egli sentisse in tutta la forza e le conseguenze, quello che in brevi parole, quasi stillato di tutta l'esperienza sua, raccoglieva; Quid voveat dulci nutricula majus alumno, Quam sapere, et fari ut possit quae sentiat? (10). Quanta distanza da queste parole, pur belle, d'Orazio, a quelle, non forse così ornate di Dante ma più profonde! Alle quali illustrare giovano queste: L'esteriore parola è ordinata a significare quello

(1) Ripete una frase virgiliana. Inf., III; Par., XXVIII.

(2) Nón ha questi scrupoli il nostro Poeta Tace nome di un papa nel III dell'Inferno, ma per dispetto. (3) Bolland., 1, 904. (4) Inf., VI, t. 7. (5) Ovid. Met., VIII.

(6) Ovid. Met., XII.
(7) Ovid., I. c.
(8) Æn., V.

(9) Purg, XXIV, t. 18. Vita Nuova: Gli venne volontà di dire e la sua lingua parlò, quasi per sè stessa mossa. (10) llor. Epist., 1, 4.

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che si concepisce nel cuore (4). Essendo le voci naturalmente segni dell'intendimento, è innaturale e indebito ch'attri in voce significhi quello che non ha nella mente (2). E Dante della filosofia stessa: Filosofia è uno amoroso uso di sapienza (3). E di più alta sapienza e d'amore più alto, ecco parole di vita scritte da un già prossimo a morte, e sottoscritte col sangue: L'amor mio crocefisso, vivente e parlante in me dentro, dice a me: Vieni al Padre (4).

(1) Somma.
(2) Som., 2, 2, 110.

(3) Convivio.
(4) Ignazio ai Romani.

DANTE. Purgatorio,

CANTO XXV.

ARGOMENTO.

Domanda come possano patir di magrezza corpi che non hanno bisogno di cibo. Stazio dichiara la natura del corpo senziente nella vita terrestre, e la natura di quello che pena nell'altra vita. Arida esposizione, ma sparsa di lumi poetici con locuzioni potenti, e con filosofia qua e là più vera che sul primo non pare. Salgono all'ultimo giro, ove espiansi i peccati di senso. Canti di preghiera, gridi che dicono esempi di purità, o di lascivia punita: Callisto, e Maria.

Dieci in questo Canto le similitudini: belle le più, nuove quasi tutte: molti traslati ardimentosi, ma non tutti felici. Nota le terzine 1; 3 alla 6; 8, 9, 13, 19, 20, 24, 25, 26; 29 alla 34; 38 alla 45.

1. Ora era, onde 'l salir non volea storpio,

Chè il sole avea lo cerchio di merigge
Lasciato al Tauro, e la notte allo Scorpio.

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Toro, sarebbe stata l'ora del mezzodi, toccandosi da questo segno il meri diano tosto che, in tale "ipotesi, l'avesse lasciato il sole Ma si e visto che doveva essere già passato il m.3zogiorno sulla fine del Canto XXIII, quando il Poeta narra a Forese del suo viaggio Oltrediche, non potrebbe stare l'ora meridiana con la fretta, che il Poeta stesso qui dice necessarta per cazione dell'ora: dunque per Tauro e Scorpio in questa prima ter. zina s' hanno a intendere le costellazioni del Toro e dello Scorpione, e non essi segni zodiacàli. Ciò dichiarato, e posto mente che la costellazione de' Pesci si stende per circa 49 gradi, e per quella dell'Ariete, il sote in questo di si sarebbe trovato nel decimo grado della costellazione del

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