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STAZIO.

Il monte trema da cima a fondo: e da tutto il monte si leva un grido di gloria a Dio negil altissimi, perchè un'anima già purgata è falta degna di salire alle stelle. Innanzi che l'espiazione sia compiuta, l'anima vuol, ben: ma non lascia 'l talento. Che divina giustizia, contra voglia, Come fu al peccar, pone al tormento (1). Vorrebbe salire: ma contro sua voglia è da Dio condannata a volere la pena. Il desiderio dell'espiazione combatte col desiderio del gaudio, come in vita, peccando, la voglia del male combatte col desiderio del bene. E siccome il male vinse di là, di qua vince il dolore (2). Nell'eliso di Virgilio le anime stanno lunghissimo corso d'anni a purgare le Colpe della prima vita: Exinde per amplum Mittimur Elysium, et pauci laela arva tenemus; Donec longa dies, perfecto temporis orbe, Concretam exemit labem, purumque reliquit Ethereum sensum, atque auraï simplicis ignem. Has omnes, ubi mille rotam volvêre per annos, Lethaeum ad fluvium deus evocat agmine magno: Scilicet immemores supera ut convexa revisant, Rursus et incipiant in corpora velle reverti (3). A quest'ultimo verso consuona il concetto di Dante, ma più pienamente con le idee cristiane, che dimostrano la volontà de' giusti essere conforme alla giustizia divina e all'umana, anco nelle cose che spiacciono ad essi; e la volontà esercitarsi, in certo modo, contro sè stessa e sopra sè stessa, ch'è la più nobile prova del. l'umana libertà. La pena del Purgatorio è volontaria, inquanto la soffrono sentendola necessaria a salute (4). Ne si può senza la Grazia avviarsi a

giustizia dinnanzi a Dio per libera volontà (5). Libertà è potere che ha l'uomo di muovere la sua volontà verso o contro la legge; volontà è la facoltà d'appelire il bene conosciuto (6).

L'anima che sorge e si fa a' due Poeti compagna, è l'anima d'un poeta, di Stazio, al quale egli non diede luogo tra' cinque, al suo parere più grandi, Omero, Virgilio, Orazio, Ovidio, Lucano, per destinargli qui luogo più distinto, e ragionarne con maggiore abbondanza, e baltezzarlo quasi nella poesia religiosa di Virgilio, e dipingere loro e sè in quell'atto di famigliarita riverente e di ammirazione lieta, e di dignitosa docilità, che così ben si conviene agl'ingegni grandi. Il punto quando Stazio, senza sapere di Virgi

(1) Terz. 22.

(2) Purg., XXIII, t. 25: Chè quella viglia all'albero ci mena, Che menò Cristo licto a dire Eli.

(3) En., VI.

(4) Som. Sup.

(5) Concil. Trid.

(6) Rosmini. Terz. 23: Sentü Li bera volontà di miglior soglia.

lio presente, lo loda con tanta effusione e parsimonia insieme, e`Virgilio, per un moto di modestia, impone a Dante di non lo svelare; ma poi, quasi commosso dal contrasto che segue nel suo discepolo tra due nobili sentimenti, e per riconoscenza all'affetto di Stazio, e per amore di verità in ogni cosa, permette a Dante di dire il suo nome; quel punto è di drammatica e di morale bellezza. De' ragionamenti di Virgilio e di Stazio Dante dice, Ch'a poetar gli davano intelletto (1); perchè nelle imitazioni che fece Stazio di Virgilio, ingegnose, e che talvolta ridicono non servilmente le parole medesime, come Dante fa, egli apprendeva ad appropriarsi l'altrui parolă e il concetto, e col proprio concetto ampliarlo. Chi pensa che più di sedici secoli dopo la Tebaide di Stazio, un grande ingegno, l'Alfieri, viene a mettere in dialogo per lo spazio di dieci alti que' casi; e quasi sempre si dimostra e meno conoscente della natura umana e più pagano di Stazio, intenderà come Dante potesse pregiare tanto quel retore facondissimo; e scuserà chi'c' volesse farlo di sua autorità cristiano. A vedere in che guisa gli antichi siano il più sovente seguiti o giudicati da uomini che sono pur degni di sentirli e emularli, il cuore e la mente s'empiono di pietà e di sgomento. Il buon Forcellini, che dimostra nel suo grande lavoro tanto senno, ripete il detto di non so chi intorno a Stazio: «Nelle Selve, erudito, sublime nella Tebaide, nell'Achilleide blando. » Le Selve non paiono note a Dante; ma si la Tebaide e l'Achilleide; e' lo cita altresì nelle prose. Donde sapesse della sua prodiga. lità, non saprei; se forse non accenna a que' versi in cui Giovenale, rammentando gli applausi che accompagnavano la lettura della Tebaide, soggiunge della povertà del poeta a cui la sua fama non dava pane; Intactam Paridi nisi vendat Agaven. Forse che Dante abbia inteso che cotesto vendere il dramma fosse non tanto per necessità di vivere, quánto per ismania di spendere (2); e forse che sapendolo povero, e non lo volendo fare avaro, alla men disperata lo fece prodigo, tanto per il piacere d'abbattersi in Purgatorio seco, e vederlo in atto d'inginocchiarsi dinanzi al comune maestro. Sénonchè quando si rammenta che tutte le invenzioni e gli accenni di Dante, anco i più strani, hanno fondamento in una qualche autorità che o sia la tradizione o ne porti sembianza, vien voglia, piuttosto che accagionare di leggerezza il Poeta, credere che qualche accenno ignoto a noi, letto in libri antichi o nelle opere stesse di Stazio, consigliasse il concetto di questo Cantu.

E così l'essere Stazio vissuto cristiano in segreto non ha conferma dalle sue Selve, ove dice con pietà d'onest' uomo: Qui bona fide deos colit, amal et sacerdotes (5): nè pare che la persecuzione di Domiziano fosse da lui pianta per compassione de' Cristiani. Nelle Selve egli loda (4) il domino Ce

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sare (1), e si tiene sacratissimis ejus epulis honoratus (2): e di lui dice altrove (3): Qui reddit Capitolio Tonantem... En hic est deus, hunc jubet beatis Pro se Jupiter imperare terris. Salve dux hominum et parens deorum Praevisum mihi, cognitumque numen. Ma forse qui Stazio è fatto salvo perchè nella Tebalde leggesi ritratta con orrore l'empietà di Capaneo (4); forse, sapendosi che parecchi de' pagani conoscevano i libri della legge mosaica e della cristiana, e di li potevano avere il vero, Dante avrà imaginato questo di Stazio e per amore di lui, e per collocare in Paradiso, insieme con un imperatore e con un guerriero pagani (5), un poeta; e per fare onore di questa conversione al suo poeta diletto, a Virgilio, il quale, appunto pe' versi qui recati era, ne' drammi sacri del medio evo, introdotto a vaticinare il Messia insieme co' profeti e con la sibilla. E veramente nella parola di tutti gl'ingegni più eletti è, più o meno chiaro, dell'ispirato, e che però giova all'indovinamento siccome dell'avvenire, così del passato e del presente, che sono a indovinare sovente non meno difficili, chi bene guardi. Stazio dunque reca a Virgilio l'onore e della sua corona poetica e della sua salvazione dal vizio della prodigalità e della sua salvazione dal paganesimo. A trarlo dalla turba de' prodighi valse l'esclamazione che è in Virgilio contro gli avari: Quid non mortalia pectora cogis, Auri sacra fames? (6) Che è tradotto da Dante Per che non reggi tu, o sacra fame Dell'oro, l'appetito de' mortali ? (7) A trarlo dall'errore pagano valsero i versi che Virgillo disse di Pollione, ma vuolsi che a Pollione egli applicasse la profezia che guardava al Redentore aspettato (8). Questi- versi Dante nella lettera ad Arrigo applica alla ristorazione dell' imperio. L' imperio era a lui redenzione nuova. E rivolge ad Arrigo le parole che Giovanni a Cristo: Sei tu 'l promesso ?

(1) Silv. Praef., IV.

(2) Silv., 1. c.

(3) Silv., IV, 3.

chezze, e nella Vita Nuova: L'anima, cioè la ragione, è contrapposta al cuore, cioè all'appetito. Anco i versi del

(4) Inf., XIV e XXV; Teb., X, 927. 'Egloga IV sono liberamente tradotti, (5) Purg., X; Par., XX. (6) En., III.

(7) Purg., XXII. Truduzione liberissima, e però più fedele. Tuttochè di non pari eleganza. Il cogis che, alla lettera, potrebbe significare violenza e negare la libertà dell'arbitrio, qui volgesi in reggi, che ha forse l'origine stessa da ago. Il per dipinge più vivamente del quid l'impeto della passione che per varii eccessi travolge l'animo, e così compensa quello che potesse mancare del cogis; e rammenta gli altri modi virgiliani: Triste per angu rium Teucrorum pectora ducunt (En., V). Vivo equidem, vitamque extrema per omnia duco (En., III). Pectora è reso qui da appetito; e in Aristotele appetito è la concupiscenza: e nella Somma, più volte, l'appetito delle ric

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e se ne då non il compendio ma lo spirito. Secol si rinnova, dice Magnus ab integro seclorum nascitur ordo; ma non lo dice con altrettanta ampiezza d'imagine e pienezza di suono. Primo tempo umano è meglio che saturnia regna; si perchè ci si tace del regno favoloso, si perchè tempo umano denota che quello era lo stato vero dell'umana natura. Nel terzo verso l'armonia latina è più compiuta, e l'allo alla fine richiama i pensieri al luogo da cui la salvezza discende; e demittitur, lasciando imaginare la forza della virtù che scende e quella della virtù che invia, è più profetico e più cristiano.

(8) Nat. Alex., Hist. eccl., saec. I, dis. 1; Demaistre, Soirées; e così Girolamo, Epist. L.

A Dante che in tulto vedeva simbolo, perchè in tutto c' è simbolo a chi sa vederlo, la poesia virgiliana era più simbolica che nella mente dello stesso poeta latino, dove ell'era pur tale assai più che non paresse ai tanti suoi ammiratori e seguaci. E quando egli dice: Sed me Parnassi deserta per ardua dulcis Raptat amor; juvat ire jugis, qua nulla priorum Castaliam molli divertitur orbita clivo (1); intendeva d'un Parnaso ideale, come quello di cui esso Virgilio in Dante: Spesse fiate ragioniam del monte Ch' ha le nutrici nostre sempre seco (3). E però non Dante solo ma i Padri recano l'autorità di Virgilio; e Tommaso cita un passo d'Agostino in cui Virgilio è citato (3). E ben dice Dante che quel di poeta è tra gli umani il nome che più dura e più onora, dacchè nessuna parola corre per tante bocche e per tanli cuori più soave e più forte, che del poeta; e le altre parole in tanto hanno potenza in quanto aura di poesia; e i libri filosofici degl' ingegni più creatori, se la bellezza dello stile non li regga, trapassano in altri libri nel corpo della civiltà, ma non sono riletti che da pochi eruditi. Ed esso Virgilio quando più si compiacque dell'arte propria e più se ne ripromise, la imaginò non pertanto meno durevole di quel ch'ell'è. Al pio affetto d'Eurialo e di Niso e' promette premio di fama: Dum domus Æneae Capitoli immobile saxum Accolet, imperiumque paler romanus habebit (4). Ed ecco questi versi sopravvivono alla grandezza del Campidolio e all' impero di Roma.

Quello che Stazio dice di sè, che senza l'Eneide non fermò peso di dramma (5), dimostra come gli scrittori valenti, a similitudine del sommo artefice facciano il tutto in numero, peso e misura, e intendesi detto di Dante stesso Altri opporrà che, a questo modo, la poesia di Dante apparisce quasi un centone di Virgilio con altri: ma chiunque attentamente lesse, il Petrarca, l'Ariosto, sa bene come di rimembranze latine e dantesche sia tutto contesto il loro stile, senza che sempre ne perda l'originalità del concetto; e sente la distanza che corre tra quelle imagini o locuzioni che Dante, ridicendo, ricrea, alle prove d'imitatori men forti. Non dunque in simili due o tre passi, come il Monti voleva, ma in innumerabili Dante rammenta Virgilio. E Virgilio stesso in molti rammenta Omero, qua e là superandolo.

Paragonisi il XXII dell'Inferno col XXII del Purgatorio e col XXII del Paradiso; e sì noti differenza mirabile di stile, di modi, d'imagini, di concetti, d'affetti. E così (se piace) facciasi degli altri Canti.

(1) Georg., III.

(2) Purg., XXII.
(3) Som., 2, 1, 35.

(4) Æn., IX.
(5) Terz. 33.

CANTO XXII.

ARGOMENTO.

Entrano al giro ov'è punita la gola. Stazio dichiara che non per avarizia ma per prodigalità stette nel_Purgatorio cinquecent' anni e più: perchè, siccome nell' Inferno, anco qui i due vizi contrarii stanno quasi alle prese; idea sapiente. Stazio poi narra come le parole della quarta eg loga di Virgilio gli dessero il concetto di secolo migliore, e quella profezia vedess' egli avverata ne' cristiani. Ma perchè non professò il cristianesimo pubblicamente, la sua paurosa tepidezza fu punita quattrocent' anni e più nel cerchio degli accidiosi.

Nota le terzine 3 alla 9; 15, 17, 23, 24, 28, 31, 33; 36 alla 39; 42 sino all'ultima.

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1. Giù era l'Angel dietro a noi rimaso,

L'Angel che n' avea vôlti al sesto giro,
Avendomi dal viso un colpo raso.

2. E « quei ch' hanno a giustizia lor disiro »,
Detto n' avea, Beati; e le sue voci,
Con sitiunt, senz'altro, ciò forniro.

4. (L) Colpo della spada dell'Angelo. Raso: levato un P.

(SL) Già. Trapasso maestro. Per non ripetere la medesima descrizione, valica il passo dell' Angelo con questo già.

2. (L) E: e ci aveva detto: Beati quei che della giustizia hanno sete. Sen' non disse esuriunt.

(SL) Voci. D'un solo. En., 1: Juno... his vocibus usa est.

(F) Beati. Matth., V, 6: Beati qui

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esuriunt et sitiunt justitiam. Luc. VI, 21: Beati qui nunc esuritis. Ott.: Questa beatitudine... corrisponde in contrario all' avarizia; perocchè l'avaro desidera a sè ciò ch'è d'altrui; ed il giusto vuole che a ciascuno sia attribuito quello che gli si deve. Inf.. XIX, t. 35: La vosira avarizia il mondo attrista Calcando i buoni e sollevando i pravi. E contraria alla sete (Purg., XX, t. 39) e alla faine (Inf., I, t. 33) dell'oro, è la sete e la

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