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50. Quanto parémi allor, pensando, avere:
Nè, per la fretta, dimandare er' oso,
Nè per me li potea cosa vedere.
Così, m'andava timido e pensoso.

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Con la povertà di Maria e con la povertà di Fabrizio (uno de' più puri esempi della virtù romana e della pagana), è cantata la magnificenza religiosa e civile, la modesta pietà del vescovo greco, il cui nome appartiene alla Chiesa universale e all'umanità; il quale, per salvare il pu dore di tre giovanette, pudicamente nasconde agli occhi del mondo e ai loro stessi la mano soccorritrice. E chi sa che ispirazione del vescovo greco non fosse a Dante quel rammentare con tanto rispettosa pietà in questo Canto gli strazii del pontefice romano i cui politici accorgimenti all'esule costarono cari? Nel papa malmenato da que' potenti a cui troppo egli in sua vita si mescolò, Dante non vede che Cristo: e sempre nel prete privato della mondana misera potestà, che a lui e alle altre anime è laccio, gli uomini non abbietti onoreranno l'imagine di Dio sulla terra.

Il re di Francia a Dante è nuovo Pilato e qui contro Francia acerbi rimproveri; ma più potente di tutti il verso: Vender sua figlia, e patteg giarne Come fanno i Corsar' dell' alire schiave. L'esclamazione: quando verrà l'uomo che mette in fuga la lupa maladetta?, dice che a quel tempo il Poeta non aveva speranza determinata in principe alcuno; e

che, quanto alle persone, il suo concetto nel corso degli anni andò variando. Più bello che l'esclamazione troppo ridetta senza intenderla, della vendella che fa dolce l'ira di Dio, è a me l'ultimo verso del Canto: Cosi in' andava timido e pensoso; ripetendosi il timido voler che non s'apriva, per la riverenza che lo rattiene dall'esporre i suoi dubbi al dolce suo duce e padre.

La famigliare imagine della spugna sul principio, corrisponde a quella dell'acqua nel Canto seguente, e alla similitudine della sele poi. La similitudine del tremare di Delo, dell'isola dove nacquero Apollo e Diana, potrebbesi scusare dello scandaloso accenno agli amori di Giove, con questo pensiero che a tutte le gene razione rigenerazioni splendide precedono scosse e sconvolgimenti. Lo stile di tutto il Canto è di rara fermezza e lirico è il variare de' modi: Noi ripetiam Pigmalione... E la miseria dell'avaro Mida... Del folle Acám ciascun poi si ricorda... L'ira di Giosuè qui par che ancor lo morda... Indi accusiam.. Lodiamo i calci... Ed in infamia tutto il monte gira Polinestor... Crasso, Dicci, che 'l sai, di che sapore è l'oro. Varietà che viene dalla ricchezza e del pensiero e dell'affetto; e, se fosse cercata, non sarebbe altrettanto efficace.

PENA E VENDETTA.

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La pena de' dannati è, al dire di Girolamo, aggravata dal male che vengono mano mano facendo gli uomini traviati dagli esempi o dalle parole di quelli (4). Non è per verità necessario che il rigore della pena si venga accrescendo nel tempo col crescere di que' mali, dacchè la prescienza divina aveva già fin dal primo assegnata a quella colpa madre la sua gravità, computandone tutti gli effetti, e alla volontà del primo colpevole imputandone quel tanto che poteva essere nell'intenzione di lui; ma può dirsi che la notizia giunta o a' dannali o a' purganti del male da colpa loro cagionato nel mondo, anche dopo la morte, aggravi ad essi la pena. Ugo Capeto ha tormento dal pensare ch'egli è radice della nuova dinastia di Francia, la mala pianta Che la terra cristiana tulla aduggia (2): tanto fin dai tempi antichi, e in male e in bene, attribuivasi di potere alla Francia, e così, a quella influenza credendo, la si creava.

L'esclamazione, più mosaica che evangelica, messa in bocca a Ugo Capeto, esclamazione che gli uomini del novantatrè recarono in atto in modo non sognalo da Dante, giova che sia spiegata e scusata, e con le parole della Scrittura, e con le dottrine de' Padri. O Signor mio, quando sarò io lieto A veder la vendetta che, nascosa, Fa-dolce l'ira tua nel tuo segreto ? (3) Qui abbiamo la letizia della vendetta, la dolcezza dell' ira, l'aspirazione lontana al lontano male altrui, il segreto della speranza iraconda gelosamente nascosto come tesoro. Rammentiamo primieramente che tra vindicare e ulcisci ponevano differenza i Latini; che il primo era sovente riavere o adoperarsi a riavere per legge o per forza legittima, che poteva essere anco di mere parole, il diritto proprio violato. Ulcisci è più grave, ma anch'esso ha sovente buon senso di pena giusta diretta a reprimere il male o a farlo espiare. Nell'Apostolo (4): Mihi vindicta, ego retribuam ; e Cicerone (5) citato nella Somma (6), la quale alla proprietà delle parole pon mente, e in questa, com' anco nel senso loro morale, accetta ed invoca eziandio l'autorità dei profani: Vindicatio est, per quam vis, aut injuria, et omnino quidquid obscurum est, id est ignominiosum defendendo aut ulciscendo propulsatur. Onde apparisce che il vindicare comprendeva l'ulcisci; e doveva anco per

(1) Hieron., de Virg.: Poena Arü non est determinata; quia adhuc est possibile aliquos per cjus haeresim corruere, quibus corruentibus, ejus poena. augetur.

(2) Terz. 15.
(3) Terz. 32.

(4) Ad Rom., XII, 19.
(5) De Iuv. rhet., II.
(6) 2, 2, 108.

causa della radice comprenderlo, essendo composto di vim e di dico, la forza cioè e la parola. Onde vindicta significava specialmente l'emancipazione de' servi, perchè effetto della parola e della forza giusta adoprate a reprimere e ammendare la forza e la parola ingiusta, dovrebb' essere l'cmancipazione degli spiriti in prima, e quindi de' corpi strumento agli spiriti.

Con la filologia si concorda al solito la filosofia: Se l'intenzione del vendicante si porta principalmente ad un qualche bene, al quale si perviene per la pena di chi mal fece (come all'emendazione di lui, o a suo freno, o a quello degli altri, e alla conservazione della giustizia e all'onore di Dio), può essere lecito il vendicare, serbati gli altri debiti riguardi (1). — Vendetta parte di giustizia (2). Vendicare il male è virtù, e procede da radice di carità (3). - La virtù del vendicare il male ha due vizii opposti; l'eccesso, cioè la crudeltà del punire; e il difetto, cioè la troppa remissione (4).

E con la filosofia si concorda la teologia: Dio non si compiace nelle pene in quanto sono di dolore alle sue creature, ma in quanto sono dalla sua giustizia ordinate (5). I santi godranno delle pene degli empi, non per compiacersi nell'altrui dolore, ma considerando l'ordine della giustizia divina, e godendo dell'essere liberati da quelle (6). Cosi può taluno rallegrarsi anco de' mali proprii, sebbene l'uomo non possa, nè anche volendo, odiare sè stesso; rallegrarsene, dico, in quanto gli giovano a merito della vita (7).

Ira in Dante ha qui, o giova credere che abbia, il senso datole dalla Somma: Anco all'intelletto s'attribuisce talvolta l'ira, e in questo senso anco a Dio e agli angeli, non per passione ma per giudizio della giustizia giudicante (8). La punizione è significata col nome d'ira quando attribuiscesi a Dio... La pena non è segno che in Dio sia ira; ma la pena, perchè in noi può essere segno d'ira, in Dio dicesi ira (9).

lo non dirò che tutte queste parole così squisitamente scelte, e così fortemente commesse significassero nell' intenzione di Dante uno sdegno tutto. puro e somigliante alla giustizia divina; ma egli è giusto avvertire che colpevoli di per sè le non sono, e che quella stessa dolcezza dell'ira può essere fino a un certo segno interpretata benignamente. Vero è che chi fa cosa per ira la fa con tristezza (10); e che, se spiegazione è non sarebbe scusa quell'altra sentenza del Filosofo (44): L' ira ussai più dolce di miele che stilla abbonda nei petti degli uomini. Ma la pena attula l'impeto dell'ira mellendo soddisfazione in luogo di tristezza (12). · - Punizione esclude ira (43), ben nota la Somma; cioè, che punizione giusta esclude l'ira maligna; ma il concetto della punizione certa alla quale è destinato il colpevole, questo concetto soddisfacendo alla ragione con l'idea dell' ordine, acqueta le

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recati sotto il comento di questa ter-
zina altre imagini più degne del vero.
(7) Som. Sup., 94 e 99.
Som., 2, 2, 162.

Som., 1, 1, 19, e 1, 1, 3. - Figli dell'ira nell'Apostolo, spiegasi della pena.

(10) Arist. Eth., VII.

(11) Arist. Rhet., II.

(12) Arist. Eth., IV. Som., 2, 1, 98. (13) Scm., I. c.

tempeste dell' ira. E in questo senso è detto da Dante con forma più cruda del suo pensiero che la vendella nascosa fa dolce l'ira; cioè, che la pena preordinata fa ragionevole, e però non iniquo, lo sdegno. Delle umane passioni parlando: L'ira chiusa in silenzio dentro alla mente arde più vec• mente (4). Ma l'ira ragionevole può essere rattenuta in sè allorchè il giudizio della ragione è così forte che, sebbene non spenga il desiderio di punire, raffrena però la lingua dal dire inordinaro. Se la pena è presente, il soddisfacimento dello sdegno per essa è pieno ; ma può la pena presentarsi all'animo in isperanza, perchè lo sdegno stesso non avrebbe luogo se non l'accompagnasse speranza di punire chi l'ha provocato, e può presentarsi nel continuo pensiero, dacchè a chiunque desidera è dolce dimorare nel pensiero del suo desiderio (2).

A tutte queste giova però, ed è dovere, soggiungere sentenze più sicure e più miti, massimamente dove si parli non dell'ordine esterno della giustizia o di que' pochi che sono chiamati con la parola o con l'opera a compierlo sulla terra, ma delle misere stizze umane che sovente si velano con nomi grandi e si divinizzano volentieri (3). All'uomo è colpa godere delle altrui pene, e lode il sentirne dolore (4). — Nell' uomo viatore è pericoloso godere dell' altrui pena, anco giusta, sebbene anch'egli possa riguardare nella pena il bene che ne consegue all'ordine umano e divino; ma pericoloso è fermarsi a tale godimento in quanto in lui per la debolezza di sua natura possono insorgere passioni che lo rendano colpevole, il che non può essere ně in Dio nè nelle anime che hanno compiuta la prova (5).

Quando il Foscolo dunque dice del carme che allegrò l'ira al Ghibellin fuggiasco, mettendo insieme la dolce ira d' Ugo Capeto, e la vendetta allegra di Capanco (6), oltre al dire cosa che non è vera, dacchè i fatti dimostrano che l'ira dal suo carme a Dante non fu punto fatta allegra, egli accozza, come gl' imitatori fanno, idce disparate, e abbassa l'intendimento del Poeta, come sogliono gli animi e gl'ingegni men alti.

(1) Greg. Mor., V.

(2) Som., 2, 1, 98.

(3) V. le Considerazioni all' VIII dell'Inferno,

(4) Som. Sup., 94.

(5) Som. Sup., l. c.
(6) Inf., XIV; Purg., XX.

CANTO XXI.

ARGOMENTO.

Trovano Stazio poeta, che, compita l'espiazione, è per ascendere a' Santi. Questi dichiara come il tremar del monte non abbia le solite cause terrestri, ma sia soprannaturale indizio d'un'anima liberata. Stazio conosce Virgilio: affettuosa accoglienza, dimostrante e l'amore che aveva Dante a Virgilio e la riverenza ch'e' teneva debita agli ingegni grandi.

Canto men pieno che gli altri. Ma l'apparizione di Stazio è poetica. Le allusioni mitologiche abbondano, perche questo è colloquio di Pagani. La fine del Canto rammenta il decimonono.

Nota le terzine 1 alla 5; 8, 13, 14; 20 alla 23; 32, 35, 36, 37, 45

1. La sete natural, che mai non sazia

Se non con l'acqua onde la femminetta
Samaritana dimandò la grazia,

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4. (L) Sete di sapere. Suzia: si sazia. Acqua: fonte del Sommo Vero.

(F) Natural: del sapere. Arist. Metaph. Tutti gli uomini naturalmente desiderano sapere. Questo passo è il cominciamento di più d'un trattato del secolo XIV. Ma la scienza umana non sazia, dice il Poeta, se la Grazia divina non vi si aggiunga. Sazia. Conv., IV, 13: Nell' acquisto (della scienza) cresce sempre lo desiderio di quella. Joan., IV. 13: Chi bee di quest' acqua avrà se le ancora... (delle fonti terrestri). Per essa significansi i beni temporali; che, avuti, si sprezzano, e bramansene altri.

Se. Som.: Se si vedesse Dio, che è principio e fonte di tulla verità, riempirebbe così il natural desiderio di sapere, che altro non si cercherebbe. Samaritana. L'Ottimo tra

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Gesù

duce il passo di Giovanni: Una fem
mina venne di Samaria per prendere
acqua alla fontana, e Gesù le disse:
Donna, dammi bere... La femmina
disse: Come mi chiedi tu bere, che
se' Giudeo, e io Samaritana ?
le rispose, e disse: Se tu conoscessi
il dono di Dio, e chi è colui che i
chiede bere, tu gli domandĕresti
ch' elli ti desse acqua di vita..
La femmina disse: Signore, dammi
quest'acqua, ch'io non abbia sele;
e che non mi sia mestiere venir più
qua a cavare acqua (Joan, IV, 7-45).
Aug.: Chi berà del fiume di Paradiso,
resta che in lui la sete di questo
mondo sia spenta. Conv, 1, 4: Sicco-
me dice il filosofo nel principio della
prima filosofia, tutti gli uomini na-
turalmente lisiderano di sapere. La
ragione di che puole essere, che cia-
scuna cosa, da provvidenzia di pro-

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