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Verissimo: perchè Arno non ne ha meno di centoventi dalla sorgente alla foce.

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Molte cose, al suo solito, dice in poche parole. Il monte alpestro, cioè derivante dalle Alpi o di esse partecipante, è l'Appennino; dal quale è troncato, staccato Peloro, promontorio di Sicilia, presso a Messina, in faccia alla Calabria inferiore, e da cui ha principio nella detta isola quella catena di monti, che apparisce una continuazione dell'Appennino medesimo. Dimostra il Poeta di ritenere l'opinione comune anche al suo maestro Virgilio, essere un tempo la Sicilia stata congiunta all'Italia senza interruzione di mare; il che non manca di probabilità. In quanto poi dice, che la valle dell'Arno ha principio ove esso Appennino è sì pregno, che in pochi luoghi è alto di più; intendasi pregno per grosso, panciuto quasi partoriente; perciocchè ivi realmente avviene una dilatazione notabilissima se non singolare. Alla regione della sorgente dell'Arno l'Appennino rigonfia a ponente con la vasta montagna della Falterona, quasi parto di lui; la quale genera alla sua volta la bella catena montuosa, circuita,dal nostro fiume, e che si chiama l'Alpe di Pratomagno; e si distende a levante con tre propagini, tutte procedenti dal punto stesso, da cui si stacca la Falterona dalla parte opposta; e quella di mezzo è molto ragguardevole, distendendosi fino alla pianura di Romagna tra Forli e Bertinoro, e tra le acque del Bidente e del Rabbi. Sicchè tra gli estremi di Pratomagno, sulla destra dell'Arno di contro ad Arezzo, sino al piano di Forli, esiste una criniera continua di alti e vasti monti, che tagliano in mezzo l'Appennino, e lo fanno rigonfiare nullameno che per una cinquantina di miglia. Del resto, non si può intendere, come alcuni hanno inleso, che la parola pregno stia per elevato o per pieno d'acqua; perchè quanto all'altezza, in quel punto l'Appennino è piuttosto mediocre, nè pochi sono i suoi culmini, dai quali è sopravanzato quello; e quanto a fecondità di acqua, non ha niente di speciale: tanto più che le sorgenti del Tevere sono in tutl'altro sito, e non li presso, come ha creduto chi tiene questa interpretazione, distando i pripcipii dell'Arno e del Tevere non meno di diciotto miglia, contate sul crinale dell'Appennino, come se fosse tutto allo stesso livello.

"In fin là've si rende per ristoro. »

Per dire semplicemente infino al mare, il Poeta espone in questa terzina la magnifica teoria, o meglio lo stupendo fatto, che il cielo, mediante il calore che ci comparte specialmente col sole, fa evaporare le acque dei mari; i vapori acquei ricadono in pioggia; le pioggie alimentano i fiumi, o porgono loro l'acqua, la quale è ciò che va con essi; e questi infine la rendono al mare per ristoro delle perdite fatte da lui con la evaporazione, Tutte queste nozioni potevano elleno dirsi meglio e più brevemente?

- Dirizza prima il suo povero calle. "

A

Detto in modo mirabile delle sorgenti e della foce del nostro fiume, e della estensione del suo corso, passa il Poeta a descriverlo nelle sue varie se. zioni. E prima il Casentino, qualificato in vero per guisa da far poco licti quegli abitanti. Lo dice poverò, perchè non ancora ha riscosso l'Arno il tributo di altri ragguardevoli bacini. Dopo un corso di circa ventitre miglia nella direzione generale di mezzodì verso Arezzo, quando appunto il flume è giunto al piano che si apre a settentrione di quella città, fa una ripiegata di quasi novanta gradi per dirigersi a ponente; e nel secondare le estreme pendici del Pratomagno, pare che sdegnoso torca il muso ad Arezzo per non volerne sapere; e ripiegandosi ancora nell'abbassarsi, assume in questa seconda sezione un andamento quasi parallelo a quello che aveva nella prima; e nel radere l'orlo occidentale del detto monte, sembra che agli Aretini volga anco le spalle. Percorse così altre quindici miglia, incomincia la terza sezione, che è dalla foce d'Ambra nel Valdarno superiore sino a Firenze per miglia ventiselte, nella quale trovansi dall'Arno abitanti anche peggiori, secondo Guido del Duca. E finalmente la quarta da Firenze al mare, per oltre cinquanta miglia, incontra più pelaghi cupi e anímali più cattivi. Per pelaght cupi sembra che debbano intendersi varii impaludamenti, o traboccamenti, o ramificazioni dell'Arno, specialmente in quest'ultima sezione, ove crano anche nel tempo del nostro Poeta: e ci rimangono anc'oggi i nomi di quattro di quel pelaghl, cupi forse perchè limacciosi e torbi, che sono Arnaccio, Arnobianco, Arnomorto e Arnovecchio. (Vedasi Arno nel Dizionario del Repetti.)

"Tra'l Po e 'l monte e la marina e 'l Reno. »

In questo verso il Poeta ha segnato, alla sua grandiosa maniera, il quadrilatero, che racchiude la provincia di Romagna. Tra il Po e il monte; cioè tra l'ultimo tronco del Po e gli ultimi sproni dell'Appennino: tra la marina e il Reno; ecco le altre due linee determinanti le prime, cioè la riva del mare dalla foce del Po a Rimini, ove i monti scendono sulla marina, e la direzione del fiume Reno, che passa a poca distanza di Bologna a ponente.

IL CONSORZIO DEL BENE.

Sovente il Poeta in un de' suoi Canti getta il germe di cosa che intende poi svolgere ; e nel seguente, o in altro poi, ci ritorna; così come fa la natura nelle sue operazioni, e Dio nella storia. In questo e' fa dire a un invidioso: Oh gente umana, perchè poni 'l corẻ Là 'v'è mestier di consorto divieto ? (1): parole che a quell'età dovevano suonare più chiare; chè consor to era voce comune ne' suoi, anche troppo storici, significati: ma, confessiamolo, le non sono, nè per la giacitura nè per la scelta, abbastanza evidenti. Le illustrano però queste della Somma: Per difetto di bontà, accade che certi beni minori non possono in intero essere insieme posseduti da molti ; e dalla brama di tali beni è causata la gelosia dell'invidia (2). Rischiarano Dante, e sono da lui rischiarate, anco le parole di Lucano: Nulla fides regni sociis, omnisque potestas Impatiens consortis erit (3). Convivio: La paritade ne❜viziosi è cagione d'invidia, e invidia è cagione di mal giudizio. Ed ecco perchè quanto il bene è più vero, tant'è più comunicabile; quanto più imperfetto o malamente usalo, tanto più richiede o pretende, per essere goduto dagli uomini corti o cattivi, privilegi, esenzioni, eccezioni, che sono la morte della giustizia, e dissolvono il consorzio sociale, già non più meritevole di questo nome santo. Di nessun bene, dice Seneca, è giocondo il possesso senza consorzio; intendendo del bene vero. E Boezio: Omne bonum in commune dedere, uti pulcrius elucescat. Ma per l'appunto i materiali beni della ricchezza sono quelli che più s'armano della necessità del divieto, e si fanno mantice al gelido soffio dell'invidia. L'idea dell'avarizia ritorna sotto molte forme a presentarcisi nel poema. I beni dell'ingegno e dell'animo, sebbene umanamente adoprati, pur soffrono compagnia. Boezio: Vestrae... divitiae, nisi comminulae, in plures transire non possunt. Quod quum factum est, pauperes necesse est faciant quos relinquunt,

Però Dio infinito ed ineffabil bene (4), è altresi quello che più si comunica a tutti, è di cui tutti possono senza invidia godere secondo proporzionata equità. Questo bene corre ad amore come raggio a corpo lucido, e tanto si comunica quanto trova d'amore: Come lo splendore al sole, così la Grazia

(1) Simile forma d'esclamazione nel Canto XII: 0 gente umana, per volar su nata, Perchè a poco vento cosi cadi? Non teme con tali ripetizioni parere povero di modi; e certa varietà accattata è confessione vera di povertà c di miseria.

(2) Som., 2, 1, 28.

(3) Lucan. Phars., I.

(4) Som., 2, 2, 7: Dio immenso c altissimo bene. Arist. Fis., III: Tutti i filosofi attribuiscono l'infinità al primo Principio. Sɔm., 1, 2, 2: Dio infinito c perfetto bene. Ivi, 2, 2, 162: Bonum incommutabile.

consegue all'unione del figlio di Dio con l'umana natura (1). L'uomo ha una società spirituale con Dio (2). Tutti i fedeli per la carità uniti, sono membri del corpo uno della Chiesa (3). Po sono partecipe di tutti coloro che temono te (4).

Della carità che sarà perfettissima tra' Beati, come dice la Somma, è toccato anco nel Paradiso (5), e della beatitudine che quindi cresce: onde quel della Città di Dio è chiamato consorzio (6); e nell'amore essa cittadinanza consiste propriamente (7). Il gaudio, quando a più molli è comune, si fa maggiore (8) - Nella patria ciascuno godrà de' beni degli altri: e quindi è che ponesi per articolo di fede la comunione de' Santi (9). La possessione della bontà non si fa punto minore perch'altri s'aggiunga e rimanga a parteciparne: anzi tanto più ampiamente quanto più concordemente possiede la carità de' socii indivisa. Non avrà questa possessione chi non vorrà averla comune e tanto la troverà più ampia, quanto più il consorzio d'altri in essa più ampio amerà (10). Chi desidera non sentire le fiamme dell'invidia, desideri quella eredità che sia dal numero de' possedenti accresciuta (14). Chi ama solo quel bene che all'amante non può esser rapito, egli senza fallo è invitto nè da veruna invidia cruciato; perch' egli ama cosa, alla quale quanti più giungono, tanto più esuberantemente egli ne congioisce (12).

La quale dottrina dell'essere più posseditori, e tutti più ricchi, e del ricevere dal consorzio incremento alla beatitudine che viene dalla visione divina, la quale sola essenzialmente basta di per sè a beatitudine, così si dichiara: La creatura spirituale ha giunta estrinseca di beatitudine da questo, che l'un l'altro si vedono, e godono della mutua compagnia (13). - I Santi godono de' nostri beni tutti, non però che, moltiplicate le nostre gioie, il gaudio loro aumenti formalmente, ma materialmente soltanto. Non godono più in tensam nie Dio, ma godono più cose in esso (44)

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In questo Canto, ove trattasi dell'uguale godimento de' beni, e nel diciottesimo dove della libertà dell'umano volere, Virgilio, dichiarata filosoficamente la cosa, promette a Dante da Beatrice spiegazioni maggiori; perchè veramente queste due grandi questioni, da cui pende la moralità tutta e la storia, non può la scienza e virtù umana sciorte nè in dottrina nè in fatto; ma vuosi un'algebra divina che concilii le contradizioni apparenti dell'idea, e quelle più gravi che dalle passioni frappongonsi nella vila.

(1) Som., 3, 7.
(2) Som., 2, 1, 109.
(3) Som. Sup.. 71.
(4) Psal XXVIII, 63.
(5) Par., III.

(6) Som. Sup, 99.
(7) Aug., de Civ. Dei, IV.
(8) Aug., Conf., VIII.
(9) Som. Sap., 71.
(10) Aug., de Civ. Dei, XV.
(11) Greg.

(12) Aug., Ver. rel., e Med. Alb. Cr. Il regno celeste è si grande e spazioso, che per moltitudine di Beati non si dividerà. Conv.: Li Santi non hanno tra loro invidia; perocchè ciascuno

aggiunge il fine del suo desiderio; il quale desiderio è colla natura della

bontà misurato.

(13) Aug.. Gen., VIII.

(14) Sum. Sup., 71. E altrove (2, 1, 4): Non è richiesta di necessito la società d'amici a beatitudine, perchè l'uomo ha tutta la pienezza della sua perfezione in Dio: ma siffatta società aggiunge al ben essere della bea'itudine: onde Agostino dice che la felicità intrinseca viene all'anima dall'eternità, da la verità, dall'amore del Creatore; ma all'estrinseca giova che l'una l'altra anima veda, e godano della mutua società.

CANTO XV.

ARGOMENTO.

Il sole piega all'occaso: trovano l'Angelo, salgono salita men ardua. Sono nel girone dell'ira. Andando, Virgilio spiega come il bene vero, cioè lo spirituale, da più goduto, più contenta ciascuno. Il Poeta in visione contempla esempi di mansuetudine e misericordia: le dolci parole da Maria dette al figlio smarrito nel tempio; la risposta di Pisistrato incitato a punire chi aveva baciata la sua figliuola; la preghiera di Stefano per i suoi uccisori: un esempio profano in mezzo a due sacri. Entrano nel fumo ch'è pena agli ardori dell'ira.

Nota le terzine 1, 3, 5, 6; 10 alla 13; 17, 19, 23, 24, 25; 28 alla 31; 36, 37, 39, 40, 41, 43, 44 con l' ultime tre.

1. Quanto, tra l'ultimar dell'ora terza

E il principio del dì, par della spera
Che sempre, a guisa di fanciullo, scherza;

2. Tanto pareva già invêr la sera

Essere, al Sol, del suo corso, rimaso:
Vespero là, e qui mezzanotte, era.

3. E i raggi ne ferían per mezzo 'l naso,
Perchè per noi girato era sì 'l monte,
Che già dritti andavamo invêr l'occaso.

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