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INVIDIA.

primo, se il monte si larghi che gli ultimi:

Il secondo ripiano circolare dev'essere minore del restringe salendo. Nell'inferno i cerchi primi sono più e il simile nel Purgatorio, perchè i peccati più gravi sono più rari, e più rari gli uomini puri di vizio. Dopo la superbia viene l'invidia, perchè superbia partorisce invidia, nè è mai senza tale compagna (1). - I vizii capitali sono talmente congiunti tra sè che un dall'altro procede. Chè la prima prole della superbia è la gloria vana, la quale genera tosto l'invidia; perchè, desiderando polenza di un nome vano, si rammarica che altri lo giunga a acquistare (2). In due modi può l'uomo attristarsi de' beni altrui; prima, in quanto di là gli sovrasta pericolo di nocumento, e tale tristezza non è invidia, ma timore (3); poi, l'uomo̟ reputa a proprio male il bene altrui, in quanto questo a lui scema lode o maggioranza (4), e cotesta è invidia; e però di que' beni specialmente kanno gli uomini invidia, ne' quali è onoranza é buona opinione (5).

D'invidia nasce odio, mormorazione, detrazione, esultazione nelle avversità del prossimo (6), e afflizione nelle prosperità di quello (7). Queste parole cosi dichiara ed innalza a filosofico valore la Somma: Nello sforzo dell'invidia alcuni moti riguardano il principio, altri il mezzo, altri il termine. Il principio è sminuire l'altrui lode o in occulto, e questa è mormorazione; o in aperto, e è detrazione. Il mezzo è, che chi intende sminuire l'altrui lode, o può farlo, e gioisce dell'altrui male; o non può, e s'attrista del bene altrui. Il termine è l'odio; perchè siccome dal bene che diletta, nasce amore, così dal contrario nasce odio (8). — Quantunque da ogni vizio il veleno dell'antico nemico nel cuore dell'uomo s'infonda; nella nequizia dell'invidia il serpente scuole, e versa tutte le viscere sue, e nel morso vomita la sua lue (9).

Ma con la temperanza divina insegnata dal Cristianesimo, la Somma sogglunge: Nell'invidia, come negli altri mali dell'anima, possonsi trovare dei

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moli primi primi, anco negli uomini perfetti, i quali moti son colpe non gravi (1). E però Dante confessa sè con sincerità d'uomo buono e grande, tinto, ma poco, d'invidia (2), E invero s'egli si confessa superbo, e, come il Villani lo dice, presuntuoso e schifo, in qualche moto d'orgoglio o di dolore o d'ira orgogliosa non poteva non s'insinuare inconsaputa tristezza di qualche altrui bene, o fosse o paresse a lui immeritato.

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Questo abisso del cuore è profondamente scrutato nelle parole seguenti: In quattro modi possono i beni altrui attrislare. Il primo, quand’uomo si duole de' beni altrui da cui tema nocumento a sẻ o ad altri buoni, onde Gregorio (3): « Suole avvenire che senza perdita della carità, noi ci alle» griamò della caduta del nemico, e dell'innalzamento di lui senza invidia · ci altristiamo; allorchè al cadere di lui crediamo ch’altri abbiano a sorgere » a bene, e per l'innalzamento di lui temiamo che altri siano ingiustamente · oppressi. » In secondo modo, può il bene altrui attristarti, non perch'altri se l'abbia, ma perch' a te quel bene manchi, e colesto è propriamente ora emulazione, or gelosia (4). L'emulazione, se di cose oneste, è lodevole se condo quel dell'Apostolo (5): Emulate i beni spirituali. Ma se di beni temporali, può essere con colpa e senza. In terzo modo, possiamo attristarci del bene altrui in quanto che, a chi tocca, ne è indegno; la quale tristezza non può nascere da beni onesti che rendono altrui migliore; ma è di ricchezza o di cose tali, che possono toccare e a degni e a indegni (6), e questa da Aristotele è detta Nemesi o indegnazione. Se non ch'egli riguardava i beni temporali di per sè in quanto possono parere grandi a chi non considera i sempiterni: ma secondo la dottrina della fede i beni temporali che toccano agl'indegni sono per giusta ordinazione disposti o a correzione o a condanna (7) loro. I quali beni essendo quasi un nulla ai beni avvenire ser. bati a' buoni, il prenderne tristezza è vietato. In quarto modo, l'uomo s'altrista degli altrui beni, in quant'esso n'è in ciò superato; e colesto è propriamente invidła, prava sempre (8), perchè si duole di cosa ond'è debito anzi gioire (9).

Accidia è tristezza del bene spirituale rispetto a Dio; invidia è tristezza del bene de' prossimi. Questo sapiente raffronto dimostra il perchè l'invidia sia inerte e gemella all'accidia, e il perchè e questa e quella non si muo vano se non per tormentare altri e sè (40); e dichiara ancora meglio perchè Dante ponga invidiosi e accidiosi e iracondi e superbi entro al medesimo fango (11).

L'invidia è riguardata da Dante al solito come male insieme religioso c morale e civile, perchè Invidia essendo madre dell'odio (12) contro del prossimo, si fa per conseguente cagione del disamare Dio (43). E però le voci che

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suonano in questo cerchio del monte rammentano la carità di Maria verso i convitati mancanti della letizia del vino, e l'amicizia d'Oreste, e il generoso precetto, tutto cristiano, dell'amare chi ci fece male: e per contrario gli esempi d' Caino che invidiò l'innocente e l'uccise, e d'Aglauro che invidio le nozze celesti della sorella, e il tormento dell'invidia le fu dato in pena dell'avarizia, per avere chiesto oro in mercede del suo silenzio. Cosi l'avarizia entra sempre nel concetto del Poeta a originare gli altri mali o a gravarli, e la liberalità a farsi abbellimento o indizio delle altre virtù; e siccome a Caino Oreste, opponesi ad Aglauro Maria.

La misericordia s'attrista del male altrui ed è effetto di carità, però con. traria all' invidia (1). Invidia è più diretta cagione dell'odio che l'ira: questa dispone all'odio, quella ne è quasi la forma (3). - Orazio fa, per tutta lode, il poeta vero Asperitatis et invidiae corrector et irae (3): é Dante in questi due Canti e in tutto il poema corregge gli animi invidiosi e furibondi, e raccomanda la civile generosità anco in quelle estrinseche magnificenze che sono troppo sovente o cagione o segno di corruzione, e che dalla gentilezza affettata e falsa traggono gli uomini a dissolutrice selvatichezza.

Ovidio dipinge l'invidia che Afflatuque suo populos, urbesque, domosque Polluit (4). Ma perchè l'uomo invidia chi ha cose che a lui si convenivano o ch'egli già possedera (5); però nella società dove o il sentimento del proprio merito è più risvegliato e più irritato, o dove mutamenti seguono tanto subiti e gravi, che l'uomo, meritamente o no, perda gran parte de' beni o premii che aveva; ivi l'invidia suol essere con più veleno. Invidieranno, dice Aristotele (6), tali a cui sono in alcuna parte somiglianti o nella schiatta o nelle apparenze esterne o nell'opinione. Però laddove le condizioni sono men disuguali, o l'opinione le agguaglia o tende a agguagliarle, ivi l'invidia, dalle altre passioni e vizii fomentata, è più violenta. fe, diceva Tommaso, non invidia a plebeo, nè plebeo a re (7); intende che la grande e riconosciuta distanza delle condizioni, toglie materia all' invidia, togliendo termini al paragone; ma a' nostri giorni per gli agguagliamenti subiti che i casi hanno indolli de' grandi co' piccoli e de' piccoli co' grandi, e per il soverchiare delle idee sopra i fatti, essendosi le proporzioni de' paragoni civili e morali mulate, l'invidia sale e scende laddove prima non pareva potere. Nessuno si sforza a cosa a che si sente in tutto venir meno; e però non invidia quelle in altrui, ma se non molto gli manchi a raggiungerle, ci si prova, e se non gli vien fatto di pareggiare la lode altrui, se ne attrista. Quindi è che coloro che amano l'esterno onore sono più invidiosi; e così anche gli uomini di animo piccolo sono invidiosi, perchè ogni cosa stimano grande, e ogni bene che ad altri tocchi, recano a propria sconfitta grave. Onde in Giobbe: Al piccolo » l'invidia fu morte (8). "

Nella Canzone attribuita a Dante dicesi di Firenze che tra gli altri mali Aglauro la divora, e dell' invidia de' suoi cittadini è toccato due volte (9); e Cacciaguida a lui dice: Non voglio che invidii ad essi, perchè la vita del

(1) Arist. Eth., II. Dante nondimeno sente della pena dell'invidia tal com passione, che crede non potrebbe non Ja sentire il più duro uomo del mondo. (2) Som., 2, 2.

(3) Hor. Epist., II, 1.

(4) Ovid. Met., II.
(5) Arist., R-th., II.
(6) Reth., II.

(7) Sum, 2, 2, 36.
(8) Job, V, 2.
(9) Iuf., VI, XV.

tuo nome si slenderà più lontano non solamente delle loro perfidie, ma della pena a quelle perfidie statuita (4). La donna invidiosa che egli qui rincontra è di Siena: e a Siena accennasi e nel ventinovesimo dell' Inferno, e nel quinto e nel sesto e nell'undecimo del Purgatorio: dal che confermasi quello che primo il Troya acutamente notò, che il poema si veniva lingendo da' luoghi ove l'esule passava e si riposava; sebbene non sia, dietro a tali orme, da segnare appunto i viaggi di lui; chè la mente d'uomo si pensoso e si memore non era già docile alle prime e subite impressioni di fuori come una lamina del Daguerre Ma per la ragione accennata, ne' piccoli Stati italiani d'allora, si variabili nelle condizioni, sì potenti di quella forza e mentale e morale che spiana a un tratto le materiali disuguaglianze, e altre nuove ne,fa, il vizio dell' invidia doveva pur troppo allignare. E anche a proposito dell'invidia Dante ricorre col desiderio alle generazioni precedenti la sua, segnatamente parlando della Romagna (2), e le rappresenta come un secolo d'oro; non però si che le lodi sue stesse non diventino, a chi ben guardi, testimonio di poca insieme e di troppa civiltà, di selvatichezza rimanente e di corruzione oramai penetrata.

Gl'invidiosi qui sono puniti con un filo di ferro che gli fora il ciglio e lo cuce come a sparviere selvaggio, imagine appropriata all'incivile selvalichezza di cotesto peccato. E riò significa non solamente, che chi vuol purgarsi dall'invidia, tenga chiusi gli occhi ai beni falsi; a che l'invidia, siccome il vocabolo suona, non vede, o mal vede, o non vuol vedere (3): onde Giobbe, degl'invidi: Per diem incurrent tenebras (4). Le voci che suonano di spiriti invisibili rammentano il virgiliano: Idaeiqui chori: tum vox hor→ renda per auras (5); e l'imagine che pare strana: Questo cinghio sferza La colpa dell' invidia: e però sono Tratte da amor le corde della ferza, ha in parle scusa da quel d'agostino: Per il rumore del gastigo che di fuori suona, Dio fiagella nel cuore; ispira ed opera dentro al cuore. Dico che a scusa, dacchè nè queste corde della ferza nè il duro camo del Canto seguente sono le vere bellezze di Dante; sebbene questo camo si riscontri con un modo de' Salmi, e quella ferza possa ricordare l'imagine virgiliana d'amata agitata dal suo furore: Ceu quondam torto volitans sub verbere turbo... Ille actus habena Curvatis fertur spatiis (6). Ma più direttamente mirava il Poeta all'Aglauro d'Ovidio; e il vile cilicio che copre quell'ombre rammenta l'invidía che alla misera giovanella hamatis praecordia sentibus implet (7); e il livido colore della veste, della pietra, della strada, rende quelli d'Ovidio: Piceum venenum. - Pectusque manu ferrugine tincta Tangit. - Nec lapis albus erat; sua mens infecerat illam (8). E ad Ovidio risponde papa Gregorio (9) Quando la putredine del livore ebbe vinto il cuore e corrottolo, anco i segni esterni indicano che grave male sia quello che istiga l'anima, che il

(1) Par., XVII.
(2) Purg., XIV.

(3) Greg: La mente invidiosa, attri standosi del bene altrui, nel bel mezzo della luce, fa sè medesima oscura. Psal., LXVIII, 24: Obscurentur oculi corum ne videant: el dorsum eorum semper ineurva. Ecco accostate nel verso medesimo le due pene che vengono accoste nel Purgatorio Dantesco.

(4) Job, V, 14.

(5) Æn., IX Fors' anco risuonava a lui nella mente: phlegiasque miserrimus om..es Admonet, et magna testatur voce per umbras: Discile justitiam. (6) Æn., VII

(7) Ovid., Met., II.
(8) Ovid., Met., II.
Mor., V.

colore si fa pallido, gli occhi s'abbassano, la mente riarde (1), le membra intorpidiscono, nel pensiero è rabbia, ne' denti fremito.

Da papa Gregorio ritornando ad Ovidio: Surgere conanti, partes, quascumque sedendo Flectimur ; ignava nequeunt gravitate moveri (2). E così in Dante le Ombre stanno sedute a significare l' inerzia del vizio loro, e s'appoggiano al livido scoglio, e s'appoggiano l'una alla spalla dell'altra, per dimostrare quel che dovevan fare in vita, e stanno come ciechi accattoni, essi che non fecero carità d'amore, umiliati perchè l'orgoglio era il fomite del male loro ; e dagli occhi forati spremono lagrime, e dall'anima memoria di dolore. Perchè la memoria de' beni passati in quanto possedet tersi cagiona placere ; ma in quanto perduti, dolore; e in quanto altri gli ha, invidia. E però dice il Filosofo (3): « che i vecchi invidiano a' giovani, »e coloro che molto s'adoprarono per conseguire una cosa, invidiano coloro che con meno fatica ci giunsero (4).

(1) Purg., XIV: Fu'l sangue mio d'invidia si riarso.

(2) Ovid. Met., II.

(3) Arist. Rhet., II.

(4) Som., 2, 2, 36.

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