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Zerbin, la debil voce rinforzando,

Disse io vi prego e supplico, mia diva,
Per quello amor che mi mostraste quando
Per me lasciaste la paterna riva;

E se comandar posso, io vel comando,
Che, fin che piace a Dio, restiate viva:
Nè mai per caso poniate in obblio
Che quanto amar si può, v' abbia amato io.

Non credo che quest'ultime parole

Potesse esprimer sì che fosse inteso
so;

E finì come il debil lume suole

Cui cera manchi od altro in che sia acceso, ec.
C. XXIV, st. 76 e seg.

Anche la morte d'Isabella è narrata nel canto XXIX in una maniera commoventissima; ma i versi dell'Ariosto, assai meno di quelli d'ogni altro, si possono far conoscere per via di frammenti; chi non gli ha letti ancora, non potrà mai sopra la citazione d'alcune stanze farsi un'esatta idea di quella grazia che abbellisce il tutt' insieme, di quelio stile, di quella vaghezza di linguaggio, di quegli ornamenti che sono in perfetta armonía cell' intero disegno del poema.

La gloria dell'Ariosto riposa sopra il suo Orlando furioso; ma non è questa la sola opera di lui che ne sia rimasta egli scrisse cinque commedie, in cinque atti e in versi, che oggidì non si rappresentano più, e che da ben pochi son lette, non si trovando più in esse alcun riscontro co' nostri costumi.

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DELLA LETTERATURA ITALIANA

Le due prime di queste commedie egli aveale poste da principio in prosa, nella sua più de giovinezza, e altresì nella prima giovinezza l'arte. L'Ariosto s'avea prefisso per modelli Pla o Terenzio; e in quella guisa che questi copiav già il teatro greco, egli copia il teatro latino. N sue commedie si trovano tutti i personaggi d commedia romana, schiavi, parassiti, nudrici, tigiane. La scena della prima, la Cassaria, Metellino, in un'isola greca, a cui può dar 1 pressappoco i costumi che vuole; ma la seconda Suppositi, è a Ferrara, e l'intreccio s' annoda o sufficiente artifizio alla presa d' Otranto per pa de' Turchi (il 21 d'agosto 1480); il che detern na l'epoca dell'azione, e il luogo della scena: pure ci si ci si veggono, ciò che fa bizzarrissimo co trasto, antichi costumi con un' azione moderna. ogni modo l'intreccio di tale commedia è nuovo fino; ci ha dell' interesse, ed anche della sensibilità particolarmente nel personaggio del padre; ci h pur talvolta della festività, ma piuttosto affettata che naturale. Non è il sale italiano ch' egli sparge ma si quello de' Latini; le face zie degli schiavi de' parassiti dell'Ariosto fanno così puntualmente ricor dar quelle de' medesimi personaggi che gli serviron di modello in Plauto o in Terenzio, che è impossi bile di ridere con tanta erudizione. La scena, a modo de' Latini, è in istrada, innanzi alla casa de'

principali personaggi; essa è stabile; l'unità di tempo è pure così rigorosamente osservata, come quella di luogo: ma così pure come appresso de' Latini, è più quello che si racconta dell' azione, di quello che si vede. Egli pare che l'autore abbia paura di mettere sotto gli occhi degli spettatori le situazioni appassionate e il linguaggio del cuore. In una commedia, che tutta si ravvolge sopra l'amore e sopra la tenerezza paterna, non ci ha nè pure una scena fra l'amante e la sua Bella, nè pure una scena fra il padre ed il figlio; e l'agnizione, onde risulta lo scioglimento, succede nell' interno della casa, fuor della veduta del Pubblico. Tutto richiama alla memoria il teatro romano in queste commedie, saggiamente, ma freddamente condotte; tutto, io dico, fino al cattivo gusto delle facezie, che non sono motti scherzevoli, come negli arlecchini moderni, ma classiche inciviltà. Vedesi nel teatro dell'Ariosto un grande ingegno guastato da un'imitazione servile; e si comprende in leggendolo perchè gl' Italiani hanno tardato sì gran tempo a spiccare nell' arte drammatica: essi non seguivano mai la loro propria inspirazione, ma solo attenevansi a ciò che pigliavano per modello. La Calandria di Bernardo Divizio (da poi cardinale di Bibbiena), che disputa coll'Ariosto il primato sul teatro comico d'Italia, ha tutti i medesimi difetti e la medesima imitazione classica, ma sì ancora molto più

di rozzezza, e molto meno di sale. Il soggetto è quello de' Menecmi di Plauto, riprodotto tante volte su tutti i teatri; ma nella Calandria i due gemelli, che vengono confusi l'uno coll' altro, sono un fratello ed una sorella.

L'Ariosto fu il primo ad avvertire che la lingua italiana non aveva ancora una forma di verso adattato alla commedia ; il perchè avea scritto in prosa, come fece il Divizio, le sue prime due produzioni ma in capo a venti anni le mise in versi endecasillabi sdruccioli pel teatro di Ferrara. Ma neppur questo tentativo sorti buon effetto, poichè questi sdruccioli non portano seco alcuna specie d'armonia e di vaghezza poetica, e riescono sì monotoni da non se ne poter continuare la lettura.

L'Ariosto scrisse un gran numero di sonetti, di madrigali e di canzoni: egli pare, in vero, che vi si trovi meno armonia, che nelle poesie del Petrarca; ma, quanto io, ci veggo maggior naturalezza. Le sue elegie, da lui intitolate Capitoli amorosi, in terza rima, si possono paragonare a ciò che Ovidio, Tibullo e Properzio hanno scritto di più grazioso ; l'amore per altro vi si presenta sotto la forma romantica; e l'Ariosto, emulo degli Antichi, non è quivi imitatore di essi. Egli canta molto più sovente i piaceri dell'amore, che le sue pene. Ciò che ne' suoi scritti dipigne lui stesso, non ce lo fa veder certo come un uomo melancolico o sentimentale.

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Finalmente l'Ariosto compose parecchie satire che servono a far conoscere il suo carattere e diversi avvenimenti della sua vita. In generale non vi si truova il nerbo nè l'amarezza de' Satirici latini; per l' opposito, si può da esse raccogliere che l'Ariosta era un uomo assai buono, e che solo s'impazientiva de' contrattempi che attraversavano i suoi disegni, de' difetti di chi lo circondava, e soprattutto dello spirito prosaico del cardinale d'Este, che non era sufficiente a conoscere o ad apprezzare suo merito. Ci si vede pure ch'egli avea molta cura di sè stesso, e che la sua sanità, i suoi comodi, il suo tenor di vita occupavano nel suo pensiero troppo più luogo di quello che altri si sarebbe aspettato dal cantore de' cavalieri erranti, e da chi facea dormir. sempre i suoi eroi nelle foreste, senz' altra coperta che la volta del cielo, senz' altra cena che le radici de' campi; da chi finalmente sembrava che ne' viaggi di questi eroi dimenticasse per essi tutti i bisogni della vita fisica.

CAPITOLO V.

Alamanni. Bernardo Tasso. Trissino. Torquato Tasso.

L'Ariosto non avea preteso di scrivere un poema epico; ma senza ch' egli volesse alzarsi di sopra all'epopeja romanzesca ch' era stata creata avanti di

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