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DELLA LETTERATURA ITALIANA

parecchi altri. In quel secolo, che la letteratura tutta erudizione, il gusto non esercitava sop essa alcuna influenza; la società non reprime passioni maligne; e il rispetto per le donne inspirava punto d'urbanità. Reca meraviglia stomaco il vedere con quali odiose accuse qu eroi della letteratura si assalgono a vicenda ; c si rinfacciano e furti e delitti di falso e venefi spergiuri; e di qual brutto linguaggio fanno Per giustificare una frase insultante o villana, e' cercavano già fino a qual punto la si poteano mettere uomini bennati, ma soltanto se poteasi varla negli autori della buona latinità; parimente quanto alle calunnie, non si attenevano tamp alla verisimiglianza, ma solamente all' apparenza c sica che si potea dar loro.

L'uomo, la cui va si trovò maggiormente agit da quéste furiose tenzoni letterarie, fu Francesco lelfo (1398-1481), il rivale di gloria e il nem dichiarato di Poggio Bracciolini. Egli nacque a 1 lentino del 1398; per tempo si segnalò colla s erudizione; e fin dall' età di diciott' anni fu nor nato professore d'eloquenza a Padova. Abbando la sua caltedra per andare a Costantinopoli a p fezionarsi nello studio del greco; si condusse co nel 1420 con una missione diplomatica de' Ven ziani; ne esercitò alcune altre appresso d'Amurat e dell'imperadore Sigismondo, e sposò una figl

di Giovanni Grisolora, che era in parentela colla famiglia imperiale de' Paleologhi. Questo nobile parentado inebbriò di vanità un uomo già troppo superbo del suo sapere, e che si reputava il primo lume del suo secolo, per non dir forse di tutti i secoli. Allora quando ritornò in Italia, il suo fasto: lo ridusse più volte alla miseria, non ostante la generosità con che si pagavano in parecchie città le sue lezioni. Nello stesso tempo la violenza e l'acerbità del suo naturale gli fecero de' nemici accaniti; e non ne ebbe solamente fra' letterati, ma volle ancora mischiarsi di contese politiche, alle quali per altro non era sospinto da nobili sentimenti. Egli asseri che Cosimo de' Medici avea voluto per ben due volte farlo trucidare, e tentò di far tucidar lui. Condusse seco il suo astio in tutte le città d'Italia, soverchiando colle più villane invettive i nemici che si avea fatto. Dopo la morte della sua prima moglie, ne tolse una seconda, poscia una terza a Milano, dove rimase lungo tempo alla Corte degli Sforza: morà finalmente il 31 di luglio 1481, mentre che si trasferiva a Firenze, ov'era richiama to da Lorenzo de' Medici. In mezzo a queste continue procelle, il Filelfo si adoperò con attività instancabile nell'avanzamento delle lettere; lasciò gran→ dissimo numero di traduzioni, dissertazioni, scritti filosofici, lettere e simili; ma contribuì molto più ancora a' progressi degli studi colle sue lezioni, e con

quel tesoro di dottrine ond'egli facea copia a quat trocento o cinquecento scolari alla volta, a' quali dava lezioni sopra diverse materie fino a quattro o cinque volte al giorno. Suo figlio, Mario Filelfo, che avea da lui ereditato non meno l'ingegno, che. il cattivo naturale, andrà forse debitore d' una nuova celebrità alle indagini d'uno degli uomini più dotti del nostro secolo: parlo del sig. Favre, bibliotecario di Ginevra, il quale spargerebbe viva luce sull'istoria letteraria di tutti cotesti filologhi, sulle loro dispute e sullo spirito ond' erano animati, se pubbli→ casse la vita ch' egli scrisse del detto Mario.

Lorenzo. Valla è l'ultimo di questi celebri filologhi che abbiamo qui voluto nominare. Nato a Roma sul finire del secolo XIV, fece quivi i suoi primi studi; fu poi nominato professore d'eloquenza a Pavia, dove rimase fin verso l'anno 1431, alla quale epoca si pose a' servigi del re Alfonso V. In Napoli aperse una scuola d'eloquenza greca e latina; ma, non meno irascibile del Filelfo o di Poggio, entrò con essi e con altri ancora in violente altercazioni. Le invettive scritte da tutti questi letterati sono pur tristissimi monumenti! Egli compose parecchie opere d'istoria, di critica, di dialettica e di filosofia morale. Le due più celebri sono la sua Storia di Ferdinando, Re d'Aragona, padre d'Alfonso, e le sue Eleganze della lingua latina Mori a Napoli del 1457.

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Laonde quasi tutto il secolo XV ebbe per unico scopo lo studio delle lingue morte, de' costumi, delle usanze, delle credenze, morte con esse. Medesimamente mancava la vita a tutte l' opere prodotte per mezzo di tante ricerche e di tante fatiche. In questi uomini che abbiamo, per così dire, passati a rassegna, e da' quali teniamo tante scoperte o piuttosto la conservazione di tante cose ch' essi aveano salvate, si trovava bensì una erudizione vastissima, e spesso ancora una critica assai giusta, ed un tatto assai delicato sopra ciò ch' era potuto appartenere a' grandi maestri, o sopra ciò ch' era indegno di essi; ma indatno vi si cercherebbe la vera eloquenza: è questo un dono che vie più s'ottiene conversando con gli uomini, che studiando ne' libri; ed i filologi rispettavano troppo ciecamente tutto ciò che veniva dagli Antichi, per rendere a sè medesimi ragione di quanto era in essi di più eccellente, e scegliere le cose da imitarsi. I loro passi nella poesia erano ancora più addietro; i loro tentativi in questo genere, tutti in latino, sono molto scarsi; i loro versi sono duri, pesanti, senza fuoco e senza originalità. Soltanto all'epoca che si riprese a coltivare la poesia italiana, alcuni scrittori trovaro◄ no pure pe' versi latini una vera inspirazione.

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Il primo forse a cui si possa attribuire il risorgimento della poesia italiana, fu ad un tempo uno de' più grand' uomini del suo secolo e de secoli

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appresso; voglio dire Lorenzo de' Medici, capo della repubblica fiorentina, e arbitro di tutta la politica d'Italia (1448-1492). Lorenzo il Magnifico scrisse le sue prime poesie, che ancor non avea vent'anni (1465-1468). Era tuttavia già scorso un secolo da che il Petrarca ed il Boccaccio, rinunziando all'amore, aveano cessato di scrivere in versi italiani; e in quel lungo intervallo non si presenta verun poeta che meriti d'esser citato. Lorenzo tentò di ripigliac la poesia là dove lasciata aveala il Petrarca; ma quest' uomo, cotanto singolare per la grandezza del suo carattere e per l'universalità de' suoi talenti, non avea quello del far versi come il Petrarca. Nelle sue composizioni amorose, ne' suoi sonetti e nelle sue canzoni tu ritrovi assai meno di dolcezza e d'armonia, colori poetici meno vivi, e, che è più strano, una lingua molto più rozza e da tenersi e da tenersi per più vicina alla sua infanzia; d'altra parte però le idee sembrano più naturali, e non di rado portano seco una grande vaghezza d'immaginativa e di colorito. I suoi quadri più ridenti sono tolti continuamente dalla campagna; e fa maraviglia il vedere l'uomo di Stato conoscer si bene la vita campestre. Si trovano nella raccolta de' suoi versi più di centoquaranta sonetti ed una ventina di canzoni in onore quasi sempre di Lucrezia de' Donati; egli per altro non la nomina mai, e pare che soltanto la scegliesse come oggetto d'un amor poetico, e a fine d'avere una

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