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Ripresi via per la piaggia diserta,

Si che 'l piè fermo sempre era 'l più basso : Ed ecco, quasi al cominciar dell' erta, Una lonza leggiera e presta molto, Che di pel maculato era coperta.

E così Cino da Pistoja, Jacopo da Lentino, Brunetto Latini ed altri; de' quali sono allegati gli esempi dal Nannucci (Anal. cr. verb. pag. 499 seg.) come d'altri scrittori di prosa. Errò il Mastrofini quando disse che cotesto hei o ei era sincope di hebi (ivi pag. 500).

30. Dante uscito della selva non diè passo che o per via piana o per erta, onde non si può andare che il piè fermo non resti più basso dell'altro che si muove. Il contrario avvenuto sarebbe s'egli andato fosse per la china: chè allora il piè fermo era il più alto; come ciascuno per propria sperienza potrà provare. Il pocta dunque dice che venuto fuori della Selva tendeva all'alto, e camminava sì che dato non gli venisse un passo se non in su, ma non in giù mai. Era un cammino di morale progresso.

Il Bianchi, pel Magalotti e pel Costa, crede dimostrare che, perchè il piè fermo fosse il più basso, è necessaria la via piana leggermente acclive; e che codesto pianeggiare del poeta avvenne prima di giugnere all'erta, sendochè per quella ora è fermo e più basso l'un piede, e ora l'altro vicendevolmente. Ma, sia con pace e reverenza a quest'illustri uomini, è naturale che prima dell' erta vi sia qualche piano e il Poeta dice:

Ripresi via per la piaggia (Vedi che sia Piaggia) e quel modo di camminare non deve intendersi solo per la piaggia sì che non potess' esser anche per l'erta: imperoc

chè Dante con dire:

Ripresi via per la piaggia. include tutta la via o il cammino ch'ebbe cominciato, per salire precipuamente il monte che gli arrise colla sua luce. Ne poi è vero, chi ben consideri, che al piè fermo, il più basso sia necessaria una via piana alquanto acclive; poichè io non so persuadermi come può avvenire a chi pur vada per un piano perfettamente orizzontale, che coll' un piede stando, e

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l'altro alzando e spingendo innanzi a fare il passo, non debba il piè fermo restar più basso dell' altro ad ogni volta. Montando per l'erta accade lo stesso. Il piè fermo è il più basso, perciocchè l' altro che muovesi piglia più su della salita a ciaschedun passo che si faccia. Non vale l'altro più basso in salire; perciocchè il dire che de' piedi sarebbe or l'uno or Poeta riflette alla posizione dell' un piede rispetto all' altro, considera quale in un medesimo passo sia più alto dell' altro o il piè che sta fermo quel che si muove; e non briga punto vedere se nel camminare tocchi questa vicenda ora al destro e ora al sinistro. Inf. XXVIII, 61.

La bell' allegoria cui accenna il Bianchi da questa nostra spiegazione resta salda, posto il camminare prima pel piano che per lo monte.

Il Magalotti e il Costa caddero in troppa sottigliezza nel volere diciferare questo passo e fecero, come avviene a cui troppo si lambicca il cervello : Faciunt nae in intelligendo, ut nihil intelligant.

32. Folgore da S. Gemignano in un sonetto (proemiale della seconda corona della settimana) loda il donzello: Carlo di Messer Guerra Cavicciuoli,

Quel ch'è valente, ardito e gagliardo E servente comandi chi che vuoli. Leggiero più che lonza o liopardo,

E mai non fece de' danar figliuoli,

Ma spende più che 'l Marchese Lombardo. A questo servente comandi così il Nannucci: «Non serviziato, come spiega il Salvini, ma servente comandi vale servente ai comandi, cioè servidori quanti ne vuoi; chè comandi qui non verbo, ma nome nel quarto caso, a cui egualmente che al terzo s' adatta il verbo servire ». (Manual. Lett. ant. vol. I, pag. 345, Fir. Le M. 1856).

Tenendo col Salvini e attribuendo a Carlo come valente e ardito così anche servente, si potrebbe intendere ch'ei fosse presto ai servigi di ognuno, gentile ec. Dante lesse il sonetto, e da que

E non mi si partia dinanzi al volto;
Anzi 'mpediva tanto 'l mio cammino,
Ch'i' fui per ritornar più volte volto.
Temp'era dal principio del mattino,

El sol montava in su con quelle stelle,
Ch' eran con lui, quando l' Amor divino
Mosse da prima quelle cose belle;

Si ch'a bene sperar m'era cagione
Di quella fera la gaietta pelle,
L'ora del tempo, e la dolce stagione:
Ma non sì, che paura non mi desse
La vista, che m'apparve, d' un leone.
Questi parea che contra me venesse

sto servente diede alla Lonza l'epiteto di presta dopo quel di leggera, ch'è nel sonetto del Gemignanese; e mostra averlo inteso come, dipoi molto, lo chiosò il Salvini.

Secondo i più la Lonza simboleggia la Lussuria. Bono Giamboni, Giard. di consol. cap. VIII: Di questo vizio nasce cechità di mente, poca fermezza, subitezza..... La lussuria macchia l'anima, e il corpo isconcia, la borsa vuola, toglie Iddio, offende il prossimo e l' anima trae all' inferno.

Ecco perchè Dante dica leggera e presta la Lonza; perchè di pelo maculato coperta; perchè una delle tre bestie onde perdeva egli quel po' di bene, ch' erasi acquistato, e veniva respinto e rinculato nella Selva.

40. Queste cose belle hanno nella loro stessa indeterminazione, un non so che di bellezza, che ben si può sentire, ma non esprimere per altre parole. Nella immensurabile vastità dell' universo e innumerevole varietà delle cose

create, non poteasi dir meglio. Pure il poeta non fu primo a usar questa frase; che il poeta da Todi, (avvegnacchè avesse appena un infinitesimo del genio Aligheriano) così fa parlar Cristo al pec

catore:

Io feci cielo, sole, luna e stelle,

Come con gli occhi tuoi tu puoi vedere
Ed altre cose, che son vie più belle
Perchè tu le venissi a possedere.

I quali versi ci fanno anche ricordare

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di quegli altri del Purgatorio XIV dove
il Nostro dice:

Chiamavi'l cielo e 'ntorno vi si gira
Mostrandovi le sue bellezze eterne.

46. Dopo ciò che abbiamo annotato Inf. XXVII, 119, non è chi non veda il perchè s'usasse qui venesse per venisse, inflettendo da venère, non da venire, e quanto male appongansi coloro che ricorrono alle ragioni dell' antitesi e della rima. Pare così che la rima sia servita meno ai mali poeti per istorpiar le parole, che a comentatori, spesso non ispregevoli, per cansar la fatica d' internarsi ne' reccssi della Filologia.

Brun. Latini, Tesoretto Cap. V:
Quando degnò venère

La maestà sovrana

A prender carne umana.

Il B. Jacopone. Sat. XIV, 2:
Se San Joan Battista rivenesse.
Od. VI, 38:

Gente, chè non venete?
Lib. V, C. XXIII, 17:

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Più volte mi venesti a visitare. In prosa. Vita di Cola di Renzo, Cap. V: Che ciascuno homo senza arme venesse. - Cap. IX: Doi nemicali veFramm. Stor. rom. Cap. X: Le cose fuoro promesse, e venevano ad effetto. Matteo Spinello, an. 1250: E poi venevano alcuni baroni vestiti nigri. An. 1261: Che venesse alla conquista de quisto reame. È risaputo che anche in latino molti verbi ebbero diverse configurazioni ed inflessioni.

Con la test' alta e con rabbiosa fame, Si che parea che l'aer ne temesse : Ed una lupa, che di tutte brame

47. Simbolo della superbia, dovea atteggiarsi quel Leone con la test' alta; perocchè giusta la dottrina de' savi: Superbia è levamento mortale della mente, la quale suo pare e suo minore hae a dispregio e vuole ai suoi maggiori signoreggiare. E Santo Anselmo dice: Superbia de volontade di disordinata altezza. Viridar. Consol. volgar. per Bono Giamboni.

48. Guido Cavalcanti celebra la donna sua in un sonetto, i cui primi versi

sono:

Chi è questa che vien, ch' ogni uom la mira Che fa di clarità l'aer tremare? ec.

Che l'aere tremasse allo splendore della donna di Guido è cosa naturale ed effetto della luce manante dalla supposta bellezza siccome da un sole; ma che della testa alta e della rabbiosa fame del leone, che veniva contro Dante, potesse l'aëre temere o tremare, par cosa un po' esagerata cui non tempera il parea. Bisogna essere spassionato per dritto giudicare; che il Cavalcanti più acconciamente fa l'aria tremare per cagion della luce che l' attraversa, di quel non si fac cia l' imitatore Alighieri, dicendo che la superbia e la fame leonina producano altrettanto effetto; tremando cioè nel primo caso per le onde luminose che l' allietavano; e nel secondo tremando o temendo per la vista orribile del lione.

Tuttavia è da considerare che il volgo possiede delle simiglianti locuzioni di forza, che odonsi proferire quasi cotidianamente nel contado, come: Far tremare l'aria, le stelle ec. con che pare si voglia significare un'ira o furore tanto possente, da incutere paura eziandio a chi non può averne. Sono iperboli che non voglionsi sottoporre al freddo calcolo della ragione; e che, quando questa sottostà, come non rado addiviene, alla fantasia e alla forza del sentimento, e splendono senza macchia, e rendono il parlare forte e leggiadramente espressivo.

Il Redi pare che, avendo innanzi agli occhi e il sonetto di Guido e la terzina

di Dante, componesse un suo sonetto, di cui qui arrechiamo le quartine: in questo però egli schiva il tremore e la paura dell'aria al venire della donna; che, traendosi dietro in catena l'amorosa speranza e la pietà, avventa saette dagli occhi come un Giove irato, e fa tremare il sangue nelle vene. Al Medico andò forse più a grado quel che lo stesso Dante disse: «Aiutami da lei, famoso saggio, ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi»

Ecco i versi del Redi :

Chi è costei che tanto orgoglio mena Tinta di rabbia, di dispetto e d' ira? Che la speme in Amor dietro si tira E la bella Pietà stretta in catena ? Chi è costei, che di furor sì piena Fulmini avventa, quando gli occhi gira? E ad ogni petto che per lei sospira, Il sangue fa tremar dentro ogni vena? 49. LUPA. Oltre a quello che ne scrivono i comentatori circa il significato allegorico di questa Lupa, la quale dicono significare la Curia romana; ci piace notare che siccome nella lingua germanica, Welf vale Lupo; così non è improbabile che il gran Ghibellino abbia voluto velare sotto questo nome di Lupa la parte Guelfa a lui avversa. Ciò può stare, poste anche le altre spiegazioni che gli eruditi ne danno delle due voci Guelfo e Ghibellino.

L'illustre Conte Fm. Torricelli ha già dimostrato che dovesse intendersi per la Lupa nel senso allegorico-teologico, nè v' ha nulla da opporre. Ma essendo anche nel Poema il senso politico, può secondo questo avervi luogo la predetta allusione.

La Lupa, simbolo dell' avarizia, fu al Poeta la bestia più paurosa e funesta. O che si voglia per essa intendere la Corte romana o l'avarizia in genere, o il Demonio, Plutone, la Morte ec. (Inf. II,107) l'è stata per Dante, è e sarà sempre codesta Lupa esiziale all'individuo umano, come agl'interi Stati. Nel senso politico l'Ambizione e l'Avarizia,cioè il Leone e la Lupa, hanno una differenza di grave momento. Il Mably (De l'Etude de l'histoire, Tom. 24, pag. 7): « Notate che l'ambizione è

Sembiava carca nella sua magrezza,
E molte genti fe già viver grame.
Questa mi porse tanto di gravezza,

Con la paura ch'uscia di sua vista,
Ch'i' perdei la speranza dell' altezza.
E quale è quei, che volentieri acquista,
E giunge 'l tempo, che perder lo face,
Che 'n tutt'i suoi pensier piange e s'attrista;

Tal mi fece la bestia senza pace,

Che, venendomi 'ncontro, a poco a poco
Mi ripingeva là, dove 'l sol tace.
Mentre ch' io rovinava in basso loco,
Dinanzi agli occhi mi si fu offerto
Chi per lungo silenzio parea fioco.
Quando vidi costui nel gran diserto,
Miserere di me, gridai a lui,

una passione meno pericolosa dell' ava-
rizia. Questa è sempre bassa, avvilisce
l'anima e mai non è capace di nessun
consiglio generoso l'altra può andare
per avventura congiunta a qualche virtù,
come all' amor della gloria, al disinte-
resse, all'amor della patria: così ilamenti
mossi dall' avarizia han sempre perduti
gli Stati; gli ambiziosi, al contrario, vi
si sono alcuna volta rappattumati. Si è
veduto altresì talora che, quando queste
due passioni han d'accordo eccitate del-
le turbolenze, l' una ha servito di arma
contro dell' altra. Gli Ateniesi ve n'offro-
no un esempio memorabile. Per non a-
ver che domandato una nuova partizione
delle terre e l'abolizione de' debiti, la
repubblica sarebbe andata a rovina. For-
tunatamente i cittadini della costa, del
piano, e della montagna furon divisi so-
pra l'autorità. L'avarizia avrebbe tratto
all' estrema violenza i ricchi, i poveri, i
creditori, i debitori; l'ambizione più con-
ciliativa propose Solone ad arbitro » (a).

(a) L'allegoria delle tre Fiere e del Veltro aprirebbesi dal Poeta cosi: « Ecco il mio concetto. La Lonza indica la lascivia umana, general cagione di acciecamento e smarrimento nella diritta via del bene. Il Leone indica la tirannide de' re o capi degli stati. La Lupa indica la Corte Romana tralignante dal Vangelo e serva di mondane cupidigie; epperò meritevole d'essere rincacciata nell' inferno, ossia d' essere distrutta, perchè la sua comparsa sulla terra vuol

60. Anche Inf. V. 28:

I'venni in loco d'ogni luce muto.
Virgilio, En. II, 254:

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Et jam argiva phalanx instructis navibus ibat
A Tenedo, tacitae per amica silentia lunae ec.
Ancora VI, 265:

Et Chaos, et Phlegethon, loca nocte tacentia ec.

62. Locuzione tolta da Virgilio (En. II, 589); appo cui Enea conta che come le furie lo traevano a disperata vendetta, e Venere gli fu presente: Quam mihi se, non ante oculis tam clara, viObtulit ec. (dendam,

Parad. VIII, 40 :

Poscia che gli occhi miei si furo offerti
Alla mia donna reverenti, ed essa
Fatti gli avea di sè contenti e certi ec.
Dinanzi agli occhi ec. Virg. (En. II,
772):

Infelix simulacrum, atque ipsius umbra Creusae

Visa mihi ante oculos

si attribuire all' invidia che gli spiriti maligni portano all' evangelica dottrina, fonte perenne di felicità umana, chi ben l'intende. Il Veltro punto il successor di Pio IX, senza dominio infine indica un Papa qualunque, come sarà aptemporale: che, cibandosi di vero amor di carità e di schietta evangelica sapienza congiunta a virtù di operazione in pratica e non mica a pompa di parole, darà in sè stesso il necessario esempio d'ogni divina ordinazione morale ed ecclesiastica. La conseguenza di ciò sarà la pace, l'abbondanza e la prosperità vera d'ogni nazione cristiana; che potrà considerarsi come nella bambagia moralmente e materialmente, quale intesi dire con la forzata espressione: Tra feltro e feltro ».

Qual che tu sii, od ombra, od uomo certo.

66. Ombra. Siccome l'è questa una voce usitatissima per tutte le tre Cantiche, gioverà farsene un'idea chiara. Le anime svincolate per morte da' corpi si chiamano Ombre (Lat. Manes). Forse che Orazio col motto: Pulvis et umbra sumus, intese accennare il congiunto mortale dell' anima (umbra) e del corpo (pulvis); non meno che significare la vita fugace e la fragilità della compage umana. Dante non solo adopera nella detta accettazione il vocabolo; ma ne spiega la natura di coteste ombre appariscenti. Dice che lo spirito disgiunto dal suo corpo fa a sè d'intorno quasi un velo simigliante alle vive fattezze della persona; e che cotesto velo si tesse ed effettua da virtù informativa insita nella natura di ciascheduno individuo, in quella guisa che l'aere si colora nell'arco baleno dalla settemplice luce solare. (Vedi Purg. XXV, 91 a 101 ec.).

Anche il Tasso dice, dell' Angelo apparso a Goffredo:

La sua forma invisibil d'aria cinse

Ed al senso mortal la sottopose:

Umane membra, aspetto uman si finse ec. Ein una stessa terzina (Purg. XXVI, 7) in ambi i sensi, proprio e figurato, non dubitò l'Alighieri usar la detta voce: Ed io facea con l'ombra più rovente

Parer la fiamma, e pure a tanto indizio Vidi molt'ombre, andando, poner mente. Quest'ombre chiama alcuna volta corpi filtizi (Purg. XXVI, 13), e alcun' alira sclamando dice:

O ombre vane fuor che nell'aspetto!
Virg. En. VI, 390:

Umbrarum hic locus est, et somni noctisque...
Che il Caro volta:

Chè notte solamente e sonno ed ombre
Han qui ricetto e non le genti vive.
E v. 733:

Non me impia namque
Tartara habent, tristes umbrae: sed...
Svet. in Calig. c. 59:
Satis constat, custodes hortorum umbris inquie-
tatos ec.

Il Tasso:

Spesso l'ombra materna a me s'offria Pallida immago e dolorosa in atto ec. E Armida appo lo stesso poeta: Me tosto ignudo spirto ombra seguace Indivisibilmente a tergo avrai ec. Il volgo crede alle ombre che sono gli spiriti; ed ombre o spiriti, che dir si vo

gliano, si fan campo eziandio nel secolo de' lumi.

Uomo certo. Dante medesimo comenta in certa guisa questo luogo, aprendo il senso in cui voglionsi prendere le parole od ombra od uomo cerlo. (Purgat. VII, 10 ec.):

Qual'è colui che cosa innanzi a sè
Subita vede, ond'ei si maraviglia

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Che crede e no, dicendo: ell'è, non è ec. Letteralmente adunque è come dire: chiunque tu sia od ombra o non ombra, ma realtà di uomo. Certo è anche qui per fido, di savio consiglio, esperto, oculato, accorto, fermo ec. (a). Bono Giamboni, Vegez. Lib. III, cap. VI: « E di dietro vadano poscia CERTI cavalieri e pedoni, perchè andando, allotta (alcuna fiata) dalla fronte, ma più spesso di dietro sono assaliti. E dalle latora sono ancora da mettere CERTI Uomini armati; perchè i nemici ec. Quello spezialmente è da servare che da quella parte, onde maggiormente si crede che il nemico vegna postivi elettissimi cavalieri ec. si guernisca »>. Hominem certum, in questo sentimento dissero anche i Latini (b). E che sia l'uomo certo, l'accenna

(a) Certo da cretum ch'è da cernere = sceverare, vagliare, distinguere, vedere, discernere. Di qui anche la voce certezza ch'è fondata sull'evidenza nell'ordine de' veri a priori; e lo stesso intuito del principio metafisico, non è che una specie di visione intellettiva un intus-tueri, - Lá come per la voce stessa si fa manifesto. vista con gli altri sensi ec. son eziandio fondamento della certezza nelle verità d'ordine inferiore ec. ec.

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(b) Corn. Nip., Pausan. II. His de rebus si quid geri volueris, certum hominem ad eum mittas face, cum quo colloquatur. Pausania per imparentare con Serse profferivasi vilmente a tradir la patria. L'uomo certo fu Artabazo che non era un cert'uomo, o'un homo quidam, come si direbbe. Rex confestim cum epistola Artabazum ad Pausaniam mittit; in qua eum collaudat ac petit, ne cui rei parcat ad ea perficienda, quae pollicetur. Mutato che è da mutare, vedesi qui che Beatrice manda l'uomo certo, o il fido Virgilio, dopo averlo lodato (0 anima cortese mantovana ec.); ed egli s'offerse ad andare; che son quasi le parole del testo descritto collaudat... pollicetur. Ella gli fa ressa dicendo: Or muovi e con la tua parola ornata ec... E il latino scrittore: collaudat ac petit ne cui rei parcat, ad ea perficienda quae pollicetur. Dante si direbbe aver tolto qualche cosa da questo luogo di Cornelio, se le biografie di questo autore fossero state note al tempo del Poeta.

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