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Venimmo al piè d'un nobile castello, Sette volte cerchiato d' alte mura, Difeso 'ntorno d'un bel fiumicello.

parlar come pensi. Appresso: quanto non dice quell'esser lecito o potersi di là quel che di qua n'è conteso di dire! Quivi tra i grandi spiriti si veggono e giudicano le cose di questa vita assai diversamente che noi non facciamo. I papi, i re, le umane costumanze, le superstizioni, le porpore, i camauri, le mitre ed altre cosc cotali di che si rabbuffa l'umana stoltezza, lì facevano forse materia di libera ed imparziale discussione, che qui non è lecita, neanche dopo secent' anni dacchè Dante ci visse.

Questa mia interpretazione è fiancheggiata da Orazio, il quale (Lib. V, Od. XVII, 25) usa il verbo esse in simigliante modo:

Urget diem nox et dies noctem, neque EST Levare tenta spiritu praecordia. dove: neque est, vale neque EST possibile, neque licet.

Ancora, Lib. I, Epist. I, 32:

Est quadam prodire tenus, si non datur ultra. Est per licet. E Cicerone, Or. I: Prima sequentem honestum EST in secundis tertiisque consistere.

106 seg. L'allegoria di questa terzina muove dal fatto che i luoghi muniti meglio furono sempre circondati di mura e di acqua come la nostra Mantova: chi poi vuole intenderla legga il Torricelli, il Bianchi ec. ai quali nulla oseremmo apporre. Aggiungiamo solo che anche nel Poema attribuito a Dino Compagni, ma che in realtà risale a un tempo più antico, si legge dell' Intelligenza esser soggiorno un simigliante castello:

In una ricca e nobile fortezza
Istà la fior d'ogni beltà sovrana,
In un palazzo ch'è di gran bellezza:
Fu lavorato alla guisa Indiana:
Lo mastro fu di maggior sottigliezza
Che mai facesse la natura umana:
E molto è bello e nobil e giocondo,
E fu storato a lo mezzo del mondo
Intorneato di ricca fiumana.

ed il poeta ne viene descrivendo tutte le parti sempre allusive anch' esse alle gesta della nobile abitatrice.

Ser Brunetto Latini nella sua visione dice che, passata una valle oscura, per

venne a una gioconda pianura, e aver quivi trovati Imperadori, Re, gran Signori e maestri di scienze, l'imperatrice Virtù con quattro figlie reine Giustizia, Prudenza, Fortezza e Temperanza ed altre donne reali come Cortesia, Larghezza, Leanza, Prodezza ecc.:

Ed io presi ardimento
Quasi per avventura

Per una valle oscura,
Tanto che al terzo giorno
I' mi trovai d'intorno (a)
Un grande pian giocondo
Lo più gaio del mondo
E lo più dilettoso;

Ma ricontar non oso
Ciò ch'io trovai e vidi,
Se Dio mi guardi e guidi,
Io non sarei creduto

Di ciò ch'i' ho veduto;
Ch'i' vidi Imperadori
E re e gran Signori,
E mastri di scienze,

Che dittavan sentenze.

Selle volte cerchiato d'alle mura. Son le virtù filosofiche e teologiche la settemplice munizione che cerchia l'abitacolo della sapienza, la rocca ove regge la Intelligenza corteggiata dalle sue potenze, forze, o facoltà. Orazio (Lib. III. Od. XXVIII) invita Lide a sottrarsi un pochino alla severa signoria di quella, per darsi buon tempone celebrando, tra i bicchieri dello smagliante Cecubo, la festa di Nettuno, in memoria della vittoriosa battaglia d'Azio:

Munitae adhibe vim sapientiae.

Il prelodato Ser Brunetto assegna ai cinque sensi del corpo diverse fortezze, chiamando mastra o principale quella, in cui siede l'anima. Queste fortezze son quelle che i psicologi chiamano col nome di potenze, forze, facoltà ec. Bono Giamboni, Volg. del Tesoro, Lib. I, cap. XV: Ma tutte queste cose sormonta l' anima, la quale è assisa nella mastra fortezza del capo, e sguarda per suo intendimento ec. Il nobile castello simboleggia dunque la sede dell'anima, secondo che Dante avea letto nel Tesoro di Messer Brunetto. L'applica al luogo do

(a) I' mi trovai per una selva oscura.

Questo passammo come terra dura :

Per sette porte intrai con questi savi. Giugnemmo in prato di fresca verdura. Genti v'eran con occhi tardi e gravi, Di grande autorità ne' lor sembianti: Parlavan rado con voci soavi. Traemmoci così dall' un de' canti

In luogo aperto, luminoso ed alto,
Si che veder si potean tutti quanti.
Colà, diritto sopra 'l verde smalto,

Mi fur mostrati gli spiriti magni,
Che di vederli in me stesso m' esalto.

ve risiedono i savi dell' Elisio o Limbo chiaro; perchè quegli uomini versati nella meditazione e contemplazione dell'intelligibile aspirarono al vero ed al bello, quasi partiti da' sensi e dalle ragioni della natura materiale (V.Inf. IV,67 e segg.).

111. Bonaggiunta Urbiciani, posto tra' golosi dal suo amico Dante, aveva prima del nostro Poeta cantato:

E nullo prato ha si fresca verdura
Che li suoi fiori non cangino stato.

Virgilio parlando di Enea accompaguato dalla Sibilla (En. VI, 638 segg.):

Devenere locos laetos, et amoena vireta Fortunatorum nemorum, sedesque beatas. Largior hic campos aether et lumine vestit Purpureo; solemque suum, sidera norunt. 120. Il Bianchi saviamente tenne l'avviso del Nannucci (Anal. de' verbi pag. 677) che in questo verso di Dante la vera lettera fosse m' esalto, non mica n'esalto, come leggono molti tra i comentatori; onde chiosa: « m' esalto, mi compiaceio; sento ingrandirmisi l'anima a ricordarmene, a vederli pur coll' immaginazione ». E sta bene per ciò che risguarda il senso della locuzione; ma per quanto s'attiene alla Filologia è da sapere che S'azautar, S'asautar in provenzale valgono piacersi, compiacersi. Laonde Albertetto:

Sapchatz de lieys me sui mont asautat. Sappiate che di lei mi son molto esaltato. cioè, compiaciuto.

Arnaldo di Marviglia:

Per c'om no us veí qui no s'azaut de vos. Perchè uom non vi vede, che non s'esalti di voi. Il Boiardo, Lib. III, C. IX, 13: Nè di cosa ch'io tenga più m'esalto.

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Il prelodato filologo dice, che da asautar tengono ancor viva la voce asaltare, nella detta accettazione, i contadini della sua terra. Ci pare che queste voci derivate fossero dal lat. exuliare. I Napoletani dicono anche, zumpare de l'alsautare per dar segni d'una letizia gelegrezza, e i Calabresi hanno la voce stiente, d'esultanza. Altra ragione, per quanto ne pare, ci ha, onde abbiasi a rifiutare la lezione n'esalto; ed è, che il pronome ne renderebbe oziose le parole. di vederli, che trovansi nella stessa sentenza. Le seguenti parole di G. B. Niccolini chiariranno l'intelligenza di questo luogo, e l' effetto poetico ricondurranno alle supreme ragioni dell' arte: Il sublime desterà nella mente molte idee, indelebili ricordanze. . . . allor nasceranno in noi gagliarde passioni, ci avvezzeremo coll'artista e col poeta a salir seco per entro le cose eroiche: noi non sarem persuasi ma rapiti; e l'animo quasi da se medesimo riconoscesse quello che ascoltò e vide, s'empierà di una gioia superba. Tutti naturalmente per fuggire il sospetto di viltà siam vaghi della grandezza; ma in faccia alle opere degli artisti e degli scrittori che aggiunsero al sublime, noi sentiremo ciò che l' Alighieri alla vista degli spiriti magni significò con quel verso:

...

Che di vedergli in me stesso m' esalto. Qual uomo in mezzo a Catone ed a Bruto oserebbe esser vile? (a)

(a) Del sublime e di Michelangiolo. Discorso detto. . . . l'anno 1825.

Io vidi Elettra con molti compagni,
Tra' quai conobbi ed Ettore, ed Enea,
Cesare armato con gli occhi grifagni.

123. È vero che per Svetonio fu scritto di G. Cesare, avere avuto egli occhi negri e vivaci, indizio d'anima penetrante ed energica: nigris vegetisque oculis. Il nostro Poeta, giusto ammiratore delle nobili qualità di quel grande, pone nelle fauci di Lucifero, in compagnia di Giuda, Bruto e Cassio che lo pugnalarono nella Curia. Ciò fa non perchè gli

fosse mai dimorato nell' animo l'amore del dispotismo; ma o perchè di quel tempo i Romani, vivendo in una repubblica estremamente corrotta, abbisognavano d'un uomo qual'era Cesare, o perchè l'impero romano era mezzo providenziale al governo del mondo e all'utopia dantesca d' una monarchia universa le. Egli caccia il secondo Bruto nel più basso fondo infernale, e Cicerone con molti antichi l'avrebbero ripreso; non è chi poi nol lodi d'aver messo tra gli spiriti magni l'altro Bruto che scacciò Tarquinio; con che ebbe solennemente protestato contra ogni maniera di tirannia. Cesare armato. Ma perchè armato negli Elisi?

Furono anche gloriosi in arme ed Ettore ed Enea, ec. ma il gran Dittatore, nella cui vita privata poco fu che potesse lodarsi, apparve miracolo di senno e di valore o che menasse contro i barbari le sue legioni, o che le rivolgesse contro Pompeo. Armato adunque, perchè non fu propriamente, se non per la gloria delle militari imprese, che meritasse noverarsi fra quegli eroi. Era colà da duce non da borghese, con le divise di guerriero, non in vestimenta d'uom privato, buon soldato, più che buon cittadino.

Con gli occhi grifagni. Ecco un tratto che descriviamo dal Tesoro di Ser Brunetto: Sappiale che tutti gli uccelli feditori sono di tre maniere, cioè nidiaci, ramaci e grifagni. Il nidiace è quello che l'uomo cava di nido..... Ramace (a) è quello che già ha volato ed

(a) Provenz. ramage, epiteto distintivo d'uccello di rapina, quando non ancora vola all' aperto, ma tresca tra' rami.

ha preso alcuna preda. Grifagni sono quelli che son presi all'entrata di verno, e che sono mudati, e che hanno gli occhi rossi come fuoco...

Gli son dunque occhi da sparviero, uccello che vive rapinando, e quelli gira sugli uccelli minori, siccome fece Giulio; il quale conobbe il tempo che gli venisse opportuno d' usurpare le abusate libertà di Roma, e porre sulle rovine del Comune la mala pianta del cesarismo. Dante per altro non potea nel secolo in cui visse sgombrare interamente l'animo da taluni pregiudizi ingenerati dal prestigio dell' autorità; nè scuoter dal suo abito la polveruzza della cortigianeria appiccicataglisi nell'assidua dimestichezza ch' ei tenne con Virgilio poeta cesareo: il quale celebra l'apoteosi del domator de' Galli, lo leva a cielo fra gli Dei, e scrive (Ecl.V) che ne rimpiansero la morte crudele fin gli affricani leoni. Dipoi nel suo più ripulito lavoro la dà a bere ad Augusto e suoi, che come il gran Giulio passava di questa vita, il sole s'ecclissò, l'Etna rovesciossi ondeggiante, vomitando per gli spaccati cammini sassi inceneriti e globi di fiamme devastatrici; tremarono le Alpi d'insolite scosse; la Germania udì per l'aria strepiti d'armi; i simulacri di bronzo stillaron sudore; furon veduti pallidi spettri in vagando all'imbrunir della sera ec. (Georg. I, 466 a 492) e la natura per'sì strani prodigi minacciare il finimondo; sicchè ai creduli cristiani non si conta che avvenisse in morte di Gesù pur la decima parte di quegli orrori. Del resto Tito Livio, ci dice che: Imperii corpus... haud dubio nunquam coire et consentire potuisset, nisi unius praesidis nutu, quasi anima et mente regeretur. Tacito (Ann. Lib. 2): Non aliud discordantis patriae remedium fuisse, quam ab uno regeretur. Lo stesso Montesquieu credeva che: Se Cesare e Pompeo avessero pensato come Catone, altri pensato avrebbero come Cesare e Pompeo. Veramente Cesare sarebbesi meritata più alta gloria, se tutto il

Vidi Camilla, e la Pentesilea

Dall'altra parte, e vidi 'l re Latino,
Che con Lavinia sua figlia sedea.
Vidi quel Bruto, che cacciò Tarquino;
Lucrezia, Iulia, Marzia e Corniglia,
E solo in parte vidi 'l Saladino.
Poichè innalzai un poco più le ciglia,
Vidi 'l Maestro di color che sanno,
Seder tra filosofica famiglia.

Tutti l'ammiran, tutti onor gli fanno.
Quivi vid' io e Socrate e Platone,

Che 'nnanzi agli altri più presso gli stanno,
Democrito, che 'l mondo a caso pone,
Diogenes, Anassagora e Tale,
Empedocles, Eraclito e Zenone :

suo grande ingegno posto avesse a ri-
comporre gli ordini del comune (a); on-
de della morte di lui Cicerone scrivendo
a Bruto (Epist. 16): Magna pestis erat
depulsa per vos, magna populi romani
macula deleta, vobis vero parla divina
gloria. Marco Tullio avrebbe mandato
Cassio e Bruto agli Elisi, e dannato Ce-
sare a starsi fitto tra le ganasce di Luci-
fero, ed abbracciato collo Scariota scon-
tare in eterna pena le arti volpine, onde
s'era levato a tiranno della repubblica e
parricida.

Dante avea letto nel Tesoro del Latini

che questi sparvieri dagli occhi grifagni: non vivono a mano d'uomo più che cinque anni. Or chi potrebbe dir certo che il nostro Alighieri, il quale d' ogni cosa teneva conto nel suo Poema e tutto guardava per sottile, non avesse in quest'immagine di Cesare voluto ombreggiare la corta durata, dal momento che spiegò istinto di sparviero sul Rubicone, fino allo sterminio di Pompeo, alla rovina della repubblica e alla sua caduta negl'idi fatali? Codesti occhi grifagni ecc. hanno alcun' attinenza alle parole che perifrasano Giulio Cesare (Parad. XI, 69):

Colui che a tutto il mondo fe paura. 127. I Comentatori annotarono: Tarquino sincope in grazia della rima: ma in verso sciolto l'Alamanni:

Non fu colui che discacciò Tarquino. (a) Verri, Nott. rom., Cic. ec.

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e questo può essere imitazione da Dante; ma, quel che più è, anche in prosa ci sono mille esempi,ne'quali questa voce s'è bene adoperata. G. Vill.Lib.I, Cap.28 (Fir. 1587): Appresso lui regnò Prisco Tarquino 37 anni... Appresso regnò il settimo re de' Romani Tarquino Superbo... E cacciaro il re Tarquino. E così in altre scritture antiche. Tarquinius e Tarquinus il latino, come Lavinium e Lavinum. Onde il nostro Poeta, Purg. XVII, 37:

Ancisa t'hai per non perder Lavina. Lavina per Lavinia, come lo stesso G. Villani, il Malespini ed altri. Dei nomi e degli aggettivi finiti in nio si usò in antico lasciar fuori l' i, e in luogo, p.e. di patrimonio, Demonio, dominio, esterminio, scrutinio, squittinio, Cillenio, Mediterranio (b), estranio, subitanio,supervacanio,momentanio, coetanio ec. si pronunziò e scrisse patrimono, Demono, domino, squillino, Cilleno, Mediterrano, estrano, subitano ec. per la qual cosa, Purg. III, 1:

Avvegnacchè la subitana fuga ec. poterono ben per regola troncarsi in paAlla qual desinenza ridotte coteste voci, trimon, Demon, domin, estermin ec. come ne fan fede, i molti esempi che incontra leggere negli scrittori di somma autorità, e de' quali ci passiamo.

(b) Mediterranio primitivamente Mediterraneo mutata l'e in i. Dicasi il simile di subitanio, supervacanio, momentanio, coetanio ec.

E vidil buono accoglitor del quale,
Dioscoride dico; e vidi Orfeo,
Tullio, e Livio, e Seneca morale;
Euclide geometra e Tolommeo,
Ippocrate, Avicenna e Galieno,
Averrois, che 'l gran comento feo.
Io non posso ritrar di tutti appieno,
Perocchè si mi caccia 'l lungo tema,

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Che molte volte al fatto il dir vien meno.

La sesta compagnia in duo si scema:

Per altra via mi mena 1 savio Duca Fuor della queta nell' aura che trema: E vengo in parte, ove non è che luca.

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Così discesi del cerchio primaio

Giù nel secondo, che men luogo cinghia, E tanto più dolor, che pugne a guaio.

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1. Primaio, primo. Anche, Purg. IX,94. Là ne venimmo; e lo scaglion primaio ec. (V. Purg. XXIX, 145). E perchè non sia chi pensi, la rima aver fatto forza al Poeta d'usar questa voce, rechiamo qualch'esempio di prosa scritta ne' primi secoli della lingua. Lib. di Cato, lib. IV: Dopo molto tempo non dannare mai il tuo amico; perchè (benchè) abbia mutato costumi, ricorditi de' servigi primai, cioè, primieri, primi. Bono Giamboni, Volgarizz. Paol. Oros. Lib. II, cap. XI: Perchè dopo la divisa preda, l'oro di quelli di Persia fue il primaio corrompimento della virtù di quelli di Grecia. Idem, Intr. alla Virtù, Cap. VII: Pensa d' Abel, che fu il primaio giusto nel mondo. Idem, Volg. di Vegez. Lib. II, cap. XVI: Coloro, che dinanzi e d'intorno dalle insegne e colla primaia schiera combattono, sono principi appellati. Questi... hanno... e scudo e spada e piombatura, la quale nel primaio colpo si gilla ec.

Primaio è da primarius, primario: così da librarius, notarius, denarius, corium ec. si fece libraio, notaio, danaio, cuoio cc. e libraro, nolaro, da

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naro, corio ec. Talvolta fu più a grado volgere simili nomi in aro; onde Dante stesso scrisse varo (Inf. IX, 113) per vario da varius; avversaro (Purg. VIII, 95) per avversario, da adversarius; contraro (Purg. XI, 20) per contrario da contrarius; ec. Così ancora abbiamo massaio, marinaio, calamaio, fornaio e simili, fatti da massarius, marinarius, calamarius, furnarius ec. usati, non improbabilmente nella bassa latinità; e che non di rado si pronunziano tra il popolo: massaro, marinaro, calamaro, fornaro ec. come tra i politi dicitori. Cui dunque, putisse il primaio di Dante, avrebbe un bel fare, leggendo un gran numero di scritture approvate, ad ausarsi alla muffa di questo, e di tanti altri vieti vocaboli, onde quelle sono sparse. Un frate (sendo io bibliotecario della Brancacciana) avendomi dimandato un libro, dove fosse scritto alcuna cosa della vita di S. M. Maddalena; ebbe da me il Padre Cavalca. Non guari dopo mi riportò il libro, dicendo che di quella lingua barbara nulla avea potuto intendere. Quanto è vero: Nolite ponere margaritas ec.

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