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I' levai gli occhi, e credetti vedere
Lucifero com' io l' avea lasciato,
E vidili le gambe in su tenere:

88. I' LEVAI GLI OCCHI. Ancorchè Lucifero non guizzava fuori del sasso, che con le sole gambe e per una quarta parte incirca dello smisurato corpo; era pur

o accennandogli il varco periglioso e l'ardua scala, ond' era stato lor conveniente con molta accortezza e cautela salire. Così passo avrebbesi qui a prendere per luogo onde uno è passato; e la frase porgere a uno il passo varrebbe mostrarglielo e metterglielo quasi sott' occhio. Altri pensa che porgere il passo ad uno non altro possa in nostra lingua significare, salvo che lasciargli libero il passo, o, con ardito traslato, indicargli il passo che sia da fare, non mica il già fatto. L'interpretazione dell' Imolese: prudenter venit et sedit juxta me, era dapprima piaciuta al Parenti: Porse l'accorto passo appresso a me; poi non credette che la si potesse sostenere a fronte di quella che, levando via ogni trasposizione, è identica con l'altra da noi prescelta. S'incontra già nello stesso Dante le frasi Porgere parole, per volgerle, o semplicemente parlare; Porgere la morte, per darla, o semplicemente uccidere; Porgere gli occhi, per drizzarli, o semplicemente guardare: così Porgere il passo, per muoverlo, o semplicemente passare. Il Bianchi poi scrive: «< Sono d'opinione che il verbo porgere sia qui usato nel senso di mostrare, far vedere. E difatti, dopo che Virgilio lo ebbe chiamato a considerare l'accorto passo lungo il corpo smisurato di Lucifero, Dante alza gli occhi, e conosce un inganno in cui era ».- Ma se Dante alza gli occhi (v. 88) vedrà egli ben le gambe di Lucifero, pe' quali non si monta, l'accorto passo non già; chè gli sarebbe stato necessario abbassarli, non mica levarli, come dice aver fatto. Dippiù il Poeta leva gli occhi non per quel che ci dice il Bianchi, si per quello che testè (v.81) ci avea detto egli stesso:

Si che in inferno i' credea tornar anche. Non guarda dunque il passo già fatto, ma leva gli occhi su, credendo rivedere la testa trifronte del mostro infernale; e, viste le gambe ove tenea che fosse il capo di Lucifero, entra in nuovi e travagliosi pensieri. A questo fare non reputiamo che necessarie fossero le parole di Virgilio, tranne che Dante non fosse uno smemorato. Se il passo di cui si parla in questo luogo non fosse un di quelli che fa chi cammina; noi lasceremmo Virgilio arrampicato ancora ai velli di Satana. Il diligente Poeta avrebbe mancato di far pago il nostro desiderio, che ci nasce spontaneo nell' animo, di saper cioè come il Savio Duca, che si era volto nel centro con tanta fatica ed angoscia, si fosse poi spiccato dal pelo del vermo reo, volgendosi a porre i piedi a salvo sull'orlo del duro sasso; dove, chi ben consideri, non pare che ad altro fine abbia per un istante posto il suo alunno a sedere.

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questa tale un' altezza, che Dante dovea necessariamente levar gli occhi ad aggiungerne la sommità. Tanto Satana sovrastava con gli stinchi fuori la buca del sasso; quanto col petto e con la testa era sopra la Giudecca: dove ricordiamo che al Poeta fu già detto dal suo Duca (v. 61):

Quell' anima lassù che ha maggior pena ec. S'imagini sempre Lucifero tanto grande, che da ogni lato sovrasta al riguardante come montagna. Tomm.

90. VIDILI LE GAMBE IN SU ec. A cagione del centro dove è posto Lucifero, tutte le parti del suo corpo immane gravitano sopra lui stesso. Così quella rea natura spirituale è costretta da tutt'i pesi del mondo; e tutt' intera la natura materiale concorre con ogni suo atomo ad oppressare quello spirito superbo e ribelle.

LE GAMBE IN SU. Quando Dante ebbe tutto veduto (v. 69), gli fu dato guardare questa scherne vole postura, la quale mostra la sconfitta, la depressione e l'avvilimento della prima Superbia. Diremmo di Satana ciò che il Poeta (Pur. XII, 62 seg.) disse d' Ilion superbo :

Come te basso e vile

Mostrava il segno che li si discerne! Finchè il Poeta si versò nell' Inferno, Satana gli apparve nella sua orrida ma imperiale maestà.

Solo chi si parte da superbia può di questa aver disdegno. Ai malvagi non appaiono i vizi in tutta la loro vile deformità. Il Poeta fin qui s'imagina entrato nel pieno acquisto delle virtù intellettuali (a).

(a) Secondo la scienza de' Mistici, nella quale Dante fu sommo, l' uomo si fa nell'Inferno (come via purgativa prima del penitente contemplativo) amico dell' anima sua. S. Bernardo nel Libro delle sentenze scrive: Horret ergo Infernum, Coelum concupiscit... ut, scilicet expavesceret gehennam, ac coelestia desideraret... Spiritus quippe Sapientiae, ubicumque praesens, novit quid in Coelo et quid agatur in Inferno; cumque mentem humanam repleverit, et de poenis Inferni incutit timorem, et coelestium amorem infundit.

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E s'io divenni allora travagliato,

La gente grossa il pensi, che non vede Qual era 'l punto ch' io avea passato. Levati su, disse 'l Maestro, in piede: La via è lunga, e 'l cammino è malvagio, E già il Sole a mezza terza riede.

91. TRAVAGLIATO: Confuso. Bianchi. TRAVAGLIATO di dubbio. Tomm. Tormentato, afflitto. Blanc.-Nulla travaglia la mente più che la contrarietà della ragione. Dante sa che discende, e crede bene dover egli alla fine vedere i piedi di Lucifero ; ma dal momento che sale, ha per fermo ch'è per rivederlo di su come l'avea lasciato, e nondimeno gli appaiono le zanche. Dice così: se discendendo si trova i piedi, e salendo mi riapparirà il capo: or come mai accader puote il contrario? Che mai sarà egli cotesto salire per lo qual si discende, cotesto discendere che si fa salendo? Al turbamento razionale si aggiunse il morale doppia tortura della mente e del cuore; chè egli non sa come spiegarsi quel fatto, e dubita che possa addivenirgliene.

92. LA GENTE GROSSA: gl' idioti non si distrigherebbero da questo laberinto; non s'intendendo mica delle leggi che governano il mondo, e nemmanco vedendo che il fatto, del quale io m' era confuso, dipendeva dalla forza centripeta, a cui la novità della cosa, e il non sapere dove proprio io mi fossi, non mi aveano in allora fatto por mente. Il Poeta finge ch' era come un di cotestoro, prima che il suo Maestro non gli avesse soluto quel dubbio. — GROSSA: grossolana, rozza, ignorante, inetta ad intendere. Purg. XI, 93: etati grosse; Par. I, 88 seg.:

Tu stesso ti fai grosso
Col falso immaginar, si che non vedi
Ciò che vedresti, se l'avessi scosso.
Par. XIX, 85:

O terreni animali, o menti grosse ! (a). (a) Nella Vita Nuova: E la cagione, perchè alquanti grossi ebber fama di saper dire, è, che quasi furon primi in lingua di St-Ed acciocchè non ne pigli alcuna baldanza persona grossa, dico che ecc. Nel Convito: Aristotile credette, seguitando solamente l'antica grossezza degli Astrologi, che fossero pure otto Cieli ecc.

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93. PUNTO: centro della terra.Var. Qual' è quel punto è lezione di molti codici preziosi ; non però, forse, preferibile alla comune da noi prescelta.

94. LEVATI SU ecc. Così altrove (Inf. XXIV, 52): Leva su ecc. dice al Poeta il suo Duca, opportunamente chiamato Maestro. La Sibilla (Æn. VI, 628 seq.) ad Enea:

Adceleremus, ait; etc. Sed iam age, carpe viam, et susceptum perfice (munus;

95. LA VIA È LUNGA, quanto il semidiametro della Terra. S. Bernardo al Pellegrino che, come fece Dante, riposa sul Colle, dice: Longa futura est via tua; et si grandis tibi restat via, cur hoc timeas cui fortis cibus datur, ne deficere possis in via ? È come dirgli (Inf. IV, 22):

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Andiam; che la via lunga ne sospigne. IL CAMMINO È MALVAGIO: malo, disastroso, incomodo, disagevole. I Poeti sono sul punto di mettersi per lo Cammino ascoso descritto appresso (vv.127132). Vedi Inf. XXIV, 61-63. È qui notevole la differenza fatta tra le voci via, ch' è, in genere, luogo per cui si va, e cammino, ch'è l' andare stesso, secondo che Dante dice (Inf. 1, 35) :

Anzi impediva tanto il mio cammino ec. Pure cammino per via è al v. 133 di questo canto, al 142 del II, e in molti altri luoghi. L'un per l' altro s'adoperano i due vocaboli nella nostra lingua, come via ed iter nella latina..

96. È GIÀ IL SOLE ec. In sent.: Nonchè il cammino lungo e malagevole (v. 95), ma il tempo che ci stringe, vuol che presto ci mettiamo alla via.

A MEZZA TERZA Riede: è un'ora e mezzo dal Sol già nalo. A Dante parea che a quel passaggio fosser dovute impiegarsi poche ore. Risurgeva la nolle (v. 68) quando s'avvinghiò al collo del Mae

Non era camminata di palagio

Là 'v' eravam; ma natural burella
Ch' avea mal suolo, e di lume disagio.

stro; ora che assiso sul foro del sasso
ode dirglisi :

... il Sole a mezza terza riede, si maraviglia come mai potessero scorrere le 12 ore della notte (era l'equinozio di primavera) con dippiù il tempo della mezza terza, prima ch' egli si trovi in quel luogo. Veramente i Poeti avean posta un'ora e mezzo (a) a quel passo.

(a) L'illustre Fm. Conte Torricelli vi assegna il tempo di ben quattr' ore e mezza (Studi sul Dante, Vol. II. Tempo del Poema, pag.313, 348). Avea egli (ivi p. 309) ben fatto notare la partizione del giorno sacro in Terza, Sesta, Nona, e Vespro per le ore diurne, e nelle quattro Vigilie per le notturne; considerando poi,

forse, che non solo i chiesastici, ma lo stesso Dante danno il nome di Prima a una parte del di, e che della voce Vespro egualmente dall'uno, come dagli altri, si fa menzione; credette la

ben fatto alle tre ore di Prima aggiugner

mezza terza, cioè un' ora e mezzo della seconda parte del giorno, e comporre le quattro ore e mezzo da lui calcolate. Ecco le parole di Dante: E da sapere che ORs per due modi si prende dagli Astrologi: l'uno si è, che del di e la notte fanno ventiquattr' ore, cioè dodici del di, e dodici della notte, quanto che il di sia grande, o piccolo. E queste ore si fanno picciole, e grandi nel dì e nella notte, secondo che 'l d, e la notte cresce, e scema. E queste ore usa la Chiesa, quando dice Prima, Terza, Sesta, e Nona; e chiamansi così ore temporali. L'altro modo si è, che facendo del di, e della notte venti quattr' ore, talvolta ha il di le quindici, e la notte le nove; e talvolta ha la notte le sedici, e'l di le otto, secondochè cresce, e scema il di, e la notte: e chiamansi ore eguali: e nello equinozio sempre queste, e quelle che temporali si chiamano, sono una cosa; perocchè essendo il dr uguale della notte,conviene così avvenire. (Convito, Ediz. Zatta, pag. 130).

Ma al sommo Fossombronese, che nel sacro Poema pose fruttuosamente il lungo studio di cinquant'anni, non possiamo in questa parte assentire; dovendo anzi tenere con lo stesso Dante, le cui parole qui addurremo tanto più volentieri, per quanto elle varranno a dileguare ogni dubbio che possa quindinnanzi insorgere su questa materia, e a far tenere come esattissimo il nostro calcolo, ch'è quello seguito dal Bianchi e dal Tommaseo: La Chiesa usa nella distinzione delle ore del di temporali, che sono in ciascun di dodici, o grandi o piccole, secondo la quantità del Sole: e perocchè la sesta ora, cioè il mezzo dì, è la più nobile di tutto il d, e la più virtuosa; li suoi ufficii appressa quivi da ogni parte, cioè di prima, e di poi quanto puote; e però l' ufficio della prima parte del di, cioè la terza, si dice in fine di quella: e

Dante ne muove dubbio a Virgilio (vv. 104-105), e questi gliel risolve (v. 118) in un motto.

97-99. NON ERA CAMMINATA ecc. Del Cammino ascoso, descritto ne'versi 126132, qui è accennato l' andilo, l'androne, l'entrata. Dall' orrore di questa ci è dato arguire qual dovess' essere il luogo, per lo quale si furon messi i Poeti ; siccome, e contra, dal sontuoso vestibolo d' un palagio si può esser certo della magnificenza di quello.

CAMMINATA. « Caminate in Lombardia son chiamate le sale. Adunque non era sala da palagio; perchè le sale sogliono esser piane e luminose, e quella via era oscura e disuguale ». Land.

Caminata è sala ampla, luminosa e piana anche al Vellutello e ad altri, i quali confondono il cammino col luogo che a quello dà ingresso; il che preclude la via alla retta intelligenza di questo passo. Di una camminata da palagio nemmanco ben direbbesi, in cotal sentimento, ch' ella avesse buon suolo. Se, giusta il Bianchi, « Camminata dicevasi anticamente la gran sala nei palazzi, nella quale si passeggiava e si facevano altri esercizi », non è difficile il comprendere che in questo luogo il Poeta dà al vocabolo un senso più lato, che abbraccia sì le camminate da palagio, come le altre, che menar possono eziandio ai tu

quello della terza parte, e della quarta, și dice nelli principi, e però si dice mezza terza, prima che suoni per quella parte: e mezza nona, poichè per quella parte è sonato: e così mezzo Vespro. E però sappia ciascuno, che nella diritta nona sempre dee sonare nel cominciamento della settima ora del dì. (Convito pag. 216, Ediz. Zatta).

E qui ci piace far osservare che L'ora del tempo, di cui altrove (Inf. I, 43) fa uso il Poeta, altra non può essere che una delle ore temporali, e segnatamente la sesta; la quale, sendo come egli la qualifica, delle altre la più nobile e virtuosa, vi è fissata come il punto di tempo, in cui gli apparve Virgilio speditogli in aiuto dalla Beatrice. Il che valga e ad intendere pienamente un' espressione di Dante, e a convincersi sempreppiù, ch' egli nel suo Poema partisce il tempo secondo il rito de' giorni sacri. Vedi v. 68, not. (a).

Prima ch' io dell' Abisso mi divella,

gurii. Quantunque molti esempi v' abbia de' significati di sala, loggia, corri toio ec. dati a questa voce; nulla osta all' interpretazione per noi già fatta.

98. NATURAL BURELLA: Burone o vo

gliamo dir antro, grotta, caverna et spelonca non fatta ad arte, come da pastori o da quelli che stanno a l'heremo, o da alcuna fiera, ma naturale. Vellut. - BURELLA è per C. Landino un luogo stretto e buio. - Buro per Buio, come paro per paio, danaro per danaio, fu in uso appresso gli antichi. Il Nostro usò fuio per furo (Vedi Inf. XII, 90, not.). Buri ha l' Ottimo in sentimento di prigioni; che in gergo chiamavansi le buiose. Burella anc' oggi in Firenze la via presso il Palazzo degli Otto, dove erano, e sono le carceri. Burella par dunque certo significare un carcere stretto e tenebroso, una segrela (Inf. XII, 10). Cieco carcere è detto l' Inferno (Inf. X, 59; Purg. XXII, 103): la BURELLA è quasi la prigione che Lucifero, fitto nel centro della Terra, scavò a sè medesimo, dopo la sua ruina forte spingando con le zanche, per eterno e disperato do

lore.

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94); ed egli stesso è forzato a toccare il luogo orribile in cui era venuto (vv. 9799), innanzi che gli appalesi. Omai ne scoppia se non se ne spiega: e con lo stess' ordine che gli ebbe nella mente adunati ei li propone, e gli è data risposta. Perciocchè dapprima egli dice (v.81):

1o.... in Inferno i' credea tornar anche. ed ora dimanda :

Ov'è la ghiaccia ? 2o Poco dipoi (vv. 88-90):

credetti vedere

Lucifero com' io l' avea lasciato,
E vidili le gambe in su tenere.

ed ora :
Questi com'è fitto si sottosopra?
3° Ultimamente dal Maestro (v. 96) gli è
detto:

ed egli :

E già il Sole a mezza terza riede.

e come in sì poc' ora

Da sera a mane ha fatto il Sol tragitto ?

L'artifizio onde si fanno cotali proposte è sommo, quanto spontaneo e naturale ci appare lo sviluppo de' sentimenti nella forma inarrivabile della favella dantesca. E Virgilio risponde (106-126) magistralmente; chiarendo un sol punto che dilegua ogni nebbia, e disvelando insieme da cima a fondo la machina maleriale dell'intero Poema, nella posizione de' luoghi, pe' quali va compiuto quell'alto viaggio.

100. ABISSO. Benchè questo nome si applichi talvolta a tutto l'Inferno (a); è qui con molta proprietà, nel senso biblico, detto del luogo ove fu confinato Lucifero (b): perciocchè, stando in sulla forza della parola, può eziandio ben dirsi che quel mostro di superbia, sebbene fosse (Par. XXIX, 57):

Da tutti i pesi del mondo costretto ; stia egli pure sepolto nel profondo bara

(a) « Abyssus est inestimabilis aquarum profunditas (S. Aug. lib. 22, contra Faustum)... » tamen abyssus significat infernum, tum quia infernus est quasi mare, cui damnati immerguncarceris profundissimi et tenebricosissimi; tum tur, estque profundissimus instar putei, sive quia ipse est profundum Dei iudicium, id est supplicium, quod Deus iuste de damnatis sumit ». A-Lapide, Comment. in Apoc., Cap. IX, 1. Inf. IV, 8, 24; XI, 5, Purg. I, 46).

(b) Apoc. Cap. XI, 7; XVIII, 8; XX. 1 seq.

Maestro mio, diss' io quando fui dritto,
A trarmi d' erro un poco mi favella.
Ov'è la ghiaccia? e questi com'è fitto

Si sottosopra? e come in sì poc' ora
Da sera a mane ha fatto il Sol tragitto?

tro, sottoposto all'immensurabile oceano
dell' emisfero australe. Di Faraone, che
simboleggia il despota dell' Inferno, co-
sì in Ezechiele (XXXI, 15): In die
quando descendit ad inferos... ope-
rui eum abysso, et prohibui flumina e-
ius, et coercui aquas mullas etc.

101. MI DIVELLA: mi diparta. Divellere dice nondimeno qualcosa dippiù che dipartirsi; poichè significando nel senso proprio dibarbicare, sradicare ecc.,

nel traslato dee valere torsi via d'un luogo, spiccarsene a gran fatica: il che qui è inteso opportunamente, e bene riferibile alle parole Virgiliane (En. VI, 128 seq.): superasque evadere ad auras.. hic labor est. (V. v. 84, not.).

DRITTO levato su in piede (v. 94). Dritto levato o levato dritto in piè (Inf. IV, 5; Purg. XXXIII, 8).

102. ERRO errore. Come da major, maggiore e maggio; da dolor, dolore e duolo così da error fu detto errore ed erro. Vedi anche Inf. XVII, 64; XXI, 45; XXIII, 64-66, not.

UN POCO MI FAVELLA: dimmi un po'.

UN POCO Prima ch' io dell' abisso mi divella (v. 100). UN POCO, per ciò ch'è detto ne' vv. 95 e 96.

103. Ov'È LA GHIACCIA? lo stagno ghiacciato di Cocito, nel cui mezzo, poco innanzi fu visto al Poeta che (v. 29 seq.):

Lo 'mperador del doloroso regno Da mezzo 'l petto uscia fuor della ghiaccia. Virgilio risponde co' versi 106-117. GHIACCIA. Vedi Inf. XXXII, 35, nota. 103-104. E QUESTI COM'È FITTO Sì sorTOSOPRA? A questa seconda dimanda Virgilio satisfa pe' vv. 119-120.

QUESTI. Non più lo chiama col maestoso nome d'imperadore (v. 29); poichè lo vede si sottosopra (v. 90), e gli è dappresso in sull' orlo del foro.

FITTO.. SOTTOSOPRA : capovolto; con

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ficcato, commesso nel fondo dell' Inferno, col capo in giù e i piedi in su. Di Nicola III è detto che ne' fori de' simoniaci il di su tenea di sotto (Inf. XIX), e che da più tempo eravi piantato così sottosopra.

104-105. E COME IN SÌ POC' ORA ecc. Risponde a questa dimanda il verso 118, ch'è in conseguenza di quanto è detto negli antecedenti, massime in quelli (110-111):

Quando mi volsi tu passasti il punto
Al qual si traggon d' ogni parte i pesi.
Poc' ORA: poco tempo. Purg. II, 93:

Ma a te come tant' ora è tolta?

Era l'equinozio di primavera. Da sera a mane dovean correre dodici ore: dippiù era già mezza terza, cioè un'ora e mezzo dal giorno fatto (v. 96). Or per quali tragetti (ci avvisa che dica il Nostro) è ito mai il Sole ad iscorciare tanto tempo del suo cammino? Questa interpretazione darebbe alle parole dantesche più di grazia e di vivacità, che non farebbe il negare l'identica significazione delle voci tragitto e tragetto, ch'è quella del lat. trames, come bene avea la Cru

sca avvisato. I vocabolisti e i letterai assegnano a codesto TRAGITTO qui il senso di trapasso, transito; vogliono che dir non si possa darla per tragitti, sì per tragetti. Ma può egli scompagnarsi dall'idea dello spazio il tempo che si misura? Quando l'una dizione non varia dall' altra che per la vocale i, nella quale si muta spessissimo la e; par troppa prosunzione colpire un vocabolo che in Dante ritiene tutta la forza e la bellezza della sua proprietà natìa; e, appellandosi alle leggi d' un uso indefinibile, condannarlo a starsi stretto tra le pastoie della pedanteria, col divieto di non poter nemmanco prestarsi a un traslato sì naturale, sì vago, sì proprio del genio Alligheriano. Vero è che anche il Vellutello chiosa DA SERA A MANE: da occidente ad oriente; e TRAGITTO spiega per tran

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