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gando che questo fu più potente di quel lo a privarlo della vita: il che per certo non imprime nell' anima quell' alta idea che ognuno s'aspetta del disperato dolor che il cor mi preme. Ma bene e fortemente l'imprimerà se si considera questo dolore, non come mezzo ad ucciderlo, ma come mezzo a farlo sopravvivere tre giorni alla morte de' cari suoi figli: essendo verità incontrastabile che nei forti caratteri una grande passione somministra forze quasi soprannaturali a poter resistere all' ultima dissoluzione dell'esistenza. Il che intese assai bene Torquato là dove disse:

Oh che sanguigna e spaziosa porta
Fa l'una e l'altra spada ovunque giugna
Nell'armi e nelle carni! e se la vita
Non esce, sdegno tienla al petto unita.
E là pure ove parlando di Sveno cantò:
La vita no, ma la virtù sostenta
Quel cadavero indomito e feroce.
E allo stesso effetto di valor disperato
conviene riferire quei versi :

Moriva Argante, e tal moria qual visse,
Minacciava morendo e non languia.

Dietro le quali osservazioni, tratte dal fondo vero della fisica e della morale ecco l'interpretazione, che dividendomi (a) da tutti gli espositori, (e credo di non ingannarmi) io do al verso in quistione: Poscia più che il dolor potè il digiuno.

Cioè dopo essere io sopravvissuto tre giorni ai miei figli, dopo averli per tutto quello spazio di tempo chiamati, barcolquello spazio di tempo chiamati, barcollando già cieco sovra i loro cadaveri, finalmente più che la forza del dolore e

(a) Il grand'uomo non si divideva da tutti gli espositori, ma piuttosto s'univa ai più reputati fra gli antichi. Il Buti, ad esempio, chiosa: Poscia lo digiuno finitte la mia vita, la quale conservava lo dolore; e così rende ragione che potette tanto vivere, e dice che ne fu cagione to dolore. Benvenuto da Imola: Ác si dicat quod fames prostravit eum, quem tantus dolor non potuerat interficere nec vincere. Nelle quali parole si adombra quella specie di combattimento tra il dolore e la fame. Il postillatore di un codice del secolo XIV che ha la lezione Poichè il dolor potè più ec. annota così questo passo: Quia dolor fecit eum vivere plusquam debuerit. Sicchè il concetto che il Monti fa suo, verrebbe anzi più chiaramente espresso dalla lettera ch' egli rifiuta. Ed anche il Guiniforti avea già intorno a quattro secoli prima del Monti fatta questa limpida sposizione: Poscia che così gli ebbi chiamati due di, alla fine dell'ottavo di il digiuno potè più ad uccidermi che il dolore a mantenermi in pianto: ond' io morii.

del furore a tenermi vivo, potè la forza della fame a darmi la morte.-Con questa interpretazione a me pare che il dolore di Ugolino acquisti una qualità di grandezza che la più non può darsi, e che salvi quel misero dalla taccia di esser morto più di fame che di dolore; mentre appunto, perchè fu immenso il suo dolore ed immensa la sua disperazione, potè in lui operarsi il prodigio di render vano per tre giorni l'effetto terribile della fame ».

Secondo altri la prevalenza del digiuno al duolo farebbe contro il disegno del Poeta. Questi mirò, dicono, a dipinger qui un nobil uomo, il quale prima per agonia di potenza fu traditore, indi dai suoi complici medesimi tradito e posto a crudissima morte. Brama d'impero, amor di padre, desio di vendetta sono le più gagliarde passioni che vanno messe in campo per dar colori spaventevoli ai tradimenti, alle smodate ambizioni e a qual si sia odio di parte. A lumeggiar le dava, non si potea di Ugolino fare nè un figure secondo che la gran tela domanpusillanime, nè una iena. In questa scena (dove, giusta l'avviso del Ch. Ab. Mirabelli, l'Alighieri ha dato un primo saggio dell' italiana tragedia) se il digiuno trionferà del dolore, se la fame ucciderà Ugolino; farem di lui un protagonista famelico che si muore nella brama del cibo negato, non mica un altero patrizio, e molto meno un eroe.

Ma quando le parole stesse di Conte Ugolino significano questa vittoria del digiuno sul dolore:

Poscia più che 'l dolor potè il digiuno potremo noi interpretarle altramente?

Marcantonio Parenti il primo sospettò (b) che questo verso, standovi la TMESI, costruir si dovesse: Poscia che il dolor potè più il digiuno. Il che porterebbe la sentenza: Morti che furono i miei figliuoli, io li chiamai per due dì; perciocchè il dolore sostenne più lungamente il digiuno. Il Ch. Oronzio Petitti in una eruditissima lettera a Fm. Torricelli (c) intende dimostrare non al

(b) Catalog. di spropos. con note di Emm. Rocco.

(c) Torricelli, Studii sul sacro poema di Dante Aligh., Vol. I, pag. 763, segg.

tra da questa dover essere l'interpretazione di questo luogo; poichè, dic'egli: Avremo queste ultime parole non dirette a fare di tal protagonista un debole o un vorator di cadaveri, ma sì a manifestare la naturale virtuosissima ca→ gione del sopravvivere di lui a quei miseri figliuoli. Esse ci daranno bello e nitido quel concetto, cui Vincenzo Monti ed altri solenni uomini volean trovare in questo luogo strascinando la menle del Sommo per viottole malagevoli e non sue. Gli allissimi ingegni non sogliono aver la pazienza di scendere a grammaticali riflessioni: onde spesso vediamo ch' egli aguzzano ben bene i loro ferri a disputare intorno alla materia, senza darsi molla briga di porre a minuto esame la forma cui quella deve tutta la sua chiarezza. Da ciò non di rado conseguita che i più splendidi passi di celeberrimi scrittori nelle loro mani divengano que' teatri diurni, ove i comici non lasciano pentrare la chioma di Apollo, per diffondervi essi la luce artifiziata che meglio convenga alle loro finzioni. Ma, con la buona pace del dotto filologo Napoletano, a noi non pare che la sposizione del Monti meno ingrandisca e nobiliti il dolore di Conte Ugolino; nè ci avvisa che punto trascini la mente del Poeta per vie malagevoli e non sue. Il Parenti e il Petitti con cotesta loro TMESI cercano cinque piedi al montone. Che ci abbia esempi di potere per sostenere nol neghiamo: che Dante qui l'usasse in tal sentimento nol crediamo. Nel passo del Boccaccio: Simil dolore non si sentì mai, a quello che io ho poscia portato che io ti perdei, la tmesi è patente; ma oltre che chiara si rende dalla stessa forma del costrutto, il poscia che non vi sta mica come particola causale, sì bene in significato di dopo che ec., conforme all' uso che le mille volte ne han fatto Dante e tutti gli scrittori di nostra lingua. L'argomento di analogia per fare un perchè d' un poscia che, per noi è più sottile che vero; nè concediamo all' Alighieri il dritto di coniare a sua posta vocaboli e maniere di lingua, e dar loro quel senso ed espressione che più gli aggradava: perciocchè abbiamo più volte notato co

me il Poeta fosse in ciò meno licenzioso che per altri non fu creduto. Egli si tenne stretto alle leggi di nostra favella, a nobilitar la quale gli bastò l'altissimo ingegno, senz' uopo di snaturare le voci ei modi, torcendone il senso da quello ch' era comunemente ricevuto. Male, se ad intendere ciò, che nella spontanea semplicità delle sue parole dir ci volle Ugolino, fosse mestieri delle tmesi e delle sottilità grammaticali schierate in campo dall' egregio Petitti; peggio poi se a queste si dovesse il vanto d'aver dopo cinque secoli levata una macchia al Febo delle italiche Muse. Dice questo dotto critico: «Se le voci estreme di Ugolino fossero Quantunque il mio dolore per la perdita de' figli miei sia stato eccessivo, pur nondimeno vi confesso che la fame valse più di quello ad uccidermi, come restereste voi? — Resteremmo trasecolati, rispondiamo, a vedere che un valoroso cultore della nostra favella frantenda qui egli stesso il nostro poeta: il quale non dice la fame, sì bene il digiuno avere in Ugolino potuto poscia più che il dolore; e fame non è punto da confondere con digiuno. Se il morir di digiuno scemasse la gloria del protagonista, non vedremmo in che modo eroi chiamar si potessero coloro, i quali dappoi che valorosamente ebbero pugnato, lasciarono pure alla fine la loro vita su' campi. Ugolino, secondo questa teoria, non avrebbe dovuto nemmanco memorare che per lui la torre de'Gualandi ha il titol della fame; nè più ad onore gli tornerebbe il dire che il dolore più potè il digiuno, di quel che alla fine potè farlo morire il digiuno, più che non avea fatto il dolore.

Noi già non crediamo che Dante intendesse far di quel Conte un eroe ; ma fosse pure, era egli necessario sottrarlo alla legge fatale dell' umana natura che abbisogna di nutrimento alla vita? Bello davvero che ove Dante ci pone innanzi lo spettro d' un uomo dannato a morir di fame, non possa egli per divieto dell'arte poetica fargli poi dire: Io era nel più crudele dolore; e vi sarei stato per tutta la vita, se il lungo digiuno non me l'avesse troncata; o che, a porre in salvo il decoro d'un cavaliere, abbia

dovuto aver tanti riguardi in sì picciola cosa, mentre poi tel pianta per traditore nella pozza d'Inferno, dove dice averlo veduto qual sozzo cane sbramare l'eterna fame in quel fiero pasto.

Finalmente, Ugolino avea promesso di dire come la morte sua fu cruda; e non che a cagion dell' eccessivo dolore foss' egli rimasto due o tre dì superstite ai suoi figliuoli: ed egli osserva fedelmente la sua promessa, narrando non già la morte, che accade in un punto indivisibile, ma la vita onde quella prende sua qualità. Così, avendo egli patito dolore che vinse lo stimolo della fame, non potè per digiuno finire che nel dolore; e la morte non gli sottrasse un solo attimo della vita alla violenza di quel duro martirio. Proferisce da ultimo la voce digiuno, quasi per attenuarne l' idea, e far sovr' essa giganteggiare il sentimento del suo duolo. Quest' ultimo verso magnifica, per una di quelle circollocuzioni di cui Dante fu sì gran maestro, il concetto Poscia morii, a scioglimento della promessa. Ed è notabile che nel primo emistichio:

Poscia più che 'l dolor

si sente come un suono romoroso dell'ira, e quella virtù che diè lena al padre di chiamar mentre visse i figliuoli: nel secondo

potè il digiuno.

s'ode quel tono cupo che ti ritrae il lungo gemito e quella muta finale desolazione, in cui la forza del dolore svanisce, come favilla che più divampi poco innanzi che non si spenga.

Il padre Cesari non rifina d' innalzare al possibile questo canto dell' Ugolino; ma fa così entrare a ragionamento il Rosa Morando: «Questo e quell'altro luogo di Francesca d' Arimini sono i soli levati a cielo di questo poeta; quando egli ne ha troppi altri, de' quali nessuno ha parlato mai, e forse nè eziandio letti; ma che tuttavia non cedono a questi, e forse (chi ben la pensa) vantaggiano in artifizio, lavoro poetico, eleganza e forza di avvivato e caldo parlare. La morte di Ugolino è tanto pietosa per se medesima, che senza aiuto d'arte nè valor poetico a tutti cava le lagrime, e commoverebbe ogni lettore eziandio rozzo e villano, a

descriverla anche in prosa spoglia d'eleganza e bellezza: sicchè il pregio e l'eccellenza di quella pittura dipende forse dalla naturale pietà destata da quelle misere e tenere circostanze, più che dall'ingegno e valor del Poeta; comechè anche questo ivi si paia con molta evidenza. Laddove più altre pitture del poema di Dante, non sono per altro maravigliose, che per l' artifizio, per l' invenzione e per que' lumi di colore, e per quel caldo poetico onde le ha fiorite e animate. L'inflessibile orgoglio di Capaneo sotto la pioggia del fuoco che nol matura; l'altezza del suo parlare, la foga del suo scagliarsi contro di Giove, insultandolo quasi come debole a vendicarsi; non ha bellezza al mondo che la vinca, e forse nè eziandio che la uguagli: la venuta dell' Angelo per la palude, e l'imperioso atto dell' aprire la porta della città di Dite, e le forti e veementi parole che i demonj attutirono ed atterrarono; è un gioiello d'inestimabil valuta: la ruota che fanno i tre con Ser Brunetto, parlando a Dante tuttavia volgendosi attorno, e le parole da loro dette: la pegola, e' demonj che co' farconi arroncigliano i peccatori; e quivi medesimo la beffa lor fatta dal Novarese, per cavarsi loro di mano: e la pittura di Bertran dal Bornio portante la propria testa, e (forse di tutte la più magnifica ) la trasformazion d' uomo in serpente ed e contrario (Canto XXV), e più altre che già vedemmo, sono capolavori d'ingegno e di arte squisita, sia quanto a'concetti, sia al numero, ovvero all' artifizio, eleganza, eloquenza, forza, dolcezza. E questo dico del solo Inferno: che nel Purgatorio e nel Paradiso, v' ha de❜luoghi mirabili di bellezza; come la descrizione del paradiso terrestre; la discesa di Beatrice; i rimproveri da lei fatti a Dante, e mille altre lautezze e ghiottornie, nelle quali ad ogni piè sospinto si abbatte il lettore: le quali tutte cose trovò, dipinse, abbellì con maravigliosa opera il solo ingegno, la fantasia, la lingua e 'l poetico valore di Dante ».

Posta pure come innegabile la fecondità dell'ingegno Dantesco, e il fino magistero dell' arte in questi altri luoghi del suo poema, sarebbe da cercar la ra

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Quand' ebbe detto ciò, con gli occhi torti
Riprese 'l teschio misero co' denti,
Che furo all' osso, come d'un can, forti.

gione, onde agli episodi della Francesca e del Conte Ugolino sia quasi da tutti e sempre data la preminenza. Scendere sino al volgo e mantenervisi per molli secoli è il più sicuro indizio di un merito superiore. Ma nessuno scende sino al volgo senza perdere una parte della sua personalità, essendo il giudizio del volgo, cioè il giudizio de' secoli, un lavoro di purificazione e di eliminazione (a). E come avviene che il volgo ignori il Convito, e s' appropri la Divina Commedia ; così in questa medesima, quasi tra più parti d'una stessa persona o d' uno stesso sembiante, l'una ha per esso più forza attrattiva e più vaghezza dell' altra; e spesso il suo criterio non falla. La finitezza delle forme, le frasi eleganti e squisite, il lavorìo dell'ingegno che opera la mirabile metamorfosi delle diverse nature, le creazioni degli enti simbolici e le morali allegorie sono di gran lunga sorpassate in pregio da questa narrazione, che nuda di ogni artifizio di formale tecnicismo raggiunge il più alto effetto estetico. Niente di più facile che dire: Ugolino si morì di dolore e di fame; ma raccogliere e coordinare tutti gli elementi del patetico; far salire il dolore ad una tragica sublimità; penetrar la scena dell'uomo pe' diversi gradi di sua passione, e spirarvi per entro il racconto il calore d'un sentimento vero e purificato da quel filosofismo onde Dante non si potè sempre sciogliere, è appunto la difficile facilità nella quale consiste l'eccellenza dell' arte. La verità è (così il sommo critico italiano) che in Poesia non ci è propriamente nè contenuto, nè forma, ma che, come in natura, l'uno è l' al tro. Il gran poeta è colui che uccide la forma, di modo che questa sia esso medesimo il contenuto (b). Se a tale altezza Dante spesso s' accosta, qui è dove a

(a) Francesco De Sanctis, Saggio crit. sul Petrarca.

(b) De Sanctis, op. cit. pag. 98. Nap. 1869, pe' frat. Testa.

noi pare che vi attinga. Finchè la critica formale giudica belle cerle forme di dire o certi concetti, o certe immagini, o certe movenze, fa opera utile. Ma quando secondo questi criterii giudica l'opera, e dichiara Bellezza della Divina Commedia le Bellezze del padre Cesari, perverte il gusto e impedantisce (c). Chiudiamo il lungo comento di questo luogo con le parole del Ch. Tommaseo: Se altro poeta possa in altrettanto spazio di versi condensare tanla verità di dolore, e distendersi nella dipintura di cose materiali senza che la parte spirituale ci perda, io non so; nè oserei per ammirazione irriverente, porre alla potenza dell' arle limili ingiuriosi. Ma dico: mi si mostri un altro simile o dissimile tratto di poesia, dove altrettante bellezze d'affetto e di stile e di numero siano più pensatamente insieme e più schiellamente adunate, più modestamente insieme e più fortemente (d).

76-78. QUANDO ec. Come Ugolino ebbe fatto fine al racconto, addenta di nuovo il cranio dell' Arcivescovo con tanto furore, che mastino non piglierebbe con avidità più rabbiosa, nè con più forza a dirompere e stritolare un osso. Così dà in alto più pieno significato all'ultima parola DIGIUNO; e mostra con quegli occhi TORTI raccendimento d' odio, e sicurezza d'aver già dimostrato quanto a ragione roda egli il traditore, che fecelo sì miseramente perir di fame (C.XXXII,133-139).

77. MISERO. Nel v. 63 è detto: misere carni. Virgilio (Æn. II, 215): Miseros morsu depascitur artus. (En. III, 41,): Quid miserum, Enea, laceras ?

In questo terzetto ti pare non di leggere, ma di vedere l'atto feroce di quello spettro. L'ultimo de'tre versi ha poi nelle parole gran comprensione d'idee e mirabile forza imitativa nella sua struttura. 78. FURO ALL' OSSO - Var. lez. Fuoro

(c) De Sanctis. Op. cit. pag. XIX. (d) Tomm. Illustraz. Inf. XXXIII.

Ahi Pisa, vituperio delle genti
Del bel paese là dove 'l Si suona!

ha il Cod. Cassin., Forar l'osso leggono i Codd. delle biblioteche Reali di Berlino e di Parigi, il Bartoliniano, il testo Bargigi, la stampa di Vincenzo Bonanni (an. 1572). II Viviani prepose a questa variante la comune lezione,creduta da lui un errore degli amanuensi. Ma il far de' denti succhio, altrove detto dal Poeta, non pare s' accomodi troppo bene al fatto di Ugolino; il quale a simiglianza di cane dirompea, non trivellava le ossa del teschio nemico. Laonde sembra che nè per forza di espressione, nè per bellezza di forma sia alla lettera comune da preferir quella del Viviani.

79-84. Aш PISA ec. Con questa terribile apostrofe imprecativa inveisce il Poeta contro i Pisani,che dannarono a morte crudelissima Ugolino e gl' innocenti figliuoli. Simile a questa è l'invettiva fatta a Pistoia patria di Vanni Fucci. (Vedi C. XXV, 10-12, nota).

80. BEL PAESE ec. L'Italia, della quale non ha in tutto il mondo regione più bella. Per questa leggiadra perifrasi è indubitatamente significata Italia nella sua totalità avvegnacchè il Lombardi, il Poggiali e altri moderni sospettino potersi intendere la sola Toscana, dove il proferimento del Sì, più che in altra parte della penisola, si fa con qualche sibilo risuonare. Prima di questi valentuomini era già venuto in tale opinione Benvenuto da Imola, il quale scrive: Vel dicas: DEL BEL PAESE, scilicet Tusciae, quae est ornatissima pars Italiae, LA dove il sì suona, in qua res ista inepta resonat. Il Biagioli arreca in contrario buone ragioni (a); ma dell' Imolese lascia maliziosamente le addotte parole che a lui non approdano, e che farebbero autorità al Lombardi, cui dic' egli voler rimettere la testa al segno. E lo fa se non che con tutt' i luoghi di Dante stesso e del Varchi ec. ch' egli cita, pare che cavi una con altra sottigliezza «Come

(a) E le son quelle che con più ordine e più pienezza si leggono nella nota (2) alla Vita Nuova, pag. 35. Venezia 1758. Ant. Zatta.

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in asse si fa chiodo con chiodo ». Nel Convito va inteso per Volgare del sì, la stessa lingua italica, il Volgar proprio nostro e di tutti, non mica de' soli Toscani. Questa verità appare nella massima sua chiarezza là dove (De Vulg. eloquio, lib. I, cap. 8) Dante scrive: Alii Oc, alii Oil, alii Sì, affirmando loquuntur, ut pula Hispani, Franci, et Latini. Quelli che di questo trisono linguaggio hanno il Sì, tengono la parte orientale da' genovesi confini fino a quel promontorio d' Italia, onde comincia il seno del mare Adriatico, e alla Sicilia: Qui autem Si dicunt, a praedictis finibus Orientalem (partem) tenent. Videlicet usque ad promontorium illud Italiae, qua sinus Adriatici maris incipit et Siciliam. Sicchè ben più estesi che della Toscana furono per Dante i termini del bel paese dove il sì suona. Questo si riconferma per quello che poco appresso (Lib. I. Cap. 10) egli dice, dubitando a quale de' tre linguaggi abbiasi a dar la preminenza, e poscia risolvendosi per l'Italiano; dacchè: Grammaticae positores inveniuntur accepisse Sic, adverbium affirmandi, quod quandam anterioritatem erogare videtur Italis (non dice Tuscis), qui Sì, dicunt.

Var. lez. ladove si suona, il Cod. Cassin.; la ove si, il Riccardiano, num. 1028; là dove sì, il testo Bargigi ec.

LA DOVE. Da ciò che testè è detto si vede non aver potuto Dante significare per cotesto là la Toscana ond' era egli lontano. Il Lombardi, il Costa ec. questo pur credettero indotti dal valor della voce là, non considerando che nelle forme là dove, laddove è pleonastica come si ha da esempi di altri scrittori, e di Dante stesso, che parlando di luogo dov'egli già era (Purg. II, 92), dice:

Casella mio, per tornare altra volta
Laddove io son, fo io questo viaggio.
E di luogo ov' era Virgilio, a cui parlava
Stazio (Purg. XXV, 31 segg.):

Se la veduta eterna gli dispiego
laddove tu sie,

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Discolpi me non potert' io far niego.

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