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Vid' io cascar li tre ad uno ad uno

Tra 'l quinto di' e 'l sesto: ond' io mi diedi Già cieco a brancolar sovra ciascuno;

compreso della morte mia e della loro (a).

71. LI TRE: L'altro figlio e due nipoti; gli altri tre fratelli di Gaddo. AD UNO AD UNO. Secondo che per ragion di età, o varia complessione, potè l' un più che l' altro sostener la fame; e quindi non cascaron morti tutti in un punto. Ciò mentre s' accorda con le leggi fisiologiche, è anche detto, come chiosa Benvenuto, Ad augumentum doloris sui; perciocchè la piaga che la morte di Gaddo avea testè fatta nel cuore del Padre, viene più e più inasprendosi, come si muoiono man mano gli altri: ed egli assaggia a stilla a stilla le amarezze di morte durissima, parendogli di agonizzare e morir già in quattro figliuoli, prima che morisse egli stesso.

73. GIA CIECO. Per lungo digiuno e per dura intensità di pene veniagli meno la potenza visiva, come face al mancar dell'alimento. Al quarto di' venuto potè col solo senso degli occhi veder Gaddo morto ai suoi piedi. La vista gli si venne quindi più e più intorbidando, e tra il quinto e il sesto giorno vide cascar gli altri tre, ma non sì chiaro che con certezza potesse giudicarli già finiti. La vista, (vedi miracolo di poetica invenzione !) eragli bastata appena sino al termine di questi casi amari. Orbo di figli, è ora divenuto cieco: quasi che con la morte di quelli si spegnesse la luce degli occhi suoi. Omai non ha più nulla a vedere ; ma quell' offuscamento, o che dir si voglia cecità completa, se leva un sipario tra lui e lo spettacolo orribile di quattro cadaveri, non però pone termine alla tragica scena; perciocchè, entratogli nell' animo quel dubbio tremendo, il misero padre a mille doppi trambascia, e privo di forze com' era, abbandonatosi alla violenza del dolore si getta su' figliuoli, e con mani tremanti, qual d'uomo vicino a morire, va tra le addoppiate tenebre or questo abbraccian

(a) Tommaseo, Illustraz. C. XXXIII, p. 498.

do, or quell' altro. Gli brancica e palpa, cercando se dessero ancor segno di vita; e mentre è tormentato da quell' ansia crudele, gli trapassa nell'anima un gelo di morte. Non troviamo in che altro modo si compia il vuoto, anzi la contradizione apparente tra il Vid' io cascar li tre e l'ond'io mi diedi già cieco ec. Il Poeta accenna i punti più salienti del suo concetto, lasciando al leggitore di contemplarne per sè l'orrore di tutto il resto che ei non s' attenta d' esprimere, e ricopre sotto mestissimo velo.

Ma è egli verisimile che Ugolino potesse per fame diventar cieco d' un tratto? E perchè mai, tra per lo lungo digiuno, tra per quegl' ineffabili dolori di spirito, non gli si poteano, in torre anche buia, offuscare ed appannare gli occhi di guisa, che non vedendo egli più lume si dicesse divenuto GIÀ CIECO? Il Vellutello avea chiosato dicendo: Ed e

gli già fallo cieco, perchè dell'uomo la prima parte a morire sono sempre gli occhi. Il Lombardi: Già per mancanza d'alimento intorbidata essendogli la vista. Così anche il Torelli. Ma il Biagioli spiega altrimente: Già fatto cieco dal mio disperato dolore. Or perchè mai con la causa morale non potesse concorrere anche la fisica a produrre un tale effetto, noi non vediamo. Men ragionevole è l' asserire che il concetto poetico si affievolisca per la spiegazione del Lombardi; villano poi lo scompisciarsi delle risa: cah, cah, cah, nel riportare le parole del Vellutello. << Quanto all' esser lui fatto già cieco, io il credo effetto del languore mortale, e del dilaceramento delle viscere, per la fame in lui avvenuto e non credo, che qui abbiano luogo le grasse risa, nè il cah, cah, cah che taluno fece sopra questa sposizione. Come le grasse risa? Ci fallissero anche le ragioni naturali, che portano per la fame lo appannarsi degli occhi, noi l'abbiam provato per la Scrittura. Gionata essendo rifinito per la fame, non vedea lume: venutogli trovato

E due di' li chiamai poich' e' fur morti:

del mele gocciato sopra la terra, ne prese alcune gocce; e dice la Scrittura, che queste l'ebbero riavuto, et illuminati sunt oculi eius. Altro che cah, cah, cah (I. Reg. C. XIV). — Il ridere è cosa assai facile, e non c'è uomo si misero e oscuro che benissimo nol sappia fare ma spesso chi ride così ci fa ridere e ne' siffatti troppo bene è verificato il proverbio de' pifferi di montagna, che andarono per sonare, e furono sonati ». Cesari.

La possibilità di quell' acciecamento non crediam noi accettabile per la pruova biblica, siccome pretende il padre Cesari; ma sì perchè non va fuori la sfera delle cose naturali. Nè Dante stesso pretenderebbe operato un miracolo nel fatto di Ugolino, quale v' ha degli espositori che lo riconoscono avvenuto nel caso di Gionata. Il Poeta ritrae qui un fatto vivo, e la cui realtà non gli vien contrastata dalle leggi ordinarie della natura, ne'supremi dolori che un uomo sostiene. Quel brancolare che fa il Conte, vedetelo nell' infelicissima Niobe, la quale (Ovid. Met. VI, 276 seg.): Corporibus gelidis incumbit, et ordine nullo, Oscula dispensat natos suprema per omnes. E così l'uno già fatto cieco, siccome dell' altra si dice (Ivi vv. 301, seg.): Orba resedit

Exanimes inter natos, natasque virumque.
Quella (v. 302):
Diriguitque malis: nullos movet aura capillos.

In vultu color est sine sanguine: lumina moestis

Stant immota genis: nihil est in imagine vivi. Ipsa quoque interius cum duro lingua palato Congelat, et venae desistunt posse moveri. Nec flecti cervix, nec brachia reddere gestus, Nec pes ire potest: intra quoque viscera saxum Flet tamen etc. (est: Questi impietra per lo dolore e non piange. L'Allighieri tolse alcune tinte pel suo quadro dal poeta latino; ma in poche e semplici parole: dentro impietrai, già cieco mi diedi a brancolar sopra ciascuno, tocca i punti più sensibili del cuore, ed apre al pensiero del leggitore più larga scena, dove la fantasia trovi per sè più di patetico, che non ispirano le molte parole d' Ovidio; il quale sembra che ti lasci freddo come la sua Niobe, appunto per volertene trop

po rinfocolare gli affetti anatomizzando il dolore come le parti irrigidite, e dentro e fuori, da' capelli ai piè della moglie d'Anfione. Dante agguaglia, anzi identifica il concetto con la realtà; e mentre imita chi lo precesse, dà alle forme che toglie, atto di sostanza naturale e di vita, e v'imprime il suggello della eternità, cioè del vero che trovi sempre in fondo dell'umana natura. Nulla di nuovo disse adunque il Nostro con quel Già cieco ec. che non fosse eziandio per altri prima già detto ; ma lo disse con più forza e più efficacia nel lampeggiar di brevi motti, di quel che non si facesse Ovidio, nonchè l' Anguillara parafrasando :

Tosto che nelle figlie amate, e morte
Ferma la madre misera la luce,

E i dolci, e i cari suoi figli e consorte Vede giacer distesi, e senza luce; Lo stupor, e 'l dolor l' ange si forte, Che più per gli occhi suoi Febo non luce, E lo stupor in lei si fa sì intenso, Che stupido rigor le toglie il senso. Il crin, che sparso avea pur dianzi il vento, Or se vi spira, ben muover non puote; Stassi ne' tristi lumi il lume spento, Le lagrime di marmo ha nelle gote." Il palato, la lingua, il dente, e 'l mento, Il core, il sangue e l' altre parti ignote, Son tutti un marmo, e si di senso privo, Che l'immagine sua null' ha di vivo. BRANCOLAR SOPRA CIASCUNO. Questo atto magistralmente imitato dal Prensantem nequidquam umbras (Virg. Georg. IV, 501), produce una commozione di pietà non men viva inverso il padre infelice, di quella che le parole del Mantovano ti destano per Orfeo; il quale brancola indarno a toccare l'amata Euridice dileguantesi come fumo fra le ombre dell' Erebo.

74. DUE DI' ec. II Vellutello reputa corrotti que'testi che dicono E tre e non due di li chiamai. Il Landino: Egli già cieco sopravvisse due giorni, cioè tutto il sesto e il settimo. Du di ha il cod. Cassin. ; due leggono le prime edizioni di Foligno, Jesi, Napoli, la Venez. del 1491; i codici Filippino, Pucciani, Riccard. 1004, 1024, 1025, 1026, 1027, 1031; i Patavini 9, 67, 316; il Dante Antinori, la Niḍobeatina, i MSS. Frullani e Poggiali. È anche lettera della Ful

gon. Rom. 1791, della Minerva, Pad. 1822. La prescelsero pe❜loro testi il Bargigi, il Lombardi, il Niccolini, il Bianchi, il Witte, il Tommaseo ec. Con altri codici di minore autorità leggono tre dè il Venturi,il Biagioli, il Cesari ec. Ma scrivendo il Buti Dopo gli otto di ne furon cavati, e portati inviluppati nelle stuore al luogo delli Frati minori a S. Francesco, e sotterrati nel monumento ch'è allato agli scaglioni, a montare in chiesa, co' ferri a gamba li quali ferri vid' io cavati dal ditto monumento; non può adottarsi la lezione tre dì, se non da chi voglia dire, che, rotto dopo gli otto giorni l'uscio della torre, si sia trovato ancor vivo il Conte Ugolino.

DUE DI' LI CHIAMAI POI CH' E' Fur morTI. Il pensiero che lamentandosi farebbe più tristi i figliuoli (v. 64) è omai, morti ch' ei sono, del tutto svanito; onde nulla più lo rattiene ch' egli non s'abbandoni alla foga del dolore, e nol disfoghi chiamando con immensurabile passione e con profondo sentimento di tenerezza paterna, que'figli che più non sono. Tancredi mosso da impeto interno d'intensa doglia per la morta Clorinda, geme ad ora ad ora, e scioglie la lingua a lamentarsi ora seco parlando, or con l'anima sciolta dai corporei legami: e (Tasso, Ger. XII, 90):

Lei nel partir, lei nel tornar del sole Chiama con vocé stanca, e prega, e plora; Come usignol, cui 'l villan duro invole Dal nido i figli non pennuti ancora, Che in miserabil canto afflitte e sole Piange le notti, e n' empie i boschi e l'ora. Questo effetto dell' amore che vince la ragione, e apre libera la via al sentimento e alla passione, è cosa naturalissima e dipinta dai poeti ed illustrata per similitudini, siccome qui fece il Tasso imitando Virgilio; il quale (Georg. IV, 507 segg.) dice d' Orfeo :

Septem illum totos perhibent ex ordine menses Rupe sub aëria deserti ad Strymonis undam Flevisse, et gelidis haec evolvisse sub antris, Mulcentem tigres, et agentem carmine quercus. Qualis populea moerens philomela sub ́umbra Amissos queritur fetus, quos durus arator Observans nido implumes detraxit: at illa Flet noctem,ramoque sedens miserabile carmen Integrat, et moestis late loca questibus implet. Simile della madre d'Eurialo (Virg. Æn. IX, 477 seg.), che all' infausta nuova del morto figliuolo:

Evolat infelix, et femineo ululatu,
Scissa comam,muros amens atque agmina cursu
Prima petit, non illa virum, non illa pericli
Telorumque memor; coelum questibus implet:
Hunc ego te, Euriale, adspicio? tune illa sene-
Sera meae requies ?
(ctae

Virgilio (Æn. XI, 180) ci fa udire l'infelice Evandro prendersela, per disperato dolore, con la divinità di Pallade, e dire che, morto Pallante suo figlio, non più curava egli la propria vita:

Non vitae gaudia quaero: Nec fas: sed gnato Manes perferre sub imo.

Se a Dante furono presenti le scene luttuose di tanta miseria per le forme onde le dipinse lo suo maestro e il suo autore; non pare cosa più assurda che, in conseguenza di tanto amore quanto ne mostra Ugolino in chiamando i figliuoli ben due o tre giorni poi che furon morti, abbiasi ad imbandire una mensa de' lor gelidi corpi. CHIAMAI, chiosa assai bene il Tommaseo, Non stava dunque a mangiarli. E noi pensiamo che la vita di Ugolino si spegnesse nel nome de' suoi figliuoli, come nel nome di Maria perdè Buonconte la parola, e giacque (Purg. V. 100 segg.). Tanta fu nell' uno la divozione che lo salva, quanto nell' altro l'amore che lo tormenta; perciocchè un affetto che ha messo radici nel cuore, non si estingue che con la vita; anzi resta ad essa superstite come i Poeti ci significano di Orfeo, che diviso dal mondo per Euridice non più sua, e dopo sette mesi di lagrime fatto a brani dalle spregiate donne di Tracia; pure mentre le onde dello Strimone ne volgono il sanguinoso capo:

Misera Euridice ancor dicea
L'anima fuggitiva, ed Euridice
Euridice la ripa rispondea (a).

Ognun vede come in un solo verso: E due di li chiamai poi ch' e' fur morti è più effetto di passione, che ne' molti già addotti dagli altri poeti. Nello spirito dannato che narra l'atrocità del suo caso, la memoria degli strazi patiti ringagliar

(a) Il Monti (Mascher. I) così reca ne'suoi i versi Virgiliani (Georg. IV, 523 seg.): Tum quoque,marmorea caput a cervice revulsum Gurgite quum medio portans ocagrius Hebrus Volveret, Eurydicen vox ipsa, et frigida lingua Ah miseram Eurydicen! anima fugiente vocabat: Eurydicen toto referebant flumine ripae.

Poscia, più che 'l dolor potè 'l digiuno.

disce il sentimento, e non consente nè più ample espressioni e nè le similitudini e gli ornati, che si concedono a chi descrive non già le proprie, ma le altrui

sventure.

75. Poscia più che 'L DOLOR POTÈ'L digiuno. Prima, dunque, più che il digiuno avea potuto il dolore. Son qui, a nostro vedere, significate due forze in colluttazione la fame con la sua potenza consumatrice non valse tanto a distruggere Ugolino, quanto l'intensità del dolore a mantenerlo in una vita di crudele martirio; ma poi comunque grande fosse la virtù del dolore, trionfò il digiuno. I forti affetti fan meno sentire la necessità dell' alimento: quasi che l'anima concitata si ritragga dalla materia, o che innanzi alle turbolenze dello spirito stia il corpo paralizzato, come servo al cospetto di sdegnato signore. Il Venturi chiosa: Più pote il digiuno che il dolore; perchè il digiuno m' uccise, e non il dolore, benchè era cagione sufficiente ad uccidermi, e già anch'egli veniva uccidendomi. Non vuol dir dunque, che si mettesse a mangiar le carni de' suoi figliuoli, oramai troppo frolle; e nè meno, che da ultimo gli fosse tanto più sensibile il tormento della fame che già non sentisse più il suo cordoglio; ciò che ancora sarebbe contro il decoro della persona: ma ne meno a mio parere vuol dire, che il dolore l'aveva conservato in vita più tempo, per il contrastare che fa naturalmente contro la fame la fortezza del dolore collo stringere il cuore, e tutto il resto, che dissolvendosi ne vien la morte, ma che in fine l'aveva vinta il digiuno, non ostante la virtù preservativa del dolore: perchè io anzi stimo che, ceteris paribus, morirebbe più presto chi insieme fosse trafitto dal dolore e afflizione dell' animo, che chi avesse a morire di sola fame. Secondo quest'ultima conclusione le due forze dissolventi, fame e dolore, avrebber dovuto concorrere a far morire Ugolino già prima del tempo in che si dice esser morto. Il dotto comentatore non ammet

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te contrasto tra la fame e il dolore; ma dal testo è chiaro che il dolore non cospirò col digiuno ad accelerar la morte, si combattè contr' esso a prolungare la vita. Per lui era il dolore causa sufficiente ad uccidere l'illustre prigione, e veniva già uccidendolo; ma del dolore fu più micidiale il digiuno. La fame, dic' egli, non strinse però il padre a mangiare le carni de' figli oramai troppo frolle; come, se meno frolle state fossero, divorate l'avrebbe. Il Conte sente da ultimo, pel Venturi, sommo il tormento della fame, ma nell' intensità di questa gli dà qualche puntura anche il cordoglio. Dunque, la vittoria del digiuno sul dolore tornerebbe a questo, che Ugolino avea minor voglia di piangere, che di mangiare; e che non il dolore, ma la rabbia della fame fu possente a ucciderlo. H Venturi abborre dal dargli la nota di feroce o di vile; ma la sua sposizione lascia sospettare che potess' esser l'uno

e l' altro.

Se il digiuno potè più del dolore, ciò significa, dicono altri, che alla fine il padre, vinto dalla fame, si mise a mangiare le carni de' figli morti. Cotesta opinione, fu messa innanzi da Martin Novarese; al quale, diceva il Landino, Iddio accresca la prudenza, e diminuisca l'arroganza. E tuttochè absona la reputasse quell' autorevole espositore; v'ebbe anche tra i moderni de' chiarisloro argomenti (a). Noi ributtiamo una simi uomini, che osarono sostenerla per nè Ugolino, secondo l'avviso di sapientale interpretazione, come di cosa che ti Fisiologi, avrebbe potuto fare, e nè Dante, secondo i maestri di Poetica, potuto dire. In momenti sì amari, non è

Tommaso Gargallo tenne come articolo di fede (a) Al Dal Rio parve la più degna di Dante. che il potè accenni in questo luogo al mangiare de' figli; e in una Lezione Accademica discute Se il verso (75) di Dante meriti lode di sublime, o taccia d' inetto. Anche Luigi Muzzi espone in una sua lettera le ragioni che militano per cotesta interpretazione, la quale non cadde in pensiero agli antichi savi espositori. Ai moderni parve abbandonarla affatto come inverosimile, e la chiama schifosa il Ch. Tom

maseo.

possibile che, a prezzo di sì fiero pasto, Ugolino cercasse sostentare una vita che altri pur si troncherebbe a forza per volerla finita; massime che, sendo egli cieco, più viva era l'immaginazione, quanto l'occhio meno vedea. Egli era già tutto chiuso nel suo pensiere: l'anima gli si gira sopra sè stessa: non vede dove che sia, se non dolore senza consolazione e senza speranza: fluttuante tra gli spasimi d' una realtà insopportabile, e i paurosi fantasmi, e gli orrori del nulla, sorbe a stilla a stilla gli strazi del più crudele martirio; e lo spavento che gli corre per le ossa, non aguzza mica la voglia di quelle dape nefande, ma moltiplica e accelera le angosce dell' estrema agonia.

Dante avea ventitrè anni nel 1288, quando avvenne la fine tragica d' Ugolino. Il Villani scrive che il Conte e i figliuoli furon tratti morti della torre e vilmente sepolti. Il Buti dice dippiù, che involti nelle stuore e con catene di ferro ai piedi vennero interrati al tale luogo (v.74,nota): che a lui furon vedute quelle catene. Gl' infelici prigioni, scrivono i contemporanei, aveano la pelle attaccata alle ossa: tutti sparuti, negri, quasi scheletri che incutevano lo spavento della loro fine. Nessun cronista ci lasciò detto che alcuno de' morti figli venisse cavato fuori della muda mutilo d'un membro, smozzicato le orecchie od il naso, o senza brandello di polpa che fosse servita all' improbo ventre del crudo padre. Non è concepibile che la storia e la tradizione avrebbero trasandato di trasmettere ai posteri una circostanza così notabile; la quale non poco discolperebbe i nemici di Ugolino dell'aver fatto crudelmente morire un uomo sì barbaro e sì feroce.

Or Dante non avrebbe osato di mentire alla storia d'un fatto noto all' universale. Che se questo verso dovesse intendersi come piacque al Novarese, noi diremmo che assai più infamia frutterebbero a Conte Ugolino le sue stesse parole, di quel che non fanno al traditor ch' ei rode; e che il Poeta invece di porlo come cane affamato sulla cherica di Ruggieri, avrebbe più giustamente applicato cento tigri d' Inferno alla cer

vice e al petto di quel padre che si fosse disfamato su' cadaveri de' propri figliuoli. Ma le parole del testo non favoriscono punto siffatta interpretazione. Il Poeta non dice che più del dolore potesse la fame, ch'è desiderio di cibo; ma bensì il digiuno, ch'è privazione di cibo. Or l' inedia può stare senza la fame; anzi questa, dopo alcun tempo che s'è durata, incomincia a diminuire in ragione inversa di quella. Così in Ugolino, quando fu egli venuto all'ottavo dì, il dolore avea già toccato l'estremo della sua intensità, e quanto era più lungo il sostenuto digiuno, tanto meno avvertivasi omai lo stimolo della fame. Valenti comentatori, non attesero alla proprietà delle voci, e ne scambiarono, e confusero le significazioni; onde si è più ostinatamente voluto attribuire all'autore la sentenza ch' egli non tenne.

Tra quelli che sdegnano la chiosa di Martin Novarese alcuni dicono: Che se il Poeta volea mostrare il dolor di coslui essere stato tanto smisuratamente grande, come lo fa, e che ragionevolmente è da creder che fosse, lo dovea far morir di dolore e non di fame. A questi rispose già il Vellutello, facendo Osservare che di dolore morir si puote ne' subiti e inopinati casi, e che ciò avvenir suole più specialmente nella donna, per esser di natura più fragile e meno considerata nelle passioni, che non è l'uomo: Ma delle cose, di che l'uomo è ancor incerto, e che a poco a poco ne vien in cognizione del vero, come fu questa del Conte Ugolino, non accadon mai queste subite morti, ma sì bene per lunga operazione. Secondo la variante de' codici Bartoliniano e Caetani:

Poichè il dolor potè più che il digiuno avrebbe il Poeta fatti già paghi i desidèri di questi dotti. Il Monti dapprima fu di costoro; poi si partì dalla nobile schiera, perocchè, tutto posatamente considerato, stimò preferibile la comune lezione. « Vero è (scrive egli in una lettera) che questa, secondo la chiosa di quasi tutti gli espositori non fa molto onore al dolor di Ugolino, mettendo con erroneo giudizio ad una stessa bilancia l'effetto del dolore e del digiuno, e spie

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