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Che 'l cibo ne soleva essere addotto, E per suo sogno ciascun dubitava; Ed io sentii chiavar l'uscio di sotto

doveva poco dipoi soggiugnere ch'egli no eran già desti, non volendo mica far pensare che quelli piangessero in sonno eterno (a).

S' APPRESSAVA è la lezione della più parte de' codici antichi e delle edizioni. La ritennero ne'loro testi i più solenni comentatori Benvenuto da Imola, Land. e Vellutello (Ven. 1578), Bargigi, Volpi, Venturi, Lombardi, Biagioli, Cesari, Niccolini, Tommaseo ec. Le Variorum del Witte hanno trapassava, che il Bianchi crede più bella senza dubbio della comune. Piacque cotesta variante al Pr. Rosini, opinando che l'effetto dell' inchiodar della porta della Torre dovesse essere più terribile dopo trapassata, che all' avvicinarsi dell' ora nella quale soleva ai prigioni apportarsi il cibo. Ma,

oltre che l'inchiodar dell' uscio dovea incutere lo stesso terrore prima o dopo che si facesse, la lezione preferita dal

Rosini e dal Bianchi è contraria al contesto perciocchè ivi si dice che pel suo sogno ciascun dubitava, che all' ora usala non fosse per recarsi loro il cibo: or questo dubbio sarebbe stato certezza ponendo come trapassata l'ora che il cibo soleva essere addotto; e quindi si recherebbe non al sogno, come dice Ugolino, ma al fatto reale la cagione del lor dubitare; il quale secondo l' intendimento del Poeta tanto più lungo ed atroce diviene, quanto più anticipatamente sorge negli animi di quei miseri, cioè sì tosto com' ebber finito di sognare,

(a) Eram per eravam usò anche il Nostro (Purg. XXXII, 35):

Forse in tre voli tanto spazio prese Disfrenata saetta, quanto eramo ec. Il B. Iacopone, Lib. II. C. II, 17:

Li quai per lo peccato eramo in pena. Ed in prosa, il Galilei, Dial. I. Mentre eramo sul considerare la difficoltà. Firenz., Asin. 228: E appena eràmo camminati. E così antichissimamente Matteo Spinelli ed altri molti ebbero familiare cotesta voce, venuta dalla latina inflessione eramus, che il volgo mutò lievemente in eramu, come tuttodi s'odon dire i Calabresi, e poscia polirono in eràmo i nostri primi scrittori.

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anzichè al trapassar dell' ora che soleano cibarsi (b).

44. ADDOTTO: recato, apportato.

ora che era portato loro mangiare, 45. E PER SUO SOGNO ec. Essendo già aspettavano con sospetto quello che av venne. Cesari.- Benvenuto: Quia quiPatri. A questo sogno bisogna attribuilibet filiorum fecerat somnium simile re efficacia dall' istante che fu fatto, e al dubbio, che negli animi per quello si ingenera, la cagione di continuo prolungato martirio. Il Tommaseo che seriamente meditò sopra questo canto, scrirazione è, al mio vedere, quel cupo che ve: La più profonda bellezza della narci domina da capo a fondo, e vibrando lume incerlo su cose terribili, aggiunge all'orrore.. Dico che un non re per la narrazione tulla.. so che, foscamente indeterminato, scorDel sogno de' giovani non è detto chiaro, ma che CIASCUN NE DUBITAVA, e il dubbio passa nell'anima di chi ascolta (c). Questo è veramente artifizio da poeta: trasportare l'anima nel futuro, e la realtà nel campo dell' ideale, che nella allegre e le tetre apparir più gransua vastità indeterminata fa e le cose di (d).

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(b) Pietro dal Rio, nell' Appendice di osservazioni aggiunta all' edizione della Div. Comm. per David Passigli, Fir. 1847, scrive: Si potrebbe dimandare.. se non è più bello e più animato in questa circostanza il dubitare del cibo quando s'appressava l'ora, che non è il dubitarne quando già l'ora trapassava perchè nel primo caso addita il timore per effetto del sogno; nel secondo si nota un sospetto che, riguardo all' ora usata, è una certezza, e non ha nulla di novo, essendo cosa naturalissima nel caso presente.

(c)'lllustrazioni, in fine del C. XXXII, pag. 478 seg.

(d) Illustraz. in fine del C. XXXIII, pag.498,

All' orribile torre: ond' io guardai
Nel viso a' mie' figliuoi senza far motto.

IO SENTII. Essendo già desti tutti quanti, dovettero sentire anche gli altri, ma si dice principalmente di Ugolino che sentisse l'inchiodarsi dell' uscio; perciocchè gl'innocenti figliuoli se ricevono per l'orecchio quel suono, non però sanno, come il padre, che sia parola di morte. CHIAVAR conficcar con chiodi, inchiodare, sprangare. Gio. Villani scrive: Fecero chiavar la porta della Torre e le chiavi gillare in Arno. Altri sottilizzando può da queste parole inferire che quella chiudenda fosse fatta così a chiavi, come a chiodi ; ma non pare dir si possa inchiodarono la porta e le chiavi gillarono in Arno; poichè la porta non s'inchioda con chiavi; onde ci avvisa che secondo il cronista questo verbo abbia il significato generico di serrare, chiudere, siccome il provenzale clavar. Suppone questo parlare, dice il Lombardi, che rimanesse quell' uscio sempre, almen di giorno, aperto; ed accenna avvenuto in quel punto ciò che gli storici raccontano, che facessero cioè i Pisani chiavar la porta della torre, e ́la chiave gittare in Arno Il Biagioli al contrario nega che cotesto chiavare volesse dire chiudere colle chiavi, come chiosano il Volpi ed il Venturi, e chiama la supposizione del Lombardi, che la torre fosse sempre aperta, cosa che se l'è indovinata da sè, ma che da noi non si corre. Ma prima del Biagioli avea il Poggiali fatta al vocabolo la dubbia significazione di chiudere con chiavi, o conficcar con chiodi. E il Nannucci origina la voce ora dal latino clavare chiodare, inchiodare (a), or da clavis, chiave, siccome da navis fu detto navare per navigare (b). È certo che i nostri primi scrittori fecero da clavus, chiovo, chiodo, e chiovare per inchiodare. Il B. Jacopone dice:

Battuto e fragellato
Fosti per me tapino...
Ed in croce chiovato

(a) Anal. crit. de' verbi it. pag. 289. not. (2). Fir. 1843.

(b) Manuale della letterat. del primo sec., vol. I, pag. 347, not. (b). Fir, 1856.

Di questa voce presa in senso traslato di figere, imprimere, ha un esempio nel Purgatorio (VIII, 137); e del quadrello, che si disserra, disfrena e scocca dalla noce dell'arco o della balestra, è detto nel Par. II, 24 :

E vola, e dalla noce si dischiava. Fra Giord. Predic.: « Veggiamo che alla croce si fa tanta riverenza, perchè Cristo vi stelte chiavato » cioè confitto. E Franco Sacchetti: Le mani use alle cose dilicate di vita eterna, chiovi aspri e duri ebbono, chiavandogliele i perfidi Giudei. Comunque per l'analogia della lingua potesse il vocabolo derivarsi da clavus, o da clavis egualmente bene; comunque serrato l'uscio a chiavi e queste gittate in Arno, non paia che d'altro facesse mestieri: pure crediamo che quell'inchiodar dell'uscio serviva al Poeta più che ai Pisani, per significare in qual modo spaventevole venisse ai prigioni annunziata la crudele sentenza.Benvenuto da Imola: Intellige cum clavis ferreis, ne amplius aperiretur. Quia iam clavatum fuerat cum clavibus, quas abiecerant in Arnum. DI SOTTO: al basso. « A quel che pare, erano nel piano di sopra. Tom

maseo.

47-48. OND' 10 Guardai Nel viso.. Sentito il conficcar dell' uscio, Ugolino sguarda tosto i figliuoli, col vivo parlar degli occhi quasi lor dicendo: Ecco quel, che io temeva; udiste voi? Tale, è secondo il Cesari, il senso di quelle parole. Ma Ugolino che il romore di quella guarda muto quegl' innocenti « per legserratura avea inteso, non fa motto: gere a essi nel viso se sieno accorti del vero, se ad essi incominci l' agonia, il cui calice egli ha nel pensiero già bevuto tutto (c).

FIGLIUOI per figliuoli, fognata la l, siccome crudei per crudeli. Din. Comp., Intell.:

Per te farò crudei cose saggiare.
Fra Guitt., Lett. ai Fior.: In ciò che va-

(c) Tommaseo. Illustraz. al C. XXXIII, pagin. 499.

I' non piangeva, sì dentro impietrai:
Piangevan elli; ed Anselmuccio mio
Disse tu guardi sì! Padre, che hai?
Però non lagrimai, nè rispos' io

Tutto quel giorno, nè la notte appresso;
Infin che l'altro Sol nel mondo uscìo.

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le quanto avete, anima e corpo e fi- rezza. Già prima dice (vv. 38 e 48) i gliuoi vostri è danno. E Rim.: miei figliuoli: ora comincia a chiamarli per nome.

Che abbandoni figliuoi che picciol vede, Com' io tre picciol miei abbandonai (a). Così quai, tai, mai, animai ec. per quali, tali, mali ec. Si fognò l'elle nelle simili cadenze de' verbi. Il Barberino: Come tu mi suoi dire, cioè suoli. Per la stessa ragione si trova duoi per duoli, ed altrettali voci in iscritture di tempi posteriori.

49. IO NON PIANGEVA ec. Premeva egli il dolore nell' animo, o meglio, com'ebbe, dopo quel terribile annunzio, guardato in viso i figliuoli, l' atrocissimo dolore renduto quasi di pietra nol lascia nè piangere, nè parlare: effetto naturale delle passioni veementi, che legano i sensi, e il corpo irrigidiscono. Di Arsete, il Tasso (Ger. XII, 101) dice:

Ei, come gli altri, in lagrime non solve Il duol, che troppo è d'indurato affetto. Reg. I. XXV, 37: Emortuum est cor eius intrinsecus, et factus est quasi lapis.

50. PIANGEVAN ELLI: tamquam leneriores. Benv. da Imola.—I fanciulli piangevano, vedendo negli occhi e nello istupidimento del padre il suo accuoramento. L'età giovine rendevagli incapaci di profondo dolore, e nè addentravano essi tanto il pensiero, quanto Ugolino faceva, nell'abisso che innanzi a loro s' apriva. ELLI: eglino. (Inf. XXXII, 124, nota (a); III, 42, nota).

ANSELMUCCIO: un de' nipoti (b). ANSELMUCCIO MIO: Qui erat unus ex filiis meis. L'Imolese.- Quanto più si fa feroce il dolore, tanto in Ugolino cresce il senso della pietà, e le parole vanno più e più prendendo espressione di tene

(a) Dice esser fiera crudeltà la sua stata, che per rendersi frate abbandonò moglie e figliuoli. (b) Stor. Pis.; Murat.ltal.rer. script. I, XXIV, 655.

51. TU GUARDI sì! Padre, CHE HAI? Cid dimostra che nuovo modo di sguardar disperato facesse il Conte nel viso ai figliuoli (vv. 47, seg.), perchè quell' inesperto fanciullo così gli parli, dicendo, in sentenza: Che vuoi tu dir, padre ? Tu ci guardi fiso, e nulla ne dici: che hai? Cesari.

CHE HAI? Più orribile che chiedergli pane. Questi almeno non s' era ancora accorto del vero; nè il punto in cui gli altri s'accorgono è fermato: silenzio

tremendo. Tommaseo.

52-54. PERÒ. La conseguenza parca dover essere che il padre piangesse al pianger de' figli (v. 50), e rispondesse alla dimanda (v. 50) d'Anselmuccio; ma egli nè manda fuor degli occhi pur una lacrima, nonchè pianga, e in suon di querela disfoghi il dolore; nè risponde: e questa orribile mutolezza, e questo stupore d'animo quasi impietrito, non è per un istante, ma dura TUTTO QUEL GIORNO e LA NOTTE APPRESSO. Del quale crudelissimo stato è resa ragione in un motto solo (v. 49), dentro impietrai. Le parole di Ugolino :

..

non lagrimai, nè rispos' io Tutto quel giorno, nè la notte appresso ec. fanno inferire che tutto quel tratto di tempo fu passato in una veglia crudele, tra una scena d'orrore; dove debb' essere stata frequente la cagione del piangere e del rispondere, senza che però abbia il padre impietrito dal dolore mai nè risposto un accento, nè lacrimato. Commuove l'affetto se ci duole di chi piange: quanto ci dovrà di chi, pel dolore non può piangere ? Gran merore era al padre il pianto de'figliuoli: grande a' figliuoli, che il padre non potesse piangere. Land.

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Come un poco di raggio si fu messo
Nel doloroso carcere, ed io scorsi
Per quattro visi il mio aspetto stesso;
Ambo le mani per dolor mi morsi:

INFIN CHE L'ALTRO SOL NEL MONDO Uscìo. Idest, usque ad alium ortum Solis. Benvenuto da Imola. Fino al di seguente. Il Tasso (Ger. I, 15):

Sorgeva il nuovo Sol da' lidi Eoi. Così i Latini usarono metonimicamente lumen per dies; e Sol per isplendore e per giorno. (Vedi pag. 604, not. (a); e C.XXIX, 105, nota).-L. Della Vecchia:

Altera dum solis fulsit lux aurea mundo. 55-58. COME: sì tosto come, come prima ec., Lat. ut primum, ec.

Un poco di RAGGIO. (Vedi nota al v.26, pag.604). Ecco la luce che il gran Poeta pittore trova confacevole a far che meglio risaltino le tinte del suo lugubre quadro. Essa non discende amica giù nel carcere, per rinfrancare alcun poco l'animo del misero Ugolino, dileguando parte de'pensieri funesti che tutto quel primo giorno e la notte appresso, l'aveano atrocemente martoriato viene con gli orrori d' una fiaccola sepolcrale a rendere visibile al genitore gli effetti della patita inedia e del dolor morale, sulle facce pallide e scarne di quattro innocenti figliuoli. E qui egli infuria, e, rotto ogni ritegno, si morde le mani per rabbia non già di fame, ma di dolore. L'Imolese: Heic Comes narrat, quomodo invalescente dolore, secunda die factus est rabidus, visis filiis suis.

56-57. SCORSI. Scorgere è qui vedere ciò che prima per alcun impedimento non si vedea. Quando la luce diurna faceva chiare le sembianze de' figli, Ugolino dice semplicemente (v.47 seg.): ond' io guardai Nel viso ec. Qui e vede egli si tosto come fu dileguata l'oscurità notturna; e quegli aspetti argomentano il suo. Questo verbo ha la forza del cernere e discernere de' Latini; ed è con mirabile proprietà adoperato dal nostro Poeta (Vedi a pag. 604).

56-57. SCORSI PER QUATTRO VISI IL MIO ASPETTO STESSo: potei discernere lo smarrimento e l'allo del proprio sem

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biante ne' visi de' miei figliuoli : l'imagine mia da' quattro aspetti quasi da altrettanti specchi a me si rifletteva, ed io pensai ch' ei fossero sì contraffatti per patimenti e dolori simili a quelli ch' io sosteneva; e la mia disperazione tanto incrudì, che: AMBO LE MANI ec.-Il Conte scorge in quattro volti il suo vollo, cioè le sue faltezze di padre, e lo squallore della faccia sparuta. Tomm. (a)ASPETTO simili a me e per sangue e e per fame. Tommaseo (b).— Scôrsi per siQUATTRo visi il mio aspetto stesso, gnifica, se piace, lo sfigurarsi che per la morte lunga venivano facendo i visi e i corpi de' giovani, come il suo ; ma significa ancora più, che in quegli specchi di morte il padre riconosce atterrito sè stesso, si sente autore del nascere e del morire loro, s'immedesima nel lor patimento. Non dice IN QUATTRO VISI, ma PER, facendo errare moltiplicalo e ripercosso per quattro aspetti un sentimento quasi più tremendo del nulL'Imolese chiosa; la. Tommaseo (c).

PER QUATTRO VISI IL MIO ASPETTO stesso: Idest, in quatuor faciebus filiorum meorum. Filius enim et Pater una persona et eadem censentur ; vel quia erant siDi Latino (Tasso, Ger. millimi patri. IX, 35) a cui Solimano uccise cinque figliuoli, il poeta, imitando in certo modo questo luogo del Nostro, dice :

Il padre (ah non più padre! ahi fera sorte Ch orbo di tanti figli a un punto il face!) Rimira in cinque morti or la sua morte, E della stirpe sua che tutta giace. 58. AMBO LE MANI ec. Vedi vv. 55-58,

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E quei, pensando ch' io 'l fessi per voglia Di manicar, di subito levorsi,

verbo e del caso obliquo. Volete voi troncare a questo verso i suoi nervi? Recidete la trasposizione del verbo, e dite: Mi morsi pel dolor ambo le mani. Il volete versaccio da colascione? Toglieteli l'una e l'altra trasposizione:

Mi morsi ambo le mani per dolore. Le trasposizioni adunque sono spesso la vita del verso e della sentenza; ma mal adoprate l'uccidono. Vediamolo in questo verso medesimo colle parole diversamente distribuite :

Per dolore mi morsi ambo le mani. Qui tanto il verbo che il caso obliquo sono trasposti; ma la sentenza ha perduto gran parte del suo vigore; e perchè? Perchè tutta la sua veemenza, tutta la sua evidenza sta nel verbo mi morsi, col quale scoppia la disperazione. Nel verso dell' Alighieri per tutto il tratto ambo le mani per dolor, l'anima dell'ascoltante resta sospesa: e il cuore palpita nell' aspettazione, non potendo antivedere che debba succedere di quelle mani delle quali io posso fare più usi; sollevarle al cielo, cacciarle dentro ai capelli, o portarle ad altro atto conveniente al dolore che mi possiede. Viene finalmente quel disperato mi morsi, e ti solleva nell' anima tutto in un punto il fremito del terrore e della compassione. Otteniamo noi per intero questo patetico colla trasposizione che abbiamo fatta? No certamente. Il verbo adunque mi morsi, trasposto nel mezzo della sentenza, ne distrugge l'effetto; trasposto alla fine, la chiude mirabilmente, e con un tratto di Michelangelo termina il quadro della disperazione ». V. Monti (a).

Il Tasso (Ger. IV) imitando questo verso, disse di Pluto:

Ambo le labbra per furor si morse. 59-60. QUEI: i miei figliuoli — PENSANDO ec. Al vedere il padre mordersi le mani, non imaginerebbero certo che e' lo facesse per necessità di mangiare, se non sentissero in sè medesimi quella necessità crudelmente. E così dagli

(a) Considerazioni su la Protasi dell' Iliade.

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indizi e dagli effetti argomentasi lo stato loro più pienamente forse che non farebbe l'espressa parola. Tommaseo.E notevole eziandio che la rabbia, la quale suole invadere il famelico, erasi in Ugolino tutta conversa in atrocissimo dolor morale: il che vuol essere innanzi tratto avvertito, per ischivare l'insensata conclusione che tramuta un padre sì misero, in antropofago de' propri figliuoli. PENSANDO che il facessi (chiosa Benvenuto da Imola): ex rabie famis potius, quam ex rabie doloris. Et tamen contrarium erat.

MANICAR mangiar. Manicare è voce fatta dal lat. Manducare, mutata la d in n, o fognata affatto, siccome in diversi dialetti si ha bannera, banno, dicenno ec. per bandiera, bando, dicendo ec.; e in Provenzale bandera e banèra. Dante usò anche pretto il Manducare (Inf. XXXII, 127). Male avvisò egli (De Vulg. eloq., Lib. I. Cap. XIII), che Manucare fosse voce propria dell'idioma fiorentino; perciocchè la si trova eziandio in altri dialetti, siccome nel romano. Framm. Stor. rom., Lib. I. Cap. VIII: 0 missore Ubertiello, manuca bene. Nella Vita di Cola di Renzo, C. XXXVII: E meglio manicava e meglio dormeva. Folcacchiero de' Folcacchieri, Sanese :

Li drappi di vestir non mi s'agenza, Nè bono non mi sa lo manicare. Nel lamento di Cecco da Varlungo (St. XI):

E vadia pure il manicare al diascolo. Se fu cotesta voce, com'è tuttavia, del contado fiorentino ec.,non lasciarono però d'adoperarla qual voce polita molti altri autori; come fece Bono Giamboni nelle sue scritture, per finezza, nettezza e magistero di lingua pregevolissime. Intr. alle virtù, Cap. VII: I padri nostri manicarono le uve acerbe, e li denti de'figliuoli ne sono allegati. Nella Miser. dell' uomo, Tratt. III., Cap. VII: Non siate solleciti di dire Che manicheremo, o Che beremo ec. - Onde vogliamo inferire che sebbene per Dante fosse codesto manicare del volgar fiorentino ;

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