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Noi eravam partiti già da ello,

Ch'i' vidi due ghiacciati in una buca Sì, che l'un capo all' altro era cappello: E come 'l pan per fame si manduca, Così 'l sovran li denti all' altro pose

biltà di Bologna; ma dopo due anni cadde estinto nella battaglia di Forlì, dove il famoso Montefeltrano (Inf. XXVII, 43 seg.):

Fe de' Franceschi sanguinoso mucchio.

123. QUANDO SI DORMIA: di notte.Forse il Poeta ebbe l'occhio a quel verso Virgiliano (En. II, 265):

Invadunt urbem somno... sepultam, 124. ERAVAM PARTiti già da ello.Non pure un motto a Bocca, siccome vuol farsi ai traditori.

DA ELLO: da lui; da Bocca. - DA ELLo anche nel C. XXXIV, 51 (a).

124-125. NOI ERAVAM PARTITI... CH'I' VIDI еc. CHE: e, o quando. Il Biagioli fa questo che elemento della formula allora che. Sia pure. Certo è che nella nostra favella il che e il quando,quasi alla guisa dell'ut de' latini per cum, sonosi scambiati a vicenda. Il Petrarca (Madr. I):

Tal che mi fece or, quand'egli arde il cielo
Tutto tremar d'un amoroso gielo.

(a) Dall'ablativo illo, illa del pron. latino, i nostri antichi tolsero ello ed ella, siccome di molti altri nomi si fece. Donde analogamente provennero le uscite al plurale elli ed elle. Il B. Jacopone da Todi (Lib. V, C. XVIII, 5): Chi non s'accosta ad illo. Ne' dialetti calabresi vive illu variato per diversità di regioni in iddu, iju, iru ed igliu. Le due ll della voce latina si conversero nella pronunzia e nella scrittura in gl:onde si disse egli (Inf. III. 42, nota). Così svariatamente per diversità di tempi e di luoghi si disse milia è miglia; consil o consel e consiglio, conseglio; vermillo e vermiglio; collo e coglio; baccelli, baccegli: volendo, vogliendo: e per capelli,bel li, cavalli ec. sono anche a grado de' moderni capegli, begli ec. Le due ll si mutarono come tra i calabri, eziandio negli altri volgari idiomi, in J, qual si pare nelle voci già viete orgojo, mejo ec. per orgoglio, meglio ec.-Checchè ne fosse adunque, quello poi sembra esser certo,. che Dante non fu nè solo, nè il primo che usasse cotesto ello troncandolo in el per egli; variandolo al plurale in elli, e preponendovi negli obliqui le particole sovra, da, con, di, tra, in ec. secondo l'analogia della lingua, e non per licenza poetica come alcuno notò. Il ch. Tominaseo ci ricorda ello trovarsi nel Firenzuola; ed esser ancor vivo nel Valdarno e nel Veneto.

125

Dove quando sta in luogo di che, siccome notò il Tassoni.

125. VIDI DUO GHIACCIATI ec. Eccoci a quel luogo di Dante « al qual solo (senza tutte l'altre maravigliose bellezze del suo poema) egli è debitore di quella gloriosa immortalità, che il tiene e tenne e terrà vivo nella memoria e bocca degli uomini, quanto sieno al mondo creature che apprezzino la bellezza. Cesari.— Di qui si fa principio all'episodio del Conte Ugolino, aprendosene tutta la mestissima scena al canto seguente.

BUCA. Non piano il ghiaccio; faceva Ciascun buche e rialzi. Tommaseo. traditore in ciascuna buca; sì detta per buco o foro in rapporto al luogo che il dannato occupava, e non già, crediam noi, perchè vi fosser buche senza peccatori ; essendo facile a supporre che chi trade e vi piove non dura, per divina disposizione, gran fatica a farvela. Que' rialzi in sì orribile stagno infernale non reputiamo strana cosa; se non che il luogo è a forma di pevera che fa da specchio. DUO IN UNA BUCA, dove ognuno ha la sua, è nuova cosa, alla quale bisogna por mente.

126. L'UN CAPO ALL'ALTRO ERA CAPPELLO: L'un capo era di sopra dall' allro; coprivalo.

127. COME 'L PAN PER FAME SI MANDUCA; è tanto dire quanto: ingordamente ec.-MANDUCA: mangia. Dante Rim. Canz. IV:

che ogni senso Colli denti d'amor già si manduca Ciò che nel pensier bruca

La mia virtù.

Dalla voce lat. manducare gli antichi dissero anche manucare e manicare.Al. lez. manuca.

128. 'L SOVRAN: quel di sopra. L'ediz. di A. Zatta, Ven. 1757, ha sopran, let

Là 've 'l cervel s'aggiunge colla nuca.
Non altrimenti Tideo si rose

Le tempie a Menalippo per disdegno,

tera che il Witte adottò pel suo testo, e il Blanc presceglierebbe tutte le volte che la voce venisse presa nel senso non già fisico, ma morale.

Var. Cod. Vat. 3199: l'un sovra l'altro i denti. Ediz. di Jesi: l'un sovra all'altro. Le ediz. di Fol., di Mant. e di Nap.: sovra li denti.

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129. LA 'VE'L CERVEL ec. alla collottola. Land., Vellut. Ove comincia la midolla spinale. Volpi, Venturi, Biag. « Il cervello per la sommità del cranio, sotto della quale ricopresi il cervello »> Lomb.-Ma il Poeta intende grossamen

te significare in genere le parti di dietro della testa, che l'un dannato all'altro addentava: siccome giù disse, che quei gli rodeva: il teschio e l'altre cose; e nel Canto seguente: Del capo ch'egli avea di retro guasto.

S'AGGIUNGE:Si congiunge.-Var.S'aggiugne, il Cod. Cassin. e l'ediz. di Nap.; si giugne, il cod. Filipp. Si giunge lez. prescelta dal Witte.

130-131. TIDEO andato con Polinice alla guerra di Tebe contro Eteocle (Inf. XXVI,54,nota) venne mortalmente ferito da Menalippo, e questi simultaneamente da quello. Or mentre Tideo si moriva, disfogò la sua rabbia, rodendo del nemico Tebano il capo, da Capaneo troncato e appresentato a lui. In persona di esso Tideo, Stazio (Lib. VIII) dice:

Caput, o caput, o mihi si quis
Adportet, Menalippe, tuum.

Imperat abscissum porgi, laevaque receptum
Spectat atrox hostile caput, gliscitque tepentis
Lumina torva videns, et adhuc dubitantia figi...
Atque illum effracti perfusum tabe cerebri
Aspicit, et vivo scelerantem sanguine fauces,
Nec comites auferre valent etc.

Il Petrarca accenna lo stesso fatto (Part.
I, son. 195):

L'ira Tideo a tal rabbia sospinse,
Che morend'ei, si rose Menalippo.
E in simigliante modo, appo il Tasso
(Ger.IX,88), Solimano uccide Argillano:

Nè di ciò ben contento, al corpo morto,
Smontato del destriero, anco fa guerra;

130

Quasi mastin che 'l sasso, ond'a lui porto
Fu duro colpo, infellonito afferra.
Oh d'immenso dolor vano conforto,
Incrudelir nell'insensibil terra!

SI: riempitivo, ma che rincalza. Tommaseo. - A Luigi Muzzi è parso sinonimo di non altrimenti, massime che in alcun'antica stampa pregevole, e nelle moderne più note, come in quella del Cesari (Verona 1824), di Padova (1827) e de' quattro Accademici della Crusca

(Fir. 1837) questa particola si legge acsto luogo non come avverbio, ma come centuata. Si giace, secondo altri, in queaffisso, nella stessa guisa che il Petrarca l'adoperò nel passo allegato: si rose Menalippo; ed il Poeta nostro in questo ti mangi. Non è chi nieghi esser proprio medesimo canto (v. 134) disse: che tu di nostra favella simigliante uso di cotesto si; ma quel dire ch'esso rincalza, so che accrescimento di forza nella sisenza saper che e come; o mostra non gnificazione del verbo RODERE, è una specie di mistificazione grammaticale ed un parlar vago che o nulla esprime, o tanto, che non si è chiaro di quello che vuolsi esprimere. Noi vediamo in questo Si una particella pronominale da non confondersi con l'affisso degl'intransitivi. Quando il verbo significa azione, essa ha un termine obiettivo sul quale opera, e queste particelle esprimono il subiettivo di essa, in quanto l' effetto dell'atto riflette o l'utilità, o la responsabilità, o altra ragione dello stesso agente, o di colui per lo quale si agisce: al che fa mestieri di vicenomi, non mica di ripieni. I latini dicevano mihi, tibi, sibi ec., noi mi, ti, si ec. Di tal che non sarebbe da chiamar proprietà di nostra lingua quello che ha essa comune con le altre. Gli esempi, nonchè le considerazioni da farvi su, ci trarrebbero a lungo. Gli studiosi ne troveranno in buon dato negli ottimi scrittori. Anche S. Paolo disse: Judicium sibi manducat et bibit: dove il sibi manducat è simile del si rode; identico col si manduca,che Dante dice nelle Rime da noi testè addotte. (v.127).

Che quei faceva 'l teschio e l'altre cose. O tu che mostri, per si bestial segno,

Odio sovra colui che tu ti mangi,

Dimmi 'l perchè, diss' io, per tal convegno; Che se tu a ragion di lui ti piangi,

132.CHE correlativo di non altrimenti del verso 130.

QUEI: il sovran (v. 128)—Var. Quel, Cod. Cassin.; ediz. De Roman. ec.

FACEVA, Scusa qui il verbo rodere.· IL TESCHIO E L'altre cose: l'osso del capo (il cranio), e le altre cose, che vi eran entro. Barg. - LE ALTRE COSE: COtenna, capelli, cervella ec. Lomb. « Quel l'altre cose è famigliarità di maestro e reticenza potente ». Tommaseo. parli di dietro della testa. Ces.- Var. Al teschio, Cod. Filipp. e Cassin. II Witte presceglie il teschio: così il Niccolini,il Tommaseo ec.-Faceva'l teschio, lettera più comune.

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Le

133. Bestial SEGNO. « Questo bestial è pieno di forza ». Cesari. Unico segno, al quale si conosca l'odio delle fiere, è l'assalto ch'esse danno co' denti, con le unghie, con li artigli, o con altre armi lor date dalla natura. L'uomo, al cui mal volere e alla cui possa s'aggiunge l'argomento della mente, per mille diversi segni può dimostrarlo. Il Conte Ugolino trapassa ogni misura nell' odio suo; e bestiale dee dirsi l'indizio che ce ne porge, in quanto a mo' di tigre rabbiosa adcenta il teschio del suo nemico. Stazio, di Tideo che si rode Menalippo (Theb. VIII), dice: Sit qui rabidarum more ferarum Mandat atrox hostile capul. È ivi (IX): Nonne Hircanis bellare putatis Tigribus? - Rupisse... fas odii ec. (a).

(a) Si può osservare che Dante con brevi, ma potenti parole sveglia la fantasia; e fa che da sè stessa compisca vive le imagini, delle quali egli non segna che pochi tratti di maestra mano.Nel descrivere l'immane ferità di Tideo, Stazio si perde in istudiate amplificazioni; e a destarne T'orrore ti pone innanzi agli occhi Marte e Pallade inorridite, e le stesse Ceraste e la Gorgone aborrenti dalla vista del fiero pasto. Dante con misurata parsimonia di parole e di colori poetici ti fa spettatore della terribile scena, e senza toccare affetti di entità celesti o infernali, mira direttamente al tuo animo, e lo commuove. I

135

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Diss'io. O TU (v. 133): Bel cominciare di tratto da ciò che e' disse a colui, riserbando IL DISS'io al terzo verso! ciò mostra impeto d'animo commosso. Ces. PER TAL CONVEGNO: a cotal patto. Lat. bar. Convenium, convenzione.

136. TI PIANGI: li lagni, ti duoli. Ugolino faceva di più, che non era il solo lagnarsi, o dolersi. Poco innanzi il Poeta (v. 133) chiama bestial segno quello, al qual conoscevasene l'odio: il ti piangi sarà dunque da riferire al discorso che il Conte stava per tenergli; o, se all' atto ond' egli si rodeva Ruggieri, bisognerà ricordare il valor della voce latina plangere, ch'è peclus et caput prae dolore percutere. Siccome da tago, frago ec.si fecero tango, frango ec.; così plango venne da plago: e plaga è anche perLa memoria del passato ripercoteva l'acossa, danno, offesa, esizio, calamità ec.

versi del poeta latino stillano rugiada rettorica, e ti fan vedere il loro autore anelante alla meta dell'arte: la forza della studiata elocuziodii si dilungano dal mortale che legge, e l'odio ne è tanto in lui meno efficace; per quanto gl'id

di Tideo riusciva allo stesso scrittore materia

di favola troppo antica. In Dante l'arte è natumagistero. Per lui non Tideo che divora il crara, e a gran fatica ti lascia scorgere il mirabile nio dell' arciero tebano, è l' offeso Ugolino che come feroce leone s' asside sulla nuca d'un ar

civescovo,e ne tranguggia il cervello. Degli eroi favolosi appena una incerta rimembranza ci viene come pallida luce che attraversa le nebbie de' tempi: Ugolino co' suoi consorti dell'ira ei suoi fatti furon conti al Poeta, e appartengono alla storia della nostra patria, alla quale avea quel grande tutto sacrato il cuore e l'ingegno. La torre della fame era li testimonio dell' opra. Da ciò viene in gran parte che il Canto del Divino Alighieri ci offre lo spetta. colo d'una tragedia, alla quale noi assistiamo commossi, quasi contemplando le miserie della terra natale. Con la spontanea vigoria d'una lingua, non per anche fucata dalle leziosaggini d'ammanierati imitatori, Dante ti esprime i suoi virili concetti in versi, da'quali,come dagli sterpi de' suicidi, escono insieme parole e sangue.

Sappiendo chi voi siete, e la sua pecca,
Nel mondo suso ancor io te ne cangi,
Se quella con ch'io parlo non si secca.

nimo di Ugolino, trassinava le piaghe
dell'antico dolore, ed infiammavalo con-
tinuo contro il proprio avversario.

137. SAPPIENDO: sapendo le Varior. del Witte; sappendo, il cod. Cassin.; sappiendio le ediz.di Foligno, di Mant., di Nap., e il Cod. Filipp. (Sec. XIV).La

nostra lez. è più comune. Può osservarsi che nelle inflessioni del verbo sapere il raddoppiamento del p accade il più del

le volte innanzi alla vocale i.

PECCA: per pecco, peccato, colpa, delitto. Nel C. XXXIV, 115, è detto che

Cristo:

Fu l'Uom che nacque e visse senza pecca.

138. TE NE CANGI: le ne renda cam

bio; ti ricambi questa tua cortesia in rispondermi e dirmi CHI VOI SIETE ec.moltiplicando cioè la fama su nel mondo, e pubblicando le tue ragioni, e i torti di lui. Il Poeta adopera sempre co' dannati la promessa di fama e di gloria nel mondo per recarli a parlare: e il più sovente cotesta lusinga non torna infruttuosa : perchè l'ambizione è la più ghiolla passione che que' miseri si portarono colaggiù: il che non è lodevole amor di fama, ma prelta ingiusta superbia... Ma egli è, oltre a ciò, da osservare la somma fecondità del Poeta, che questa cosa ovvero lusinga ripete colante volle, sempre con modi e forme diverse. Cesari.

Per la forza di quell'ANCOR 10, crediamo che il Poeta voglia dire: Tu qui te ne vendichi; ed anche io su nel mondo, come vi sarò risalilo, saprò a biasimo della sua colpa rendergli pan per focaccia: qui te ne cangi tu; di sopra te ne cangerò io. E mantenne la promessa; perciocchè i suoi versi non mordono l' iniquo tradimento dell' Arcivescovo, men di quello che i denti d'Ugolino gli rodano il capo. Alcun dirà forse che qui l' Alighieri si comporta col Conte, siccome altrove (Inf. XIII, 52-57) fe

ce con Pier delle Vigne. Alla quale osservazione non ci staremo senza rispondere, ch' esser potè cortesia il rinfrescare e confortare la fama di quell'innocenmai ad Ugolino, perverso traditore ante, ed anche, se si voglia, giustizia; non ch' esso, avrebbe il Poeta usato lodevol atto di cortesia, quando ad appagare la propria curiosità di saper quali fossero i misleali della maledetta buca, inteso a

vesse di favorir l' uno notando l' altro di

eterna infamia. Egli non ricambia la cortesia del Conte con un' altra cortesia ; ma fieramente avverso ai traditori, dà a lui il debito suo, e con la saetta della sua lingua ferendo il prete Ruggieri concorre a fare per giustizia sopra il mondo, quel che Ugolino faceva in Inferno a sfo

go

di rabbiosa vendetta.

139. QUELLA CON CH'IO PARLO: la lingua. Perifrasi bella ed evidentissima.

SECCA. Per morte: o, se mi basta l'ingegno. Potrebbesi intendere quella con ch'i' parlo, la penna; e corrisponderebbe al modo di sopra: ch'io mella il nome tuo tra l'altre note ». Tommaseo. - A questa troppo sottile interpretazione non è andato nessun altro dei comentatori, e non doveva; perciocchè con la penna non si parla, ma si scrive; nè di essa fu mai detto che si seccasse; nè Dante dicendo con ch'i' parlo potè in quell'atto intender d'altro che della sua lingua. Dippiù lo stesso Ch. espositore vide per questo vago modo significato ciò che in diversi termini si direbbe: s' io vivrò: or a questo intento la penna non ha veruna relazione, potendo essa seccarsi ogni volta che lo scrittore anche vivo non l'intinga nel calamaio; del quale propriamente si direbbe il seccarsi, quando di tratto in tratto non si rifornisse d'inchiostro. Il Poeta portava di qua novelle (v.111) di quel mondo, e in questo egli fa ufficio di chi parla,più che di chi scrive.

CANTO XXXIII.

Seguito della seconda sfera del nono cerchio. Terza sfera (Tolomea):
i Traditori di chi s'era in loro fidato.

La bocca sollevò dal fiero pasto
Quel peccator, forbendola a' capelli

1. LA BOCCA SOLLEVò ec. Sì potenti furono le parole del Poeta (C. prec. vv. 133-139) a fare che Conte Ugolino, nella sua fame rabbiosa, lasciasse il fiero pasto per rispondere a lui ! Questo canto si continua al precedente: e noi non ancora siam fuori dell' Antenora, nè della narrazione incominciata (C. prec. v. 124 segg.). Qui: voi udite e grave e terribil principio, e numero di versi pieno e sonoro. Ces.

SOLLEVÒ leggono tutt' i comentatori con l'edizione del Burgofranco (Ven. 1529), con la 2a. Rovilliana (Lion. 1551) e con la più parte degli altri testi. Il codice Cassin. e l' ediz. di Jesi hanno su levò. Il Vat. 3199: si levò, forse per si levò, qual si legge nel cod. Riccard. n. 1028, e nelle prime edizioni di Foligno, di Mantova (an. 1472), di Napoli (an. 1474), e nel famoso cod. Filippino. Noi saremmo tentati di prescegliere quest'ultima lettera pel nostro testo: tanto ci pare propria a dinotar la continuazione nella forma del favellare, il legame tra i pensieri, l'effetto che seguita alla dimanda del Poeta ; e, quel che più monta, il valore del verbo levò, la cui forza è più molta a significarci la violenza dell'atto e il totale distacco dal pasto a poter favellare. Pure Lucan., VI: Haec ubi fata, caput, spumantiaque ora,levavit. ove il latino levare ha sentimento non solo di alzare, ma eziandio di auferre. A questo, secondo a noi pare, mal risponderebbe la voce sollevare.

FIERO. Chi potrebbe mangiar del capo nonchè d' un uomo qual si sia, ma d'un Arcivescovo,altri che una fiera? Solo una belva non guarderebbe alla nobile forma umana e all' imponente maestà di una cherica grande. Gli animali feroci non mangiano carne della propria specie. Qui veramente homo homini lupus. Quindi

FIERO per crudele,orribile,spaventevole. 2. FORBENDOLA. Nettando la bocca tanto che potesse favellare. Appo Stazio simigliantemente Polinice piangendo su Tideo già morto gli terge la bocca ancora immonda del sangue di Menalippo. (Theb., IX): Etiamnum lubrica tabo Ora viri tergit lacrymis (a).—«Quel fiero pasto, è ben fiera cosa, ma quel forbire la bocca ai capelli della nuca, è un cotal atto di sprezzo insieme e di rabbia, ed una tratta maestra; cioè delle usate particolarità, che danno un mezzo rilievo a certi luoghi di Dante ». Cesari. Hai l'orribile della pittura senza la labe (b) che imbrodola il roditore; ch'anzi...il forbire la bocca ai capelli è mondezza più orribile d' ogni sozzura.

FORBENDOLA. Questa voce presto argomento al Colombo, per dimostrare che la forza del dire dipende in gran parte dall' uso proprio de' vocaboli (c).

qui

(a) Ora s' intende anche per tutto il viso; e principalmente per la bocca: come in Dante

va intesa con la bocca eziandio tutta la faccia sollevata dal fiero pasto.

(b) II Ch. Tommaseo pone un confronto tra
questi versi di Dante e quelli di Stazio:
Atque illum effracti perfusum tabe cerebri

Aspicit, et vivo scelerantem sanguine fauces.
Abbiamo fatto tesoro delle sue preziose paro-
le (Illustr. al C. XXXII, p. 477, (1) ).
to dal valor de vocaboli, quanto dall' uso pro-
(c) « La vera forza del dire non dipende tan-
prio che se ne fa. Allorché Dante mi dice nel
principio del canto XXXIII dell' Inferno: La
bocca sollevò ec. (1-3), con quel forbendola egli
mi rappresenta la cosa con più d'evidenza che
se mi avesse detto sfregandola, o strofinandola.
E pure sfregare e strofinare sono termini di
maggior significazione, e per conseguente di
maggior forza che forbire; ma perchè non e-
dirsi, poco o nessuno effetto essi avrebbono
sprimono propriamente quello che ivi era da
prodotto. Al contrario il vocabolo forbire, quan-
tunque esso sia per sè stesso di significazione
più debole, perchè esprime la cosa appuntino,
ce la mette proprio davanti agli occhi. Aggiun
gasi che con quel FORBENDOLA A' CAPELLI CI

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