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tare qualsivoglia argomento poetico con la lingua de' bimbi. Dicendo che quell'impresa non era da balbettanti,non dava così segno certo della gravità e difficoltà di essa: anche pensando che per tale espressione si volesse dinotare l'opposto,qual sarebbe l'eloquio d'uno scienziato ed eloquente; poichè tra questo e il linguaggio de' bimbi corrono infiniti gradi di perfezione. A noi più che le altre sposizioni piacerebbe quella del Bianchi, la quale è questa. NE DA LINGUA ec.: Nè tale che possa effettuarsi con una lingua bambina. E così veramente potea dirsi il volgare italiano a que' tempi, prima che Dante lo crescesse a quella grandezza e nobiltà che vediamo nel suo poema. Ma non sembra che Dante potesse ragionevolmente appellar lingua da bimbi quella, in generale, degli scrittori che lo precessero dopo la prima metà del XIII secolo; nè quella, in particolare, del Guinicelli e del Cavalcanti, che sono i due Guidi tenuti da lui gloriosi nel fatto della lingua (Purg. XI, 97-99), e da lui stesso emulati e vinti. Si sarebbe poi anche guardato di chiamar lingua da bimbi quella che ripulì e nobilitò col proprio studio; e della quale, nel Convito, scrisse: Si vedrà la sua virtù (del Volgare) siccome per esso altissimi e novissimi concetti convenevolmente,.. e acconciamente,quasi come per esso Latino, manifestare nelle cose rimate. Questo sarà luce nuova, sole nuovo, il quale surgerà dove l'usato tramonterà: e darà luce a coloro che sono in tenebre, e in oscurità, per lo usato sole che loro non luce. Oltracciò il passo che il Biagioli adduce, non fa gran pruova in sostegno della comune opinione.Nel Paradiso dice il Poeta:

Omai sarà più corta mia favella,

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Pure a quel ch'io ricordo, che d'un fante Che bagni ancor la lingua alla mammella. e s'intende che non è favella niuna che possa descrivere la celeste beatitudine. Qui al contrario si accenna positivamente una lingua diversa da quella che chiama babbo e mamma; e bisogna cercare quale fosse nel pensiero del nostro Poeta. Egli comunque amasse di cuore la lingua sua, chiama non pertanto (nel Convito) formento il Latino,biado il volgare. Il Lalino non è suggetto al più

illustre volgare, ma sovrano e per nobiltà e per virtù e per bellezza. Lo sermone il quale è ordinato a manifestare lo concetto umano è virtuoso (perfelto), quando quello fa; e più virtuoso è quello che più lo fa. Onde, conciossiacosachè lo Latino molte cose manifesta concepute nella mente, che 'l Volgare fare non può, siccome sanno quelli che hanno l'uno e l'altro sermone; più è la virtù sua, che quella del Volgare. Inclineremmo dunque a credere che per LINGUA CHE CHIAMA MAMMA E BABBO S'intendesse significare la lingua italiana, non atla quanto la latina alle sublimi descrizioni e narrazioni poetiche: perciocchè la nostra favella può bene per quelle due voci mamma e babbo distinguersi dalle altre; come pel solo carattere del Si dalle lingue dell' Oc e dell'Oil; senz' uopo che la si dica lingua da fantolini; siccome piacque chiamarla ai comentatori, e forse contro l'intendimento del Poeta.

Ma per noi sta che Dante abbia con quelle parole voluto significarci la lingua plebea,o il volgare ignobile,inetto a ritrarre le poetiche fantasie; e che voglia con questo dinotarci gli sforzi ch' ei fa per sollevare l'eloquio volgare all'altezza della materia che tratta. Se la lingua che chiama mamma e babbo si potesse pur dire da bimbi; noi pure non potremmo per questa intendere che il volgare ignobile, a differenza del cortigiano. E questo cel dice Dante stesso (De vulg. eloq. Lib. I, C. 1): Dicimus... quod vulgarem locutionem appellamus eam, qua infantes adsuefiunt ab adsistentibus, cum primitus distinguere voces incipiunt, vel, quod brevius dici potest, Vulgarem locutionem asserimus, quam sine omni regula nutricem imitantes, accipimus. Indi si può arguire che l'illustre Tommaseo (nonchè gli altri prima di lui) frantese il vero fine, onde il Poeta adoperasse le voci mamma e babbo: che non fu perchè abbia egli usato il volgare plebeo, o l'idioma Fiorentino (a); ma per significare anzi, come co

(a) Per Dante l'idioma fiorentino, comunque favorito, non raccoglieva in se i pregi esso solo della lingua illustre, ch'egli studiava asseguire nelle sue nobilissime scritture. Post haec veniamus ad Tuscos; qui propter amentiam suam

testo volgare plebeo non era quello che facesse al suo scopo. Noi su questo argomento molto altrove (Inf. XX, 130, nota) ragionammo avverso l'opinione del Ch. Sabenicese. Ora in questo luogo della Divina Commedia egli scrive: « MAMMA. Dante, nella Volgare Eloquenza, parlando delle voci che non sono da ammettere nello stile tragico della poesia, dice: In quorum numero nec puerilia propter sui simplicitatem, ut mamma et babbo (II, 7). Altra prova che conformare il Volgare Eloquio con la Commedia è sproposito ». Noi crediamo aver dimostrato l'opposto nel luogo citato. Ora per queste parole ci sentiamo come rappellati sull'arena del combattimento; e la possente forza delle ragioni in contrario ci rende arditi a discendervi, avvegnachè quasi un nano contro un gi

gante.

Che la Divina Commedia non sia scritta nel volgar fiorentino, senza le mille altre prove, possiamo inferirlo anche da questo: che il Poeta emulando la gloria di Virgilio:

Di cui la fama ancor nel mondo dura, E durerà quanto il mondo lontana, avrebbe sperato indarno che la sua rinomanza passasse ai futuri, se scritto avesse il sacro poema nella lingua plebea; perciocchè questa si trasmuta di tempo in tempo, e la memoria delle geste umane non si tramanda alle lontane generazioni, se non per la lingua illustre. Adinvenerunt ergo illam, ne propter variationem sermonis, arbitrio singularium fluitantis, vel nullo modo, vel sallem imperfecte antiquorum attingeremus auctoritates, et gesta, sive illorum, quos a nobis locorum diversitas facit esse diversos. (De Vulg. Eloq.Lib. I, Cap. IX). Ed egli è pur certo che Dante non scrisse nè pe' soli Fiorentini,

infroniti titulum sibi Vulgaris Illustris arrogare videntur, et in hoc non solum plebeorum dementat intentio, sed famosos quamplures viros hoc tenuisse comperimus... Itaque si Tuscanas examinemus loquelas, compensemus qualiter viri prachonorati a propria deverterunt, non restat in dubio, quin aliud sit Vulgare, quod quaerimus, quam quod attingit populus Tusca norum. Intanto anche i dotti moderni attribui

scono al volgare di Firenze più di quello, che non gli concedette lo stesso Dante!

e nè pe' soli contemporanei; avendo egli stesso (Par. XVII. 119, seg.) detto:

Temo di perder vita tra coloro

Che questo tempo chiameranno antico. Or questa eternità di fama non polea egli mica ripromettersi dal volgare plebeo: Lo quale a piacimento si tramuta. Onde vedemo nelle città d'Italia,se bene volemo agguardare a cinquanta anni, molti vocaboli essere spenti e nati e variati; onde se'l piccolo tempo così trasmuta, mollo più trasmuta lo maggiore. Sicch' io dico, che se coloro che partiro di questa vita, già sono mille anni, tornassono alle loro Cittadi, crederebbono, la loro cittade essere occupala da gente strana, per la lingua da loro discordante. Convito.-Sapea dun

que bene Dante che scrivendo in lingua non aulica gli sarebbe toccata una celebrità, poco dal più al meno, di mezzo secolo. Ma il fatto dimostra il contrario; chè dopo lui la sua fama ancor luce (Inf. XIV, 66); e mentre dura il tempo non saranno di lunga grazia vote (Inf. XVI, 129) le note della sua Commedia ; siccome mostra credere lo stesso Sig. Tommaseo, che alle dotte illustrazioni di quelle raccomanda in gran parte l'eternità del suo nome.

Questo chiarissimo uomo s'argomenta così: Dante esclude onninamente dal Volgare Illustre le voci puerili: mamma e babbo son voci usate nella Divina Com

media: intese egli dunque scriver questa nel volgare plebeo. Si potrebbe già dire che una rondine non fa primavera; e che però nè l'introcque solo, nè il manuca, nè mamma, nè babbo, nè qualche altro vocabolo simigliante, farebbero plebea la lingua della Divina Commedia; siccome le poche parole di Cacciaguida (Par.XV, 28-30) non la fanno latina; nè provenzalesca quelle di Arnaldo Daniello (Purg. XXVI, 139-147); nè clericale, scolastica, curiale quarantaquattro e più motti, biblici ec.,che si trovano il più sparsi per le cantiche del Purgatorio e del Paradiso; e siccome da ultimo le voci di Nembrot non la fanno babelica, nè infernale quelle del superbo Plutone. Osserviamo che mamma e babbo son voci sì bene puerili, ma non de' soli fantini, e che non possano a tempo e luogo usarsi an

che da quelli, che già da pezza hanno rotto lo scilinguagnolo. E pure ponendo da parte queste ragioni, ci piace insistere al principio allegato dal Ch. Tommaseo. Noi lo esponiamo colle parole di Dante (De Vulg. Eloq., Lib. II, Cap.VII): Si Vulgare Illustre consideres... sola vocabula nobilissima in cribro tuo residere curabis. In numero quorum nec puerilia ut Mamma et Babo, Mate et Pate;nec muliebria propter sui mollitiem, ut dolciada et placevole; nec silvestria propter austeritatem, ut gregia et caetera; nec urbana lubrica et reburra, ut femina, et corpo,ullo modo poteris conlocare. Sola elenim pexa, irsulaque urbana tibi restare videbis, quae nobilis sima sunt, et membra Vulgaris Illustris. Ora non dice anch' egli poco appresso che voci irsute, voci nobilissime sono da intendere, oltra le molte altre, ancor quelle: quae vel necessaria sunt, vel ornativa videntur Vulgaris Illustris? Et necessaria quidem appellamus, quae campsare non possumus.... Ornativa vero dicimus omnia polisyllaba, quae mixta cum pexis pulchram faciunt harmoniam compaginis, quamvis asperitatem habeant adspirationis, et accentus, et duplicium, et liquidarum, et prolixitatis cc.-Non è dunque da intendere in senso così rigoroso e assoluto il principio allegato dal Ch.Tommaseo. Se così fosse, avrebbe dovuto il Poeta rifiutare siccome vili infinite voci tolte di peso dal volgare popolano, anzichè adoperarle nelle sue altissime canzoni: nelle quali non si vuole usare che il Volgare illustre,secondo gli stessi precetti dell'Alighieri. Ed avrebb'egli patito difetto delle voci corcare, palpare,gonna e gonnella; avrebbe lasciato, ad es., il mangiare ai parassiti, l'ignuda ai disonesti, la pregna raccomandata alle levatrici, il morto ai becchini, il consumare agli ospedali, la pietanza ai refettori monastici, l'uccidere e l'impendere ai micidiali e al boia, il favoleggiare al le femminette, il farneticare ai matti.

Il precetto assoluto del sine z vel x duplicibus, sine duarum liquidarum geminatione avrebbelo fatto povero d'infinite voci, ch'ei pur seppe assai bene adoperare siccome guizzo, durezza,

spezzare, rezzo, prezzo, sezzaio; e fino dell' intelletto, dell' innamorare, della chiarezza, della giovinezza e della bellezza. Vietasi, come di mamma e di babbo, eziandio l'uso del corpo: e dunque il più gentile de' nostri lirici errò egli, quando disse:

Vedrà, se arriva a tempo, ogni virtute,
Ogni bellezza, ogni real costume

Giunti in un corpo con mirabil tempre? E corpo,l'usò anche Dante nella Canz. XI. E se corpo non gli era lecito usare, non sappiamo onde gliene venisse poi il dritto d'infilzare per le sue rime le parti di esso: come il braccio, il petto, il cuore, il lato dritto e il manco, i capegli, le trecce, la spaciosa fronte, i bianchi dili, il dritto naso, il ciglio pulito, il labbro sottile e vermiglio,la bocca svelta, la bianca gola:

Commessa ben dalle spalle e dal petto. e finanche:

Il mento tondo, fesso e piccioletto. e,che più è (Canz. XV), quelle che asconde e copre Madonna Beatrice, simbolo della Sapienza: a cui non dubitò di attribuire un corpo in figura, dicendo: Nessuna mai non piacque Generalmente, quanto fa costei; Perchè si trova in lei

Biltà di corpo e d'anima bontate. Vieta simigliantemente il porre nelle nobili scritture la voce femina, ed egli primo viola il suo precetto; ma di ciò non cura dove gli vien fatto d'usar la voce assai appropriatamente. A noi, per verità, non è potuta occorrere cotesta femina in tutte le sue Rime; e non la era voce che vi si dovesse invenire, perciocchè indegna di quella Beatrice, la quale, più che femmina, era fatta donna e madonna del cuore e dell' anima del Poeta. · Virgilio (Æn. I, 364) dice: Dux femina facti. Or ci sarebbe, per avventura, chi volesse qui appuntare quel sommo poeta, d'aver posta una voce urbana lubrica nel suo divino poema? La frase è sì spressa a significare l'idea concetta dal Mantovano; che noi siam di credere, ch'essa perde della sua bellezza nel volgarizzamento del Caro, là dove questi le tre sole voci reca nelle undici del verso:

E fu di donna un cosi degno e memorabil fatto.

Nè l'Ambrogi e gli altri fecer di meglio in questo luogo, voltando femina

Ma quelle Donne aiutino il mio verso,
Ch' aiutaro Anfione a chiuder Tebe;

10

Var. A lingua, il Cod. Cassin. il Filipp., e l'ediz. di Nap. 1474.

10. DONNE: Muse; quasi Signore o IV): Regina... Calliope, ovvero dette reine del canto. Orazio (Lib. III, Od. DONNE, perchè dominano gli umani af

fetti.

AIUTINO. Chè da se solo non basta (a).
de' più. Virg. Ecl. VI:
VERSO. Il numero del meno per quel

Nostra, nec erubuit silvas habitare, Thalia.
Prima Syracosio dignata est ludere versu

in donna. Il Poeta Latino si lascia indietro costoro; significando la difficoltà dell'impresa esser superata da una femina, ch'è un essere debole di sua natura; e dipignendo, per la proprietà stessa delle parole dux e femina, il mirabile contrasto tra la debolezza e il manco del valor muliebre, ed un opra, che appena da forti e virili animi sariasi potuta condurre a fine. Or tutto questo è svanito nelle traduzioni, e il verso toscano resta privato di quegli stessi elementi, che costituiscono la bellezza dell'originale. A queste distinzioni e proprie favole ci narrano di questo gran cantore, 11. ANFIONE. Seguitando quello che le tà di vocaboli ebbe però il Nostro l'acuta Orazio (Arte Poet.), là dove tocca delsua mente, quando nella Divina Com- la media dice: Donna di virtù, donna gentile, donne antiche, la donna che qui regge ec., dove intese parlarci di una sublime, virtuosa, grande, signora, regina, o delle Muse inspiratrici del canto: e,al contrario, adopra femmina e femminetta, ove ci vuol significare soltanto o il sesso (Inf. IV,30;XX,44;Purg. XXIV, 43), o le non lodevoli qualità (Inf. XVI, 66 e 89; Purg. XXIII, 95), o la poca stima che se ne fosse dovuto avere. Il Poeta ciò fece, usando egli medesimo di quel discernimento a lui proprio, e che agli altri raccomanda in fine del citato capitolo: Quae dicta sunt de fastigiositale vocabulorum ingenuae discretioni sufficiant. Ciguarderemmo bene dal profferire, che fosse scritto nel basso volgare lo stesso Malmantile, cui il Lippi pose ogni suo studio, e con arte finissima riuscì ad intarsiarlo de'più vili riboboli fiorentini: nè reputiamo lingua da bimbi e nè plebea, dov'egli canta (IV, 12):

Costui teneva in man prima le carte, Che legato gli fosse anche il bellico: E pria che mamma, babbo, pappa e poppe, Chiamò spade, baston, danari e coppe. Insomma noi terremo sempre, che la Divina Commedia sia lo specchio più splendido della lingua illustre d' Italia; nè l'autorità del grande Tommaseo sarà mai tanta, da persuaderci a dire, che l'Alighieri abbia invocate le muse del Parnaso e del Cielo, perchè gli cantassero la Divina Monarchia con la favella reietta del volgare plebco.

dignità ed utilità della poesia, scrive:
Caedibus, et victu foedo deterruit Orpheus,
Silvestres homines sacer, iterpresque Deorum
Dictus ob hoc lenire tigres, rabidosque leones.
Dictus et Amphion Thebanae conditor arcis
Saxa movere sono testudinis, et prece blanda
Publica privatis secernere, sacra profanis:
Ducere,quo vellet. Fuit haec sapientia quondam,
Concubitu prohibere vago; dare jura maritis;
Oppida moliri; leges incidere ligno.
Carminibus venit ec...
Sic honor, et nomen divinis vatibus, atque

Ne' divini carmi delle tre cantiche non

ebbe intento diverso l' Alighieri, poeta sommamente civile, che pel viaggio dei tre regni dell'altra vita, conduce a ca per questo calle l'umanità vivente. Di Orfeo scrive nel Convito: Dice Ovidio, che Orfeo facea colla cetera mansuete le fiere, e gli alberi e le piante a se muovere; che vuol dire, che 'l savio uomo collo strumento della sua boce facea mansuescere e umiliare li crudeli tà coloro che hanno vita di scienza e di cuori: e facea muovere alla sua volon

(a) Nel Convito: E dico, che se difetto sia nelle mie rime, cioè nelle mie parole,.. di ciò è da biasimare la debilità dello 'ntelletto, e la

cortezza del nostro parlare. Nostro intelletto, cose salire; perocchè la fantasia non puote per difetto della. . fantasia, non puote a certé aiutare... - Ancora è posto fine al nostro ingegno, a ciascuna sua operazione, non da noi, che più ampi sono li termini dello'ngegno a ma dalla universale Natura; e però è da sapere pensare, che a parlare, e più ampi a parlare che ad accennare. Questo fà che il poeta invochi l'aiuto delle muse, ove all'altezza de' suoi concetti vede venir meno la potenza della parola.

Si che dal fatto il dir non sia diverso.
Oh sovra tutte mal creata plebe,
Che stai nel loco, onde parlare è duro,

arte: e coloro, che non hanno vita ra-
gionevole, alcuni sono, quasi come
pietre ec. Pure non invoca qui egli nè
le muse che inspirarono Orfeo, nè con
Calliope le sante Muse che gli avvalora-
rono le ali dell'ingegno al secondo volo
della poetica fantasia, nè tampoco la di-
vina virtù del buon Apollo che lo regge
all'altezza dell'Infinito: ma dimanda aiu-
to alle donne che aiutarono Anfione a
costruire le mura di Tebe, città di me-
morie funeste, dove le frodi, i tradimen-
ti, i fratricidi, le stragi, ruppero i più
sacri vincoli della umanità. Le muse che
lo aiutino a descrivere il pozzo, che gli
diede sembianza di una città munita di
torri, debbono dettargli rime aspre e
chiocce,convenienti a quella rocca,intor-
no alla quale torreggiano superbi gigan-
ti, e ricingono un popolo di traditori.
Anfione potè col canto edificare le mura
di Tebe: Dante o costruisce Dite co' suoi
versi immortali, o intende ritrarre agli
occhi nostri un esempio delle Tebi no-
velle, onde riesce a non solo l'edifica-
tore della città dolente; ma cantore po-
lilico ancora, fondatore de' civili co-
slumi (a) ».

CHIUDER, di muro. È vero che « Di città che si edifica, En., I: Concludere sulco. Tommaseo. Ma lì si parla dei siti che le turbe tirie insolcano ai propri alberghi:

Pars optare locum tecto, et concludere sulco. Qui s'intendono le mura che circondavano e munivano tutta quanta la città di Tebe,dette perciò moenia; essendo stata essa già prima, come dicono le favole, fondata da Cadmo per opera di cinque di quegli uomini che nacquero de' denti del dragone da lui ucciso. Anfione fece, al suono della sua lira, discendere dal monte Citerone i sassi, di cui si costrussero le mura, ond'egli la volle chiusa.E questo dimostra quanto vaglia l'eloquenza, e l'incanto delle arti gentili a ridurre gli uomini rozzi a viver civile, ed instillare negli animi loro quella concordia di

(a) Tommaseo, Illustr. al Canto XXXII,

virtù e di onesti costumi, ch'è la rocca più inespugnabile alla difesa de'cittadini.

12. DAL FATTO IL DIR NON SIA DIVERSO:

Le parole ritraggano appieno e ade-
guatamente IL FATTO, ciò ch' io real-
mente vidi. Inf. IV, 147:

Che molte volte al fatto il dir vien meno.
Factum et verum sunt idem. Vico.
Il Tasso, Ger. VI, 39:

Or qui, Musa, rinforza in me la voce,
E furor pari a quel furor m'inspira;
Si che non sian dell'opre indegni i carmi,
Ed esprima il mio canto il suon dell'armi.
13-14. Оn SOVRA TUTTE ec. Rimem-
brandosi di quelle anime, il Poeta esce
exabrupto in questa esclamazione, e ri-
badisce la sentenza già detta, della im-
possibilità di adeguare le parole ai fatti;
significando già per questo stesso esser
tanto più misera, quanto più dura e dif-
ficile ad esprimere, la condizione del
luogo e di quelli che vi sono dannati.

13-15. ОH SOVRA TUTTE ec. In sent.: 0

gente di tutte le altre, che per lo Inferno e su nel mondo ci sono, la più vile e sciagurata; e che però stai a penare in luogo si orribile, che mi è pur difficile di ritrarlo a parole: deh foste stati non già uomini, da dover poi portare si grave pena de' vostri tradimenti;ma stupide bestie: chè sareste stati almanco in alcuna parte utili agli uomini, e l'anima vostra morta col corpo, non andava dannata agli eterni supplizi. Voi invece nasceste male e viveste peggio; la natura vi fe ragionevoli,ed ella ora si pente di voi,come di mostri peggiori degli elefanti e delle balene; perocchè avendo il lume dell'intelletto,voi vi comportaste in vita, meno da uomi ni, che da belve disumane e crudeli.

13. Оu. La più parte pigliano questa voce come interiezione, e la scrivono Оn. Si trova eziandio O, senza la lettera d'aspirazione, nel Codice Cassinese, e in altri testi. L'esclamazione che sta si bene in questo luogo, si appropria la detta particola; ma l'è pur dessa senza l'n,come la scrissero il Landino e il Biagioli;

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