Carlo Magno perdè la santa gesta, no sarebbe fioco verso il suono del cor- Anche il Tasso (Ger. C. IV) paragona il suono della tromba infernale con lo stridere della folgore, e il tremore da esso prodotto nel tartaro col terremoto: Chiama gli abitator dell'ombre eterne Il rauco suon della tartarea tromba: come dopo l' Alfieri notò il Biagioli: col 17. PERDE LA SANTA GESTA. Per noi cotesta gesta è il conflitto, in cui furon trucidati i trentamila cristiani e Orlando suo corno, e raccoltisi intorno a sè un cento soldati cristiani, rinnova arditamente l'assalto, uccide Marsilio con molti de' suoi, e mette gli altri in fuga; ma egli ferito dalle lance nemiche, vedendosi presso a morire, dà novellamente fiato al corno, e di tanta forza che Carlo di lungi otto miglia n'ebbe udito il suono (*): bentosto risaputo ogni cosa, si mosse a gran giornate a perseguitare i nemici; e raggiuntili non lungi da Saragozza diè loro sull'Ebro tal rotta, che pose fine alla guerra di Spagna. Volle che il perfido Gano venisse legato a quattro cavalli e squarciato in quarti. (*) Il Portirelli dice che Orlando per aver sonato si forte, scoppiò per lo ventre e mori. Anche il chiosator Cassinese: Ipse Rolandus mortuus est fraclis venis gucturis ita sonando fortiter ut dictum est. morto: è il res gesta de' Latini; complessivamente la frase ritrae molto dal loro male rem gerere, preso parzialmente per un fatto d'arme rovinoso e infelice. Sporre il vocabolo per impresa, nol ci consente la storia; perciocchè la santa impresa, di liberare la Spagna dal giogo de' Mori, non venne però meno a Čarlo. Non sapremmo assegnare altra ragione, perchè il Cassinese sopra la voce gesta apponga la postilla sotietatem, e risolutamente nelle chiose marginali si dica: dum... Rolandus... remansisset cum alia gesta idest sotietate ad custodiam cuiusdam contrate dicte roncivallis ec. PERDERE LA SANTA GESTA non parve a quell' espositore poter altro significare, che la disfatta della santa schiera, che pugnò per la fede di Cristo, e col suo sangue sparso meritò corona di martirio. SANTA GESTA. Di quei tempi erano santi anco gli eccidi che si facevano col fine o col pretesto di propagare il nome cristiano (a). GESTA. Vedi C. VII, 20, nota. 19. IN LÀ: verso il luogo, onde veniva (a) Ci piace al proposito qui arrecare i seguenti versi del Pulci. Morg. XXVIII, 38 segg.: Credo che al tempo di que' paladini, Perchè la fede ampliasse di Cristo, Che mi parve veder molte alte torri; il suono (v. 15). VOLTA LA TESTA. Al 21. TERRA: cillà. Così terra è detta Ravenna (Inf. V, 97), e altre città, come Firenze, Mantova, Lucca, Forlì, Rimini ec. in altri luoghi. 22-27. PERÒ CHE еc. In sent. Vedrai che non son torri, e che gli occhi tuoi non hanno da lontano scorto il vero. 22-24. TRASCORRI coll' imaginazione più che l'occhio non tira. Tomm.-Il trascorso è qui chiaramente addebitato non all' imaginazione, ma agli occhi, che spingendosi troppo lungi attraverso le tenebre, forando l'äer grossa e scura (v. 37), non possono trarre a sè, ricevere chiara e distinta l'imagine degli obietti; e lo spirito erra, se giudica dalla sensazione alla cosa reale. Insomma, posto tale impedimento, non può l' uomo apprendere e formare in sè la vera idea, od imagine di ciò che vede. E questo ne pare che sia: NEL MAGINARE ABORRI: parole che accennano proprio l'istante, in cui la percezione è idea, ma d'una vaga e confusa obiettività. 20 gi. Questa locuzione è secondo il Biagioli una forma ellittica equivalente a quest'altra: dalla distanza ch'è lungi; ma non sappiamo che volesse intendere il sottile grammatico per una distanza ch'è lungi; come noi non intenderemmo, in senso opposto, una vicinanza ch'è da presso: e quel dalla lasciato senza il nome può star egli solo per ellissi? Degli aggettivi nessuna difficoltà; un segnacaso, una preposizione articolata senza il sustantivo sarebbe un assurdo grammaticale e ideologico; considerando che un segno di rapporto non può aver luogo dove non sia espresso il termine di esso. Ma qui ogni difficoltà è levata, se riflettasi che dalla lungi è lo stesso che dalla lunga, e che questo è sibbene anch'esso un modo ellittico, ma in quanto vi è sottinteso il nome distanza, siccome nelle locuzioni: ir per la corta o per la lunga, si supplisce via. E lungi qui non è avverbio, ma vero aggettivo; non altrimenti che quando diciamo: l' ora è tardi, di chiarezza pari, scusa leggieri ec. Il Petrarca: Si profondo era, e sì di larga vena Il pianger mió, e si lungi la riva, Ch'io v'aggiungeva col pensiero appena. dove lungi è lunga per lontana. La quale uscita ritenendosi nel plurale, vien che si sia detto (Vit. S. Mar. Madd. 103): Molli infermi ci sono abbondati e da lungi (lunghe, lontane) parti venuti. DALLA LUNGI, adunque vuol qui dire Virgilio, dalla lunga, cioè, dalla lontana distanza onde Dante guardava. 24.MAGINARE « per imaginare è una di quelle aféresi usata talvolta dagli antichi, la quale, tuttochè non isdegnata, come qui si è veduto, da un Dante, niuno oggidì s'ardirebbe d' adoperare, il quale avesse fior di giudizio » (a). Ima (a) Gherardini, Voci e maniere di dire ital.ec., Milano ec. 1840.Voc. Dalla lungi o Dalla lunge, 23. DALLA LUNGI: da lontano, da lun- Vol. II, pag. 358, § VII. Tu vedrai ben, se tu là ti congiungi, Quanto 'l senso s'inganna di lontano: 25 30 25. SE TU LÀ TI CONGIUNGI: Se tu l'accosti, e unisci là ove ti par aver veduto la terra, della qual tú domandi. Vellut. Intendendo Virgilio parlare dell'avvicinarsi alla proda che il pozzo circonda (v. 42), usò bene il verbo congiungere, come i Latini dissero appellere, applicare, accostare, attaccare, del naviglio che giunge a riva. Congiungere poi vale legare e appressare, come il suo contrario disgiungere importa e sciorre, e allontanare. ginare è qui nel sentimento suo proprio di fare le imagini, rappresentarsele secondo la forza del vocabolo latino da cui il verbo è tratto, non mica nell' accettazione filosofica di riprodurre i fantasmi. Gr. Eixovizw. Or vedano i dotti se qui Dante abbia voluto usare un' aferesi, piuttosto che tenere alla radice stessa onde si trasse la voce magi, che primitivamente si disser gli uomini meditabondi e occupati nella cognizione delle cose: tanto più che anche Dante sapeva bene come l'errore stesse nel giudizio non mica nella sensazione. E se così fosse, noi, contro l'avviso del Gherar-siderio di tosto veder quello che di qui 27. Te stesso puNGI: affrettati; il dedini, diremmo questa voce maginare valer tant'oro, come vocabolo necessario alla scienza psicologica. ΤΟ ABORRI per ABERRI: vai lungi dal veroti sbagli. Bargigi, che legge abborri. Tutti gli altri testi col Cod. Cassin. vi hanno il b scempio. ne « Benchè questa voce (così il Gherardini op. cit.) non abbia finora trovato ospizio ne' Vocabolari: ma sarà fatta un di ragione a' suoi diritti; giacchè lo Errare, che ad esso sostituisce la Crus., lascia pur troppo desiderar l'opra di lui, come quello che in forza della prepositiva ab non pure esprime lo Errare, ma lo Errare dalla dirilta via per calcarne la storta ec. »> E nel traslato vale confondersi, come dal seguente passo del Dittam. 2, 31: Maraviglia sarà se riguardando La mente in tante cose non abborri. dove abborri per aberri è riferito alla mente quasi necessitata a confondersi nel riguardare le tante meraviglie di Roma (che tale è il concetto di Fazio) essendo facile a comprendere, come s' abbia a tenere per uomo che si sia confuso, chi aberra o esce del diritto cammiABORRI: erri dal vero. Il latino: a vero abhorrere. Tommaseo. - Vedi Inf, XXV, 143-144, nota. no. 26. IL SENSO: cioè, della visla. non ben discerni, ti sia stimolo a camminare. Nel Convit. Tratt. IV, Cap. XXVI. E questo sprone si chiama fortezza... la quale verlule mostra lo loco ove è da fermarsi e da pungare. 28. POI CARAMENTE ec. Vien questa dimostranza di affetto molto opportuna a più rincorare l'alunno, dopo la reprensione (C. prec. v. 131 seg.); e a rassicurarlo ora ch'è per dirgli (v. 31) Sappi che non son torri, ma giganti. La ragione sa quando s'adiri, e quando si abbia a far le sue care dimostranze. Nel primo ingresso dell' Inferno (C. III. 19 segg.): E poichè la sua mano alla mia pose Con lieto volto, ond' io mi confortai, Mi mise dentro alle secrete cose. Simile qui, che il Poeta è per vedere de' mostri, e discendere alle più orrende stanze infernali. 30-31. IL FATTO : la realtà, cioè, che non son torri, ma giganti. Il fatto e il vero son la stessa cosa. Vico lo dimostra, anche per argomenti filologici, nel libro: De antiquiss. italor. sapientia. Il Blanc qui interpreta 'L FATTO, l'alto compito. MEN TI PAIA STRANO: Int. Acciocchè il vero, o il veder le cose nella loro figu Sappi che non son torri, ma giganti: E son nel pozzo intorno dalla ripa ra, non abbia per la novità a spaurir- 32-33. SON NEL Pozzo. S. Giov. Ev. vide (Apoc. IX.) cadere in terra dal cielo una stella, a cui era data la chiave del pozzo d'abisso: aperto n' esala un fumo come di gran fornace; e di questo usciron sopra la terra delle locuste nocive come gli scorpioni a coloro che non avevano in fronte il segno di Dio. Erano come cavalli parati al combattere, con testa incoronata, con capelli di donna e con denti di leone. L'ill. Tommaseo, che in fine della prima cantica ha poste delle preziose e peregrine osservazioni intorno ai Giganti, nota in questo luogo che: Ne' drammi francesi l'Inferno era figurato in un pozzo di pietre nere. Non inutile erudizione; ma Dante tolse, a nostro credere, il concetto del pozzo infernale intorniato da' giganti, dalle sacre scritture, che vedono in quelli gli uomini, che al mal volere e alla forza brutale congiunsero l'astuzia per ingannare, signoreggiare ed opprimere altrui. In Ezech.XXXII,23: Quorum data sunt sepulcra in novissimis lacis: et facta est multitudo ejus per gyrum sepulcri ejus: universi interfecti, cadentesque gladio, qui dederunt quondam formi dinem in terra viventium. Ne'Prov. IX, 18: Et ignoravit quod ibi sint gigantes, et in profundis inferni convivae ejus. — Job. XXVI, 5: Ecce gigantes gemunt sub aquis et qui habitant cum eis. Virgilio stesso avea già (En. VI. 577 seg.) cantato: Tum Tartarus ipse (bras, Bis patet in praeceps tantum,tenditque sub umQuantum ad uetherium coeli suspectus Olympum. Hic genus antiquum terrae, titania pubes, Fulmine dejecti, fundo volvuntur in imo. Dante adombra ne' giganti la superba e incivile empietà (a). Anteo fu figlio di Nettuno. La fama gli dà quaranta cubiti, e fu pure vinto da Ercole, mito della forza onesta soggiogatrice de' violenti. Questo gigante nato anch' esso della Terra, benchè non fosse di quelli che fecero la scalata all' Olimpo, visse pure avverso ad ogni vita civile. Non fu novissima l'idea del Vico che stati vi fossero, come più Faraoni, così più Ercoli domatori d'idre, di leoni,di centauri, di arpie, di Gerione e di Caco ec. simboli tutti della vita ferina e fuori ogni regola di ragione. La Bibbia ricorda i trionfi che con la superbia, con la forza e con della possanza divina contro i giganti, la malizia assoggettaronsi le genti, e le oppressero i poeti gli mettono in conflitto con Giove, mito della giustizia e dell'ordine. Cicerone (De Senect.): Nunquid est aliud gigantum more bellare cum Diis, nisi naturae repugnare? Ne' Prov.: Vir qui erraverit a veritate doctrinae in coetu gigantum commorabitur. E S. Agostino: Si videris hominem fecisse iniquitatem, mersus est in puteum. Della mente disordinata, che si aggiunge alla stragrande forza di questi mostruosi figliuoli della Terra, è argomento che i poeti gli finsero dal mezzo in giù serpenti, significando che cotestoro non si alzano sulla terra, nè camminano, se non istrisciandosi tortuosamente. Quale che fosse la generazione, l'altezza, la storia di questi giganti, non difficile comprendere che genia di uomini venisse significata sotto questo nome. Nella più infelice delle età, Ovidio (Met. I, 151 seg.) ci narra la pugna dei superbi mortali contro il Cielo: Neve foret terris securior arduus ether, Altaque congestos struxisse ad sidera montes. Affectasse ferunt regnum coeleste Gigantes; Tum Pater omnipotens misso perfregit Olympum Fulmine, et excussit subjectum Pelion Ossae. Obruta mole sua cum corpora dira jacerent, Perfusam multo natorum sanguine Terram Immaduisse ferunt, calidumque animasse cruo(a) Tommaseo, Inf. pag. 459. (rem: Come, quando la nebbia si dissipa, Et,ne nulla ferae stirpis monumenta manerent, Et violenta fuit: scires e sanguine natam. Emissumque imâ de sede Typhoea terrae della lor forza e malizia domata da Gio- Tilanas, immanemque turmam Imperio regit unus aequo. Pelion imposuisse Olympo. Omne nefas animo moventes. 35 Medusa nel sesto, il Minotauro, i Centauri e le Arpie in diversi luoghi del settimo, Gerione all'entrata del cerchio ottavo: qui alla discesa del nono ci si mostrano i Giganti; i quali perchè superbi son più vicini a Lucifero, e come più frodolenti oppressori degli uomini stanno fitti intorno al pozzo de' traditori. (V. Inf. XI, 61-66.). Non è a dubitare qual genia d' uomini si abbiano ad intendere per cotesti Giganti. Nel Purg. XXXII. 152, e XXXIII. 45, è probabile che il gigante introdotto dal Poeta sia figura di Filippo il Bello, re di Francia; e che Anteo, nel senso arguto degli versi straGuido dell'Antella vissuto nel 1300 (a). ni, adombri un Nero di Firenze a nome I tiranni oppressori de' popoli, i prepotenti, e cotali altri fantonacci che fanno dacia alla bestiale fazione del corpo,soaltrui paura, e sogliono aver pari l'auno per Dante i Giganti. Isaia, XXVI. 13 seq.: Domine Deus noster, possederunt nos domini absque te.... Morientes non vivant, gigantes non resurgant: propterea visitasti ét contrivisti eos, et perdidisti omnem memoriam eorum. L' Ottimo chiosa secondo un tal concetto: Questi giganti hanno a significare quelle persone le quali, per propria industria, potenzia e seguilo, vogliono nel mondo operare oltre il termine umano... Li poeli... metlonli combattitori con gli Dei; il quale detto ha a significare che tali abiti sono contra a Dio, non solo a disordinare loro medesimi, ma eziandio in mettere disordine tra le creature (b). (a) Torricelli, Studi sul Dante, Vol. I. pag. 278. Nap. 1850. (b) Armannino Giudice di Bologna, nella Fiorità,opera scritta nel 1325, crea un Inferno, che sebbene ritragga dalle pitture Virgiliane e Dantesche, è singolare per la novità de' supplizi. Noi arrechiamo quel tratto, dove tocca egli del luogo, delle pene e della natura dei Giganti: Questo è il settimo giro del Tartaro maggiore, che l'abisso si chiama, ove tormentati sono gli maggiori peccatori, i quali per loro superbia vollero pareggiare il loro Creato re... In ni peccatori; ma solamente quegli infortunati questo non vanno i minori nè i mezzache per niente ebbero il loro Signore, e che a |